MENTE LOCALE (COME SI FA A FARCELA)
PRIMA PARTE
LA PANCHINA ELETTRONICA
Per alcuni anni sono andato spesso nel vicino
parco, sulla collina di Kreuzberg, a rilassarmi un’oretta o due. A volte ci
trovavo dei pensionati, alcuni di origine italiana, o turca e si parlava del
più e del meno. Però le panchine tedesche sono fredde.
Il mio mal di schiena mi ha suggerito di
continuare a passeggiare nel parco, ma per conversare con la gente, che è
interessante e terapeutico, tipicamente umano (gli animali non chiacchierano)
magari meglio al caldo. Va bene anche attraverso il computer e internet.
Chiamiamoli interlocutori i personaggi di una immaginaria panchina nel parco, veri eppure virtuali, nel senso che a sedere là non ci vanno più e quindi non danno nemmeno da mangiare ai piccioni.
Non s'incontrano che in internet e parlano
piuttosto per email e neanche tanto frequentemente. Non hanno mai vissuto nella
stessa città, sono entrambi italiani, ma si sono conosciuti e incontrati solo
una volta, tanto tempo fa. Si sono fatti reciproca simpatia e tra le altre cose
che fanno, attualmente hanno voglia di rompersi il capo a cimentarsi in
qualcosa che la gente normalmente evita.
In immediata precedenza si è chiacchierato
attraverso stereotipi introduttivi: differenze tra metereologia europea e
brasiliana del sud, ma quasi in Argentina o Uruguay. Palesi o seminascoste
discrepanze tra i parametri tedeschi e italiani, tra brasiliani e italiani,
lucchesi e viareggini.
Cose che verranno fuori di nuovo e comunque,
non possono certo tacere.
Si passa direttamente alla ciccia arrostita
della discussione più concreta, che di cose da dire, cotte e crude, ce ne sono
anche troppe. E se devono per forza essere scritte, qui e ora la calma c'è,
pure per correggere ed eventualmente cambiare opinione.
Mi piacerebbe chiamare gente di altri paesi,
anche fare delle videoconferenze, (che tanto sono gratis,) per sentire cosa ne
pensano del consueto più o anche del meno, scriveremmo in italiano, ma solo per
praticità.
Chiacchierare una volta era uno sport più
diffuso, incontrarsi anche era giocoforza, invece ora le distanze, non solo
geografiche, incombono tra gli esseri umani, sempre più disumani, alla
frenetica ricerca di un qualcosa di cui hanno sempre meno idea, di una felicità
che li porta sempre di più ad essere infelici, guarda che combinazione.
Omero Tucci 1
Caro Ugo
spero che tu stia bene, io me la cavo ancora
abbastanza, nonostante l'età e le malattie avute, non ci lamentiamo e mentre lo
diciamo ci stiamo implicitamente già lamentando.
Non ti parlo della mia famiglia, almeno per
ora, per non dire cose già dette e riportarti noiosi stereotipi della vita
dell'uomo sposato, caso abbastanza comune, ma con una persona femminile di
nazionalità tedesca, con i figli grandi e scappati via appena hanno potuto e
questa è una delle grandi differenze con la vita italiana, dove i figli
rimangono in casa spesso fino alla morte dei genitori, e potendo anche dopo.
Le storie di amore non sono il mio forte, mi
sono sembrate sempre cose che capitano agli altri, la felicità pure è uno degli
argomenti che se si tratta di un film vanno anche bene, di un libro già meno,
ma in una vita vera bisogna spesso prendere quello che c'è in giro e non
sempre, o diciamo quasi mai, si tratta di rose e fiori, proprio mai quello che
ci aspettavamo, o che auspicavamo, insomma che desideravamo.
Il mio ristorantino qui a Berlino però
confesso che mi piace sempre di più, nel mio piccolo mi rallegra e mi da' anche
soddisfazioni non indifferenti, come ti avevo già raccontato, ma anche tante
gatte da pelare e da mettere in salamoia. Anche se in Italia so benissimo che
sarebbe peggio e magari anche per questo sono qua.
La vita c'impone regole da dare a noi stessi,
prima che ce le diano gli altri, se lo facciamo dopo pazienza, l'importante è
che non ci nascondiamo e non fuggiamo da noi stessi, perché oltre che inutile
sarebbe stupido. Eppure in tanti lo fanno, e sistematicamente.
Forse te l'avrò già raccontato, non mi
ricordo bene, magari te lo avevo solo accennato, nel qual caso con ogni
probabilità te lo sarai già dimenticato. Di mio padre Anselmo insomma, il quale
con malcelato orgoglio diceva che grazie
alla sua filosofia era riuscito a superare le aspre difficoltà della vita.
Quando lo diceva però le facce intorno parevano piuttosto perplesse, ma
tacevano forse curiose di sentire quello che avrebbe dichiarato in seguito. Con
il mio acquisito e mutante senno di poi, direi per tre motivi fondamentali:
uno) era l'incredulità che
proprio lui avesse la faccia tosta di dire una cosa del genere,
due) era la scarsa comprensione
del significato della sua affermazione,
tre) era l'opinione
decisamente contraria sull'argomento in questione.
Per quanto mi riguardava io alternavo e
condividevo le tre correnti di pensiero, con il passare degli anni e piuttosto
a intermittenza, a due a uno, o le rifiutavo tutte e tre insieme. Ma una cosa
fu proprio utile, devo ammetterlo: mio padre riuscì a stimolare la mia
curiosità.
Anche se su di lui non aveva funzionato un
granché, o forse proprio per questo, non volendo, mi spinse a informarmi, e a
scoprire che il mondo ne era pieno e vuoto allo stesso tempo.
Che diavolo era questa filosofia?
Tanto per cominciare al liceo scientifico la
professoressa di tale materia era una di quelle con la faccia inespressiva,
sulla quale rimbalzavano invano le saette, che si metteva seduta e faceva la
sua lezione fregandosene se qualcuno ascoltava, oppure no. Forse allora la
filosofia era l'indifferenza, pensai, ma non mi garbava tanto, dal fuori era
una noia mortale e poi non ero sicuro che fosse proprio quella, anzi ne
dubitavo.
I vari filosofi dei testi si impegnavano nel
cercare dei sofismi - secondo me - appena utili solo a sé stessi e a dichiarare
cose rivoluzionarie e fondamentali, ma molto diverse tra di loro, sebbene
all'epoca dell'effettivo ed eventuale significato o messaggio io ne avessi
un'idea molto vaga. Mi parevano comunque persone che al mondo ci stavano male e
trovavano alla loro afflizione delle opportune giustificazioni, un po' per
scaricarsi il peso, indirettamente dare la colpa agli altri, alla situazione
delle situazioni, all'esistenza in genere, a Dio o a chi per Lui.
Cominciai forse a capirne il senso,
dell'utilità di una personale filosofia di vita, quando andai in India e
conobbi, per sommi capi, la scuola che insegnava la non competitività. Per me
era un concetto nuovo, tutto attorno a me, nella mia vita italiana, fino a quel
momento, era basato su tale gara quotidiana, che effettivamente non mi era mai
piaciuta. Però non sapevo perché, né avevo la minima alternativa a portata di mano.
Nel frattempo mi ero letto con passione i
libri di Luciano De Crescenzo, che parlavano della filosofia greca e lì con
Socrate mi sentii subito affine, per quanto non capissi tutto e forse meno
della metà di quello che era piuttosto vago ancora, ma si delineava già meglio.
Perché poi aveva accettato di morire per le
sue idee, bevendo la cicuta? Chi glielo aveva fatto fare?
Il senso della vita inoltre era un argomento
sopraggiunto e pieno di interrogativi complementari e supplementari, e la
fottuta filosofia c'aveva un aggancio non indifferente.
Avevo passato la trentina e vidi che tutto
quello che avevo attorno, ridotto ai minimi termini, era il bisogno di una
certa filosofia di vita ben calibrata, che determinava se un individuo poteva
riuscire a stare bene o male al mondo, perché le difficoltà erano tante e di
parecchi tipi differenti. Sapersi muovere là in mezzo, fuori dalla porta di
casa, significava soprattutto conoscere sé stessi, la gente e di conseguenza il
mondo. Dentro era una cosa e fuori un'altra, ma in entrambi i casi bisognava
avere una efficace linea di manovra, sia teorica che pratica.
Il corpo era la prima cosa da conoscere però,
a partire dall'alimentazione, uso di alcolici o droghe varie. Insomma non lo si
poteva maltrattare, che il conto ci arrivava poi immancabile e salato, da
pagare con il proprio sangue.
Quando sei giovane passare notti insonni, ore
senza mangiare, bevendo tremendi miscugli di alcolici è normale e comune, anche
per capire prima possibile come comportarsi per non risultare troppo
insensibili nei confronti della nostra parte fisica, nel prossimo futuro, che
anche quella ha la sua importanza e non la si può semplicemente ignorare.
Secondo un mio amico filosofo, il senso della
vite è migliore e più interattivo del senso della vita, più alla nostra
portata, che purtroppo siamo esseri limitati e sempliciotti. Insomma lui lo
preferisce e mi ha spiegato anche perché. Forse significa prendere tutto per gioco ma sul serio,
sorprendersi a ogni momento dei miracoli del mondo che avvengono attorno a noi,
insomma bisogna fare sì un po' di attenzione, ma non troppa.
A suo tempo io ho sposato una bella e bionda
tedesca (Marie Therese, diminuitivo Maite) e i miei figli, bellocci ma un po'
meno biondi, hanno sempre parlato in tedesco, non hanno imparato l'italiano. A
casa ci stavo e ci sto poco, per via del mio lavoro, a volte al ristorante ci
dormo anche, c'ho una cameretta piccola con la TV, il video e i libri eccetera.
Siamo gente che non possiede mai la
necessaria calma per poter parlare con calma, oppure raramente. Fretta e
interruzioni, nervosismo indotto e inconscio, cervelli che pensano sempre fuori
dal presente indicativo, fate come volete voi, alla fine il risultato è quello,
e non è bello.
Tante sono le cose da fare in una giornata di
ordinaria e moderna esistenza, che ricordarsi di portare a termine le azioni e
i propositi è difficile per tutti.
Caro Ugo, mi ricordo del nostro unico
incontro di viaggio con la Mitfahrzentrale, bei tempi, ero ancora libero e
sposarmi mi pareva impossibile. E i figli? Lasciamo perdere! Avere un
ristorante mio, sembrava altamente improbabile e dormivo una notte sì e due no.
Mi hanno detto che in Brasile queste agenzie
si chiamano Bla-bla-car, ma se uno non ha voglia di parlare?
Ugo Lai 2
Carissimo Omero,
tu mi parli di filosofia e devo intervenire.
Sai che sono un tipo concreto, il mio lavoro di ingegnere navale mi porta a
questo. Beh, sono io che l’ho cercato –
il lavoro, intendo – e quindi la concretezza in me c’era già.
Accetto di buon grado…. cioè, non è che
l’accetto: l’assumo. Volevo dire: un bel sì alla filosofia di vita, cioè quello
in cui uno crede e poi lo mette in pratica, perlomeno ci tenta.
Ma la filosofia da sola, questa affannosa
ricerca dei significati della vita, mi sembra cosa di chi non ha niente da
fare. Molto tempo libero, molto pensare. A volte lo sono anch’io un po’
filosofo, ma quando sono in ferie. Non so se è pura invidia: insomma, mi
piacerebbe avere parecchio tempo per pensare.
Sta di fatto però che hai nominato De Crescenzo,
da cui ascoltai le parole “sono un ottimista realista, quindi un pessimista”
riprese da non so chi. Mi ci rispecchiai subito. Quindi, in definitiva, viva i
filosofi che hanno tempo di pensare anche per me!
La mia filosofia di vita (legata al lavoro),
riprendendo il discorso che non avevo ancora cominciato, mi ha portato in giro
per il mondo, soprattutto in riva al Pacifico, in Cile, Messico, Giappone, per
poi approdare – chissà se in maniera definitiva – sull’Atlantico, in Brasile.
A pensarci bene, è stato l’Atlantico a
scegliere me. Atterrato a Porto Alegre, prima di andare a Rio Grande per
lavoro, decisi – su consiglio del mio collega Alberto – di andare in direzione
opposta, verso nord, a Torres. Era l’unica spiaggia che si evidenziava nei circa
600 chilometri di costa del Rio Grande do Sul, secondo questo ingegnere.
Infatti me ne innamorai subito.
È lì che avvenne il mio battesimo atlantico.
Passato il ponticello di legno ai piedi di quello che è (anche) chiamato “Morro
das Furnas” - lato nord, arrivai in un piccolo spiazzo elevato dove normalmente
ci sono pescatori, che infatti erano là. Mi avvicino ai bordi di questo che in
definitiva è un grande scoglio e sento un rumore sordo. Capisco cosa era quando
davanti vedo una parete d’acqua avanzare verso di me. Troppo tardi per
scappare, mi girai e aspettai l’onda per l’inevitabile bagno.
Meno male che, seppur fosse agosto, la
temperatura era mite e quindi non ebbi conseguenze sulla salute. Ora a Torres
ci abito, dato che lavoro a distanza e a Rio Grande devo andarci solo un paio
di volte al mese.
Preferisco Torres, perché è meno caotica per
buona parte dell’anno. Da poco prima di Natale a fine febbraio, come sai, me ne
scappo in Toscana, a Toiano, paese con tre abitanti ufficiali che diventano
quattro in quel periodo dell’anno. Sono gli unici mesi che vivo lontano dal
mare: beh, lontano molto relativamente. Ma chi nasce davanti alle onde non può
lasciarle per molto tempo e un viareggino come me non fa eccezione.
Andrei nella mia città natale, se non fosse
per il Carnevale che vuol dire, per me, confusione. Più lontano dagli esseri
umani, meglio è. In questa situazione, il mio soprannome, “Remoto”, appare
azzeccato, anche se nato per un’altra ragione.
Mio padre si chiamava Pierferdinando e per
via della lunghezza del suo nome, decise che il figlio, anzi, i figli,
dovessero avere un nome corto .Così sono nato io, Ugo, e successivamente Ivo ed
Eva.
Questo mi ha provocato il primo scontro con
la razza umana: al momento dello studio dei verbi, a quelle che una volta si
chiamavano scuole elementari, i miei compagni iniziarono a prendermi in giro,
chiamandomi “Passato remoto”. Dicevano, infatti, che io ero il “passato remoto
del verbo ugolare, io ugolai, tu ugolasti, egli ugolò….”: mi canzonavano
giocando sul mettere insieme il mio nome e cognome, Ugo Lai. Inutile che io
dicessi che “ugolare” non esiste, anzi: la mia arrabbiatura rendeva il tutto
più divertente, chiaramente per loro.
Qualche anno più tardi, alle superiori, un
altro compagno di classe decise che il mio soprannome aveva bisogno di un
taglio, perché così com’era a chiamarmi si perdeva troppo tempo. Allora
potevano chiamarmi semplicemente col mio nome, Ugo: mi era stato appioppato
apposta! Ma niente, il soprannome rimase, dimezzato, ma rimase. E così per
tutti sono diventato “Remoto”. Che come vedi, in definitiva mi si addice.
Ti rispondo sulle Bla-bla-car. Io ne ho presa
una in tutta la mia vita, quella con te. Siccome ho avuto fortuna, nel senso
che ho trovato una persona con cui effettivamente ci parlo bene, soprattutto
quando abbiamo opinioni differenti, non ne ho presa più una. Così ho il 100% di
gradimento. Poi sai che a me non piace molto parlare. Quella volta a Berlino fu
un caso, una necessità improvvisa, come ti dissi subito.
Tu, invece, hai avuto successivamente altre
esperienze, magari curiose?
Omero
3
Spero che tu stia bene, in forma sotto ogni punto di
vista, nei limiti del possibile, considerando che anche lì in Brasile il mondo
decadente starà facendo il possibile per portarti verso qualcosa di più vicino
al contrario. Resisti!
Chi ama il mare e forse anche solo l'acqua, per me, ama
la libertà. Nel mio ristorantino ho messo su diversi acquarietti pieni di
pescetti colorati, più uno grande con i pesci da mangiare, che fa da parete divisoria
e mi è costato una cifra quadrata più diverse tonde. La manutenzione anche è un
lavoro a sé che mi sobbarco io, visto che manualmente non faccio altro. La
gente ci viene anche per ammirarlo, che modestamente è una succursale
dell'acquario di Genova, ma senza squali.
Con la Mitfahrzentrale ho avuto diverse altre esperienze,
tutte buffe e/o didattiche in qualche maniera. Sai che a Berlino c'è quella per
sole donne, o solo per omosessuali?
In particolare mi ricordo un viaggio con un abruzzese di
Pacentro, cameriere di ristorante in loco, più due tedeschi simpatici, ma che
parlavano meno assai. Quando ci lasciammo a Firenze lui ci dette l'indirizzo
per scrivergli, magari. Poi non ha mai risposto alle mie due lettere, però
durante il viaggio ci aveva raccontato tutta la sua vita, ideali, progetti,
filosofia spicciola e quotidiana, che ci aveva annichilito tutti e tre. Doveva
essere il 1984 o 85, mi pare.
Penso che il Brasile e Berlino abbiano qualcosa in
comune: la mentalità aperta. Per il resto il tedesco e il brasiliano sono quasi
opposti come maniera di vivere, e dal punto di vista filosofico. I tedeschi
hanno avuto in passato un sacco di filosofi importanti, i brasiliani cominciano
recentemente ad averne qualcuno attualmente, ma senza grosse pretese.
Lungi da me il pensiero di scassarti i
cabbasisi, ma per capire bene cosa io sento importante per la mia vita, ti devo
mettere un minimo al corrente della storia che spesso racconto anche ai miei
clienti, ma solo se me la chiedono e ti dirò che mi succede abbastanza spesso.
In tanti mi comunicano che la mia, secondo loro, è una
creazione piuttosto originale, nell’ambito dell’enorme schiera di ristoranti
che esistono qua a Berlino, solo di italiani ce ne sono 800.
Io gli rispondo che potrebbe essere perché non sono un
ristoratore come gli altri, cioè a me 'sta passione mi è venuta solo in
vecchiaia, anche perché prima non mi ero certo soffermato tanto a pensare a
certe cose.
Da una decina di anni invece ho capito che noi italiani
c’abbiamo un fottuto dono speciale per la gastronomia, una fortuna e un talento
che non solo non dovremmo sprecare, ma che è anche una cosa assai romantica.
Quando ero bambino il primo negozio che mi è interessato,
o che mi affascinava, era quello di giocattoli; in un secondo momento il
negozio più bello per me era quello di caccia e pesca, dopo c'è stato il
negozio di dischi, poi quasi alla stessa epoca quello di libri. La libreria e
poi quello dove si affittavano o si compravano cassette video. Dopo, per una
certa epoca, volente o nolente, nei bar e nei ristoranti, per quanto mi
affascinassero poco, ci ho lavorato abbastanza. Tanto da capire che può essere
bell'assai, ma che spesso o quasi sempre viene fatto senza entusiasmo, senza
voglia di fare veramente qualcosa di gratificante per te e per i tuoi clienti,
volenti o nolenti.
Lo so, i soldi avvelenano tutto. Specialmente se le cose
non ti vanno bene, finisci per pensarci troppo, anche se non ci volevi pensare
per niente, perché ti mancano, hai preso un prestito e potresti anche fallire,
perdere tutto il lavoro e il capitale, insomma le prospettive di sopravvivenza.
Ed è per questo che piuttosto frequentemente si ignora il punto di vista
fondamentale, l'obbiettivo primario.
Vale a dire la qualità, non solo del mangiare, ma di una linea
generale, di arredamento, decorazione e di servizio verso un cliente che prima
si deve abituare a un qualcosa che di solito non gli viene dato.
Cioè sentirsi come a casa, ma non troppo.
Nella gastronomia c'ho visto tante persone intelligenti e
ottimi cuochi riuscire a distruggere quanto di buono ci avevano messo, a volte
quasi uscendone pazzi.
Male, anzi bene, diciamo così-così.
L'Artusi per molti è solo un famoso testo di culinaria,
ma di lì mi è venuta l'ispirazione, perché è un librone che ti comunica un
entusiasmo abbestia per una buona cucina, per una culinaria italiana e sana.
Per questo il ristorantino in questione l'ho chiamato il
Pellegrino, che poi dell'Artusi è il nome proprio, in suo omaggio e anche
perché prima di arrivare qui ho pellegrinato a sufficienza e ho una certa
esperienza. Che sarebbe poi quella che mi ha fatto interpretare il ruolo del
ristoratore e della buona gastronomia, dal punto di vista non patriottico, che
quelle per me sono baggianate, ma certo pratico e sentimentale, cercando di non
essere troppo nostalgico, perché l'Italia che mi garbava ormai quasi non esiste
più.
A livello gastronomico noi e pochi altri dobbiamo lottare
per mantenere quelle che sono tradizioni, ma non sono affatto cose obsolete,
anche se il nuovo arriva e vuole scalzare tutto, se ne frega della bellezza,
vuole solo la velocità e la modernità.
Il nostro piatto-tipo è eccellente, ma senza raffinatezze
inutili, le porzioni non sono né scarse né abbondanti, c'ho un cuoco albanese,
che lavora con me da sei anni. Zatti sa a memoria cosa deve fare e lo pago
bene, la cucina la dirige lui, ma so che ha dei gusti simili ai miei e accetta
suggerimenti e idee, sennò lo butto fuori.
Scherzo eh? Intendiamoci: se Zatti se ne andasse sarei
messo male assai, ma credo che si trovi bene con me, che non gli rompo tanto le
scatole come fanno gli altri padroni e oltretutto siamo pure quasi dei mezzi
amici. Anche se non si parla tanto, le occhiate dicono abbastanza, se ci vuoi
fare caso, durante il lavoro in lui io noto spesso orgoglio e giovialità.
La decorazione dei piatti c'è ma essenziale, l'occhio
vuole la sua parte, siamo d'accordo, ma non deve scassare eccessivamente la
minchia, se quelli vogliono delle cerimonie sanno che qui non ce ne sono
proprio e non ce ne sono mai state.
Non so se l'avrai capito, ma io disprezzo certe
ipocrisie. Quei ristoranti dove c'è una cortesia esagerata e leccapiedi io non
li sopporto, dove il cameriere non ti lascia nemmeno riempire il bicchiere e ti
fa sentire controllato in ogni tuo movimento. Così voglio che siano i miei due
camerieri, non proprio al contrario, ma piuttosto trasparenti, gentili ma senza
troppe smancerie e ruffianate, senza salamelecchi. Il cliente si saluta, certo,
se non siamo troppo indaffarati, ma non come se fosse il nostro salvatore dalla
miseria o la persona più simpatica del mondo.
Franz e Carlo non sono vecchi, ma nemmeno tanto giovani e
sono vestiti in borghese. Le divise, le livree o i pantaloni neri e camicia
bianca non mi sono mai garbati. Si lavora principalmente su prenotazione, si
fanno cose da portare via, si fanno consegne a domicilio, ma di insalate miste,
anche di pesce, carpacci e tartare, insomma solo piatti freddi, perché il tempo
e lo spazio possono rovinare pietanze meravigliose e dopo non c'è nessuna
scusante.
Non credo che esistano tanti ristoranti al mondo in cui
si contempli il ruolo del jolly, ma secondo me è fondamentale, per questo noi
abbiamo un calabrese quasi normale, a parte l'enorme massa corporea, Tino,
diminuitivo di Giustino, che sa fare tutto e fa anche le consegne, ma dove c'è
necessità arriva lui, non c'è bisogno neanche di chiamarlo.
A volte succede che non faccia in tempo a cambiarsi e
arrivi ai tavoli con le pietanze calde, dentro una cerata gialla da marinaio,
con il berretto gocciolante dello stesso colore, facendo però bene attenzione
che il liquido indesiderato non cada nei piatti. La gente ride e crede che lo
facciamo di proposito, ci vuole anche un po' di comicità in un ristorante, fa
parte della nostra tradizione.
Tino aiuta dappertutto quindi pure in cucina, che per
fortuna è spaziosa, inoltre è il nostro buttafuori, ma non ne abbiamo quasi mai
avuto bisogno, la gente lo guarda e non chiede nemmeno chi mai sia, ma si
comporta di conseguenza.
I prezzi non sono bassi, ma nemmeno alti, i clienti con
pretese assurde vengono convinti a cambiare aria o atteggiamento da me in
persona, sorridente ma non troppo, che sto in sala vestito come un cliente
qualsiasi.
Uno con l'occhio clinico, però, uno non eccessivamente
straccione, ma nemmeno troppo raffinato nei dettagli, che non sto a fare
l'imbonitore per nessun motivo al mondo. Non vado nemmeno ai tavoli per
chiedere se va tutto bene, ma se mi chiamano mi siedo e racconto aneddoti e
bischerate varie, nel senso che voglio divertire loro, se mi apprezzano come
persona, ma anche me stesso. Una cosa deve opportunamente alimentare l'altra,
sennò siamo fritti e con l'olio di soia.
Come ti avevo più volte accennato stavolta introduco
veramente quest'amica comune, di lei mi ero innamorato una trentina di anni fa,
o erano quasi quaranta?
Questo non lo voglio sapere.
Per fortuna che a suo tempo mi ha snobbato, sennò a
questo punto non saremmo certo amici come ora. Insomma Adalberta, detta
Albertina, è un'italiana che, per fare un'eccezione, non ha seguito la fuga dei
cervelli e ha mantenuto il suo, che è ragguardevole, insieme con il sistema
gastrico, stoicamente a soffrire nella penisola, non nella città dove è nata,
che è più un paese, Casale Marittimo, ma a Viareggio, dove sei nato te, forse
per caso.
Nonostante la sua amarezza verso l'Italia, la quale però
non accetta di lasciare che in vacanza, è una persona troppamente simpatica,
una ex bella ragazza che mi manda spesso telematicamente affanculo, se non
volentieri, come se fosse la prima epica volta, e di solito ha ragione lei.
Ultimamente Albertina mi ha detto che ti conosce, anche
lei è di Viareggio, non so da quanto tu te ne sia andato ma la devi aver
conosciuta lì, mi dimentico sempre di chiederglielo e poi è una che legge
perfino dei libri e si diletta con la penna d'oca virtuale come noi.
Anche te mi avevi parlato di una mezza amica,
recentemente conosciuta se non sbaglio, che voleva partecipare al nostro
dibattito, poi ha cambiato idea?
Albertina
Bombonato 4
Lo so perché mi avete invitato, per parlare
male dell'Italia, ma visto che vi ho sgamato non lo farò.
Mandami foto del ristorante, Omero, ho detto
al mio compagno che vorrei vederlo e mangiarci anche qualcosetta, ma quanto si
spende al Pellegrino? Martino ha detto che mi ci vuole portare, ma se ho ben
capito ci sono 1200 km di mezzo e ci vorrebbe una scusa plausibile per passare
qualche giorno là. A quanto mi dicono è una bella città, turisticamente
parlando, o no?
Voi siete scappati e forse avete avuto
ragione, ma vigliaccamente ci avete lasciato nelle peste. Io vi perdono perché
mi siete quasi simpatici, ma potrei sorprendervi e mi riconoscerete forse a
stento, se prima ero una ragazza atipica ora lo sono anche di più e come
italiana lasciamo perdere.
Qui una piccola fuga mentale, e spero quasi
letteraria, che ho scritto ultimamente, fatemi sapere se vi piace.
Cognomi maledetti
"Ho passato diversi anni in una specie
di bozzolo, dentro casa mia, vicino a Orte. Non ci si stava poi malaccio. Poi
ci trasferimmo, ma non siamo andati tanto lontano, a Ronciglione, vicino al
lago di Vico.
La parte seguente, quella di ora, è stata
molto più fitta, dicono che sia principalmente una questione di età, più
andiamo verso la vecchiaia e più il tempo passa in fretta.
Però io credo che i timidi come me, poi,
possono pure rompersi le scatole, di sé stessi e del mondo attorno e scoppiare
fuori e dentro, anche a più riprese. Botti di vino e botte in testa.
Insomma chi se ne frega dei cognomi? Direte
piuttosto giustamente voi, ma io da un po' di tempo mi sono convinto che quello
che sono io oggi è la mia storia personale, a cominciare da come mi chiamo e
dai miei antenati, dai loro cazzi di nomi.
Sbaglio?
E chi se ne fregherebbe di chi sono io, oggi?
Bando al nichilismo moderno, la mia storia personale,
dei miei stessi avi e il mio improbabile cognome, maledetto o benedetto da chi
non si sa, se hanno anche un mezzo un significato, qualsiasi esso sia, io lo
voglio scoprire.
Di che cosa vivo? Ma non devo lavorare, io
come tutti?
Giusta domanda, ma il caso volle, o forse non
fu il caso o la mia indotta ma assai dotta proiezione mentale, che io lavorassi
in una casa araldica.
Che cazzo sarebbe 'sta casa araldica?
Niente parolacce, per favore, la casa
araldica signori miei è dove in pompa magna si fa finta di studiare i cognomi,
gli alberi genealogici insomma, per venderli ai primi o ai secondi allocchi che
arrivano qui pieni di curiosità vuota, così come di ignoranza colma e
straboccante."
(Difficile o persino improbabile capire
quando si deve usare il corsivo, in questo testo, oppure no.)
A Sorano ce ne era una che faceva capo a
quella più grande e centrale di Grosseto, sebbene fossimo in provincia di
Viterbo, a Bagnaia c'ero io e Coluccini Adalberta era arrivata dopo, da poco,
cioè quando il lavoro era aumentato insieme alla crisi, alla pandemia.
A volte, la gente meno soldi ha e più li
vuole spendere in cose inutili, o abbaglianti di un contenuto che poi si rivela
inesistente. Non che l'araldica faccia schifo in senso assoluto, ma ci sono
tanti in mezzo che vogliono solo i soldi e se ne fregano del resto.
L'avevo richiesta io, un'assistente valida,
insomma una segretaria jolly, possibilmente piena di entusiasmo e lei lo era,
anche troppo. Non era qualificata per quel lavoro, ma nemmeno io lo ero e sicuramente
nemmeno quelli della sede centrale, ma questo non importa proprio a nessuno.
Sì, la gente fa finta di voler sapere la verità, ma ne ha un sacro terrore. È
meglio la bugia, è più docile assai e segue i nostri desideri, anche se poi ci
potrebbe pure scappare di mano, ma questo è un altro discorso.
A Grosseto erano contenti del mio lavoro,
insomma e dell'aumento del fatturato, (del nero sottobanco non se ne parli
nemmeno,) così me la mandarono subito.
“Personalmente ho conosciuto Krot a Costanza,
sul Mar Nero, mi disse che i cognomi maledetti erano dodici, compreso il suo e
il mio, ma erano magiari, cioè mezzi ungheresi.
(A
dirla tutta venivano dalla Transilvania perché alcuni dicevano che erano i
parenti di Vlad il vampiro e forse per questo erano maledetti e allora si
trattava piuttosto di Romania, ma siamo sempre nel circolo delle ipotesi
maleodoranti del lago Balaton, poi vi spiego).
Non mi ha saputo spiegare perché erano detti
così male, i maledetti, ha parlato un bel po’ di questa storia, tra un
bicchiere e l’altro. E sono anche andato a documentarmi su internet, che a quel
tempo non esisteva ancora, cioè molti anni dopo, vale a dire l’anno scorso e
comunque non c’era nulla di attendibile, o sono io che non ci ho capito troppo.
Come mi aveva detto Krot la base di tutto era
che ogni notizia veniva sistematicamente cancellata, non si sapeva da chi, però
si poteva intuire. E naturalmente il frutto di questa sua intuizione non me
l'ha spiegata per niente.”
“Ma perché erano maledetti?”
“Non me l’ha detto.”
“E poi da chi?”
“Nemmeno, te l'ho appena accennato.”
“Scusa, ma quello che dici mi pare campato
per aria. E cosa c’avevano a che fare con Sorano, poi?”
“Niente, o forse tutto, insomma io non lo so,
ma tieni conto che tutte le domande che mi fai te, me le sono fatte anch’io
all’epoca, ma una risposta fu che a Sorano c’è il cognome Corotti, Crotti o
Corti, che lui mi aveva detto che erano la logica italianizzazione di Krot.”
“Non solo qui ci sono.”
“No, ma qui non c’è una concentrazione
maggiore? Mi e ti chiedo di conseguenza logica?”
"Forse, ma chi ne sa di più non ci tiene
a divulgare, mi sono spiegato?"
"No."
"Infatti. Vedo che hai capito. Sapere o
avere fede, la seconda cosa non è facile, ma forse meno complicata, in qualche
caso."
"Kierkegaard?"
"Bravo, ecco. Se la leggenda viene
portata alla luce come verità finisce la sua aura romantica e diventa
storia."
"Ma anche la storia viene mistificata e
manipolata."
"Quindi la leggenda è più onesta e
sincera."
Il notaio Zinn scolò l'ultimo bicchiere di bianco
e mi portò a fare una meditazione o chissà che cos'altro, ma in religioso
silenzio, in un antro buio e muschioso proprio nel centro di Sorano, che però
io non seppi più ritrovare. Aveva una chiave nera gigantesca, minimo di mezzo
chilo, che girò con un scricchiolio e poi una specie di schiocco finale. Era
quasi giugno, ma là dentro gli aliti facevano nuvolette di vapore. Scendemmo
sugli scalini irregolari scavati nel tufo.
Una specie di oltretomba, più oltre e sotto un puzzolente luogo chiuso e
abbandonato da Dio e dagli uomini, o da chi per loro...
Sulle pietre irregolari e scure delle
nicchie, con delle statue coperte di ruggine, ossidazioni, limo e sporcizia,
alcuni simboli con delle croci che sembravano coperte da mezzi bubboni
arrotondati, ma si vedeva da male a peggio e l'odore di terra era più forte che
in ogni altro luogo da me mai visitato.
Ero così impressionato che la concezione del
tempo e dello spazio là sotto mi svanì dalla memoria, non so quanto ci siamo
stati e cosa abbiamo fatto. L'ultima cosa che ricordo è che ci siamo
inginocchiati davanti a una specie di altarino, il notaio ha pronunciato alcune
parole in una lingua sconosciuta... sembrava slavo, ma poteva essere anche una
antica lingua indoeuropea, insomma... io mi sono ritrovato a casa, da solo,
sdraiato sul divano, come se mi fossi svegliato da un profondo sonno e non so
come ci ero arrivato. (Difficile o improbabile capire quando si deve usare il
corsivo, in questo testo, oppure no.)
"Coluccini, che fa dorme? Ma riprenda a
scrivere, per favore! Aspetti: cioè fino a qui ha scritto? Ah, sennò le ripeto
tutto. Va bene, stia attenta ora:
Le nostre origini, per misteriose che
appaiano, sotto sono sempre solide, nel mistero che le avvolge, prendete me,
per esempio. A prima vista sembro mezzo matto. Dopo, con il tempo, l’idea
iniziale rimane e si solidifica.
Mezzo scemo forse sarebbe l'espressione più
consona. Ma l'altra metà potrebbe sorprendervi, non necessariamente in maniera
positiva. Si aggiungono altri elementi di minore importanza, con lo scorrere
degli anni, ma quello spezzatino d'uomo non risulta mai pronto e continua a
bollire. Chi mi conosce forse non sa di non conoscermi veramente, come accade
tra le persone, già conoscere sé stessi è piuttosto improbabile, dove andiamo e
da dove veniamo, non necessariamente in quest'ordine.
Magari sono un pazzo atipico per tre quarti,
le percentuali però oscillano. Un fuori di testa che si tiene le turbolenze
dentro, insomma, senza lasciarle esplodere.
La spiegazione è che se i miei genitori fossero
stati persone comuni forse lo sarei diventato di più anch'io. E poi ci sarebbe
anche da dire che l'ambiente attorno non mi aiuta di sicuro. Magari è per
questo che la normalità non mi piace, mi annoia, soprattutto la mia. Insomma la
evito appena me ne accorgo."
"Non mi pare rilevante tutto questo, se
così posso esprimermi, ai fini della nostra ricerca, signor Cotalini
Diaz."
"Coluccini, si lasci servire da chi ha
più qualifiche ed esperienze di lei (anche se non tutte necessariamente
positive): il mio cognome, maledetto esso sia, è rilevante e benedetto non solo
per la mia curiosità, ma anche per ricerche eventuali e future di un eventuale
cliente, maschio o femmina esso sia, italiano o turca, che ne so io, ci si
presenti qui anche in un potenziale venerdì mattina. Non mi sono spiegato?
Scriva, per cortesia e taccia."
Il notaio Zinn forse era un imbroglione, come
spesso succede in questo cazzo di mestiere, ma a pensarci bene anche negli
altri, che se si impegnassero nel fare bene, tutto quel male che fanno si
arricchirebbero. Ma no, quelli vogliono ingannare prima sé stessi e poi gli
altri, sennò la vita sarebbe troppo noiosa, a pensarci bene hanno quasi
ragione.
Insomma ci credevo e non ci credevo, ma lui
aveva una faccia piena di rughe e di ragione, una specie di saggezza dello
sguardo, e più che altro lo seguivo quasi con piacere finché non si volatilizzò
con i miei soldi, o con quello che volevano realizzare, cioè le origini se non
di tutti almeno del mio cognome maledetto.
Bartaleoni o Bartaleone?
Mi viene in mente qualcosa di incrociato tra
il famoso ciclista, coniatore dell'espressione gliè tutto sbagliato
gliè tutto da rifare e un animale fiero e re della foresta, non credo che
potesse essere un'attendibile ipotesi, a quei tempi lontani in cui si formò il
cognome in questione non potevano certo prevedere il futuro semplice,
figuriamoci quello anteriore...
Oppure una forma contratta, invero molto
contratta, di Bartolomeo o Bartalomeo Colleoni, il famoso condottiero...
"Certamente, il capitano di ventura. Mi
scusi però, ma lei non si chiama Cotalini Diaz?"
"Coluccini, gliel'ho già detto e
ridetto, io sono Manlio Enrico (o anche Manrico) Bartaleoni, o Bartaleone,
all'anagrafe e fuori da questo Ufficio Araldico Valerio Appretini. Cotalini
Diaz è solo una copertura. Se lo ricordi. E quello che lei scrive ora, un
giorno sarà parte integrante di un librone di almeno una decina di chili,
profumato di storia e di geografia antica, con mappe ingiallite e foto di
manoscritti di pergamena... un testo assai competente sui cognomi maledetti in
questione, insomma. Ci metteremo anche il suo nome e cognome, in sfolgoranti
lettere dorate, se le farà piacere, quindi faccia attenzione e scriva."
(Difficile o improbabile capire quando si
deve usare il corsivo, in questo testo, oppure anche in altri, non lo so.
Boh?)
Scoprii allora di avere una personalità
doppia o tripla, insomma dentro di me c'era se non il diavolo, qualcosa di
sulfureo e strano, che io stesso non controllavo, anzi io meno degli altri, che
quelli a urli e schiaffoni mi mettevano in riga, ogni tanto, ma io non ce la
facevo. Quasi più.
Ero stato lento mollusco in un bozzolo per
anni, o conchiglia che sia... infanzia e adolescenza tutte intere, la vita da
adulto poi spezzata in due parti ben distinte, una stava continuando ancora. Ma
non sapevo dove sarebbe andata.
Zinn mi convinse facilmente che proprio in
Ungheria mi avrebbero dato delle risposte non indifferenti, sul lago Balaton
c'era un agenzia, la Cagliostro e Figli, (in ungherese si dice Cagliostro és
fiai) che aiutava a trovare le origini dei cognomi maledetti, tra le altre loro
specialità in occultismo, addirittura come occultare i soldi dei loro
disgraziati clienti.
Non capii perché poi ci dovessi andare
anch'io, ma il mio principale aveva dei piani ben precisi, almeno su di me e il
mio ruolo nella sua agenzia, forse anche nella sua travagliata esistenza.
Così ho conosciuto mio marito, credo di
essere stata l'unica donna per lui, delle mie storie precedenti quindi a lui
non ho mai parlato.
firmato
Adalberta
Coluccini in Bartaleoni
La scrittura è stata la mia principale
valvola di sfogo e fuga dalla realtà troppo asfittica e grigia, confesso, ma ho
vinto anche dei premi e pubblicato, a mie spese, dei libretti carucci, a quanto
mi dicono, non di prezzo, ma di moderata bellezza.
Della storia che avrete letto non c'è niente
di vero, tranne che il lavoro in un istituto araldico. Mi hanno anche chiesto
di diventare socia, ma mi dovrei stabilire a Firenze e le mie ragioni di
sempre, le mie forti radici, non me lo permettono. Non mi sono sposata, ma ho
un figlio grande e una figlia media, convivo con Martino, ma tecnicamente non è
il loro padre, anche se lo sembra più di me come madre. Sono stata troppo di
una cosa e poco di un'altra, ma non ve lo voglio anticipare. Sì, confesso che
la filosofia di cui vi riempite la bocca voi due è stata magari la più grossa
mancanza che ho avuto io , mi piace parlarne anche a me, ma poi la vita è tutta
un'altra cosa.
Vi ho conosciuto separatamente, voi vi siete
incontrati una volta sola e vi scrivete da anni, prima con la carta ora sugli
e-mail. Ben strana la vita, più lontani ed estranei siamo e più abbiamo voglia
di confidarci.
Ma dicevo che la filosofia è stata la mia più
consistente mancanza, perché ora in vecchiaia mi rendo conto che ho perso il
controllo della mia vita, proprio perché l'avevo voluta troppo indirizzare e
dominare. A vent'anni credevo di aver capito tutto e ora a sessanta mi rendo
conto che invece non avevo capito niente o giù di lì. Certo che attorno anche
tutto è cambiato, ma forse l'errore mio è stato avere i piedi troppo per terra
e troppo presto.
Tutti e due avete rischiato e vi è
andata bene, da quel che mi dite di voi e del vostro mondo per me straniero
assai e in maniera diversa l'uno dall'altro.
Quando te ne sei andato te, Omero, le cose
cominciavano a precipitare, te Ugo invece te la sei scappata quando si
peggiorava già da tempo, io di occasioni ne ho anche avute, non dico di no, ma
forse ho avuto solo paura.
Comunque sia credo che tutto sia degenerato
dagli anni novanta, forse non solo in Italia, ma dappertutto, almeno per quello
che leggo e sento dire dalla gente che se n'è andata via di qui o di là, a
tempo debito.
Amarezza, dici Omero? Beh, un po' è così, ma
poi anche altre cose di cui magari discuteremo più avanti.
Per
ora un bacione anzi due
da
Albertina vostra
Gualtiero Fambrini 5
Visto che l'amica di Ugo si è tirata
indietro, il quarto pensionato a chiacchierare con estrema calma sulla
panchina, (nel parco virtuale piuttosto primaverile e dotato di uccellini e
piccioni svolazzanti sugli alberi e sui fiori,) è un uomo, si fa per dire.
Diciamo piuttosto una specie di babbo natale con gli occhi storti e i lunghi
capelli bianchi, la barba candida, insomma un fottuto pluri-strumentista di
nicchia e toscano.
Come amico di Omero su certe cose mi troverei
d'accordo con lui, su altre no, ma quando ci si incontra, io seduto comodamente
al ristorante Pellegrino e lui che vaga trai tavoli, poi si siede a bere un
bicchierotto con me, ci facciamo le nostre sguaiate risate e si voltano tutti.
Me lo ha detto lui, perché io non ci vedo.
Oltre a un poliedrico musicista sono anche un
mezzo filosofo, nel senso che cerco sempre un significato, un senso anche dove
non c'è, io ce lo metto. Se a volte non funziona e si scolla io tento di
appiccicarcene un altro, diverso ma non troppo. Il mio proverbiale acume
attaccato a una lunga e larga esperienza di vita, ma anche di morte, mi
consente di vedere oltre, non sempre però, ma provare ci provo lo stesso.
Per esempio il racconto in questione, appena
letto da Clara mi è garbato, ma non so che cosa significhi, o dove voglia
andare a parare, non che questo sia necessario, ma se ci fosse un messaggio,
uno qualsiasi lo vorrei sapere. Nemmeno la mia brava figliuola ne ha trovato
uno di significato, ma tanti mischiati insieme, ci si è fatta delle risate che
a me hanno fatto piacere, ma mi sono dovuto far ripetere più volte e ogni volta
la frase in questione, non perché non l'avessi capita, ma lei ridendo non
l'aveva pronunciata correttamente.
Intanto qui ci si mangia bene assai e poi mi
fanno cose anche fuori dal menù, a patto che siano sul libraccione dell'Artusi.
Normalmente per queste richieste c'è da aspettare di più, ma è un servizio che
fanno a tutti, se a disposizione ci sono gli ingredienti l'Artusi è il loro
pantagruelico menù, sfido chiunque, non solo a Berlino, a poter fare lo stesso.
Da Omero ci si trovano dei vini toscani buoni
e non troppo caricati di euri e alla fine se sono con Clara lasciamo la
macchina qui e prendiamo un taxi.
Mia figlia mi lascia uscire da solo, se
volete saperlo si fida quasi ciecamente di me, anche se io sono
sproporzionatamente orbo. Di giorno e di notte, per me non fa alcuna
differenza, di rapinatori qua non ce ne sono tanti e poi se ne arriva uno gli
sgancio subito il portafogli. L'orologio non ce l'ho e nemmeno il cellulare.
Non è mai successo comunque.
E poi così in casa non la disturbo con i miei
dannati strumenti musicali più o meno etnici, o chiamandola ogni minuto
per farmi leggere un email o per farne scrivere uno di risposta.
Stiamo scrivendo anche un libro insieme, che
spiega come e perché si deve suonare uno o più strumenti musicali, come si
impara e così via. Non credo che lo termineremo mai, ci vengono in mente sempre
un sacco di cose nuove, ma intanto ci si diverte.
Mia figlia suona il violino nella fisarmonica
di Berlino e non ha suonato con Karajan per un pelo, c'è entrata quando lui ha
smesso.
Quando vengo da Omero, se vado a visitare
qualche amico o amica, prendo il taxi e loro sono assai gentili con me. Qui al
Pellegrino suono anche il pianoforte, la domenica sera, ma in maniera discreta
e se malauguratamente scopro che qualcuno mi ascolta attentamente faccio come
faceva Erik Satie a Parigi, gli dico di continuare a fare come se non ci fossi,
la mia è solo una musica di sottofondo. Di Satie suono spesso anche qualche
Gnossienne o una Gymnopédie o due.
Il venerdì vado a suonare il piano in un bar,
l'Untreu Cafè, in Bleibtreu strasse, in italiano Caffè Infedele sulla
strada Rimani Fedele, vicino a piazza Savigny, in tedesco Platz. Mi
esibisco ogni volta con pezzi vecchiotti o decrepiti a richiesta, e raramente
me ne chiedono uno, non oltre gli anni ottanta, che io non conosca e non sappia
suonare. All'occorrenza canto anche, la mia voce è simile a quella di uno che
imita Toto Cotugno, che a sua volta imitava Adriano Celentano e mi dicono che
dimeno opportunamente e graziosamente il capo e i capelli lunghi. Mi applaudono
addirittura, a volte per cortesia, altre volte con entusiasmo, la differenza si
vede, cioè io la sento senza difficoltà.
Insomma la mia personale filosofia me la sono
costruita in tanti anni di vita, senza pensarci troppo, da pensionato ho
cominciato a rifletterci meglio.
Mi faccio i fatti miei, ma non disturbo
nessuno. Se qualcuno disturba me, prima vedo se si può ragionare, se non ce ne
sono le condizioni, come a volte succede, allora m'incazzo come una bestia e mi
dimentico anche che non posso più fare a cazzotti, di solito qualcuno
interviene a salvarmi, ma una volta ho steso uno che per caso stava accanto ad
un altro che mi aveva fatto irritare.
La domenica sera Omero mi paga, ma mi offre
anche la cena e bere a volontà. Se Clara non c'è bevo meno, dipende, ma neanche
tanto.
Una volta il tassista ha sbagliato casa, cioè
io gli avevo dato l'indirizzo sbagliato, per colpa del vino e di qualche
grappetta veneta, ma Kurfustenstrasse 12 era diventato Kurfustendamm 21.
Stranamente la chiave entrava, ma non girava, nel portone di chissà chi e dopo
un po' lui, che cortesemente mi stava controllando, si è accorto dell'errore
evidente e del mio stato confusamente brillo, mi ha rifatto salire sul taxi, mi
ha fatto un piccolo e comico interrogatorio, anche se non era colpa sua, lui si
è scusato e mi ha portato dove era il portone giusto, poi ha aspettato finché
non mi ha visto entrare.
Insomma un cieco tecnicamente non ci vede una
mazza, d'accordo, ma scopre meglio degli altri se una persona occasionalmente
vicino a lui è brava o no. Nel caso del tassista poteva essere uno che se ne
fregava, ma anche dal punto di vista professionale ha fatto di più e mi è
garbato assai. Ora quando ho bisogno chiamo sempre lui.
A Berlino gli ubriachi prendono sempre il
taxi, mi ha raccontato un mio amico che lavorava in un ristorante dove la gente
arrivava in macchina e se ne andava in taxi. Dopo avevano la scusa per tornare
al ristorante. Fatto sta che purtroppo o per fortuna, immancabilmente si
riubriacavano come se fosse la prima volta e le macchine rimanevano sempre lì.
Qui bevono tutti, d'inverno perché è freddo e
d'estate perché è caldo, in compenso la polizia non vuole seghe, e se ti becca
una volta brillo alla guida, tu perdi la patente.
Albertina 6
Sei un cittadino italiano Gualtiero? Parli il
tedesco ovviamente, hai girato il mondo, almeno le terre emerse, insomma hai
fatto anche il sub?
Mi scusino gli altri due cerasini ma
prima rispondo a Gualtiero, e precisamente sul racconto, vedo che pur non
vedente coglie subito il nesso delle cose, cioè il racconto in questione ha un
senso, o nessuno, o centomila, forse qualcuno meno. È una specie di parabola,
dipende dalla gente come lo vuol vedere, o sentire, ma non è una parabola, dal
punto di vista cristiano io non ci sono, è solo uno spaccato di vita improbabile
di qualcuno, esagerata forse per sensibilizzare qualcun altro.
Insomma viaggi nella maionese possiamo farne
tutti, dipende da noi o dalle occasioni colte o perse, dalla nostra fantasia,
dal nostro istinto di trasferirci o meno nelle situazioni.
Mi sembri un tipo simpatico, caro mio, non ti
conosco ma è già come se ti conoscessi un po'.
Vabbè, sei uno stereotipo anche te, mi pare,
di quel bene che si auspica e poi di solito non si applica, la chiusura dei
tuoi occhi ti ha forse aperto l'anima.
Bisognava che ti conoscessi da prima.
D'accordo, vabbè, poi recupereremo.
Gualtiero 7
A me stereotipo non me l'ha detto mai
nessuno! Come ti permetti? Non mi hanno mai offeso tanto in vita mia! Se mi
dicevi figlio di puttana mi offendevi meno!
Scherzo, ma sotto-sotto c'è un robusto fondo
di verità.
Intanto io non sono sempre stato cieco, ma
quando lo sono diventato in un certo senso ho fatto il salto di qualità. C'è
bisogno che te lo spieghi o no?
Parlo ragionevolmente male diverse lingue,
tra cui l'italiano un po' meno peggio, il tedesco ad esempio lo brontolo un po'
ciancicato, anzi assai, evito le terminazioni delle declinazioni, che sono
troppo complicate, insomma come fanno a Düsseldorf, dove mi sento assai meno
incompreso. Qui la gente non mi capisce proprio, ma non fa niente, nemmeno io
capisco loro.
Il tuo racconto mi piace, e pure assai, ma la
tua logica non mi ha soddisfatto, secondo me dietro il polverone di antichità
che hai fatto, assai bene e senza dire niente di concreto. Sì, insomma, tutta quella
nebbia umida e puzzolente di zolfo, c'è ben altro.
Per esempio che di normale non c'è nessuno,
che dentro un essere umano ci possono essere varie personalità e correnti, che
tra di noi ci sono intelligenti stupidi e stupidi intelligenti, che dipende
anche dalle epoche e dai bioritmi... insomma la vita per un essere umano è
tutt'altro che facile ed è inutile conformarsi e cercare di essere come gli
altri, non è vero, e ogni tanto si viene smascherati dal nostro stesso
comportamento e si cade in contraddizione continuamente. Magari invece sei una
compatta, sotto-sotto, ma non lo sai.
Albertina 8
Colpita e affondata, hai centrato il
bersaglio, anzi i vari e differenti bersagli, forse anche concentrici, ma a
queste cose non ci avevo pensato prima che tu me le dicessi, lo giuro. Madonna
mia, mi hai impressionato veramente. Meno male che non ci vedi sennò mi
preoccuperei. Il tuo salto di qualità l'ho capito, una compensazione o giù di
lì.
Ma come fai a scrivere e a leggere se non c'è
tua figlia?
Gualtiero 9
Per scrivere c'è un programma di computer che
è come un dettato, io parlo e lui scrive, non funziona perfettamente, fa degli
errori, invece delle parolacce ci mette... quei puntini-puntini, ma dipende
anche da come pronuncia le parole chi detta. Nel mio caso male assai. Allora
devo parlare più lentamente scandendo bene ogni sillaba.
E poi ci sono i computer per ciechi, ma io
l'ho comprato da poco, non so ancora usarlo bene, anche perché la simbiosi con
mia figlia mi garbava, ma ora si vorrebbe sposare... già da mezza vecchietta,
chi glielo fa fare?
Mah?
Albertina 10
Ah, figurati. Ma io non sapevo nemmeno che si
poteva fare il dettato al computer. Non farla sentire in colpa te, tua figlia
Clara, forse prima non se la sentiva, non aveva trovato l'uomo giusto, come si
suol dire.
E questi computer per ciechi come funzionano?
Omero 11
Ragazzi calma, non si fa in tempo a seguirvi,
vi ho presentato quasi timoroso, ma non credevo che nascesse subito il grande
amore!
Gualtiero 12
Carissimo il nostro è solo amore-odio, non ti
preoccupare.
Clara ha ragione ma io non ho torto, non
perché io abbia paura di rimanere solo, ma che dopo un po' torni scornata e
delusa dal mondo. E te non fare la mamma apprensiva e protettiva all'italiana,
già che ci siamo appena conosciuti e mia figlia non hai idea che peste sia,
anche lei come sua madre, senza parlare del padre. Ma lasciamo perdere.
Come funziona BrailleNote Touch?
BrailleNote Touch ti permette di scrivere le
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ma grazie all'accesso completo al Play Store di Android è possibile installare
praticamente qualsiasi app si desideri utilizzare.
Questo è un classico copia-incolla,
l'avrai capito. Te l'ho detto che non lo so usare, ma ci sto studiando tutti i giorni.
Ugo 13
C’è una data dalla quale il mondo è iniziato
a decadere?
Oppure siamo noi che, col passare degli anni,
rimpiangiamo tutto quello che c’era prima, come nostalgia dei tempi che furono?
Indipendentemente da questo, io un anno ce l’ho, o perlomeno il periodo: quello
dell’esplosione – mondiale – di un tipo
di programma televisivo in cui i telespettatori erano, e sono, chiamati ad eliminare i concorrenti
chiusi in una casa (da qui poi ne sono nati tanti altri sulla stessa
falsariga). Insomma, molti si sono trasformati in una massa di guardoni
importandosene più della vita altrui che della propria. Oddio, questo c’è
sempre stato, ma non credo in questa quantità.
A veder bene, è stata probabilmente la
nascita di quelli che oggi chiamiamo “influenzatori” e “seguaci”, mi piace
dirlo in italiano. In altri modi, in altri stili rispetto ad oggi, per via
delle diavolerie informatiche che ogni giorno nascono. Riassumendo: il
decadimento è iniziato quando le persone si sono fatte “seguaci”. Quando il popolo
si fa seguace di qualcuno la storia ci insegna che prima o poi sorgono grossi
problemi. La storia ci insegna? Beh, sì, lei insegna: se poi chi di dovere non
impara, non è colpa sua.
Ma anche in un mondo che non piace, bisogna
adattarsi carissimo Omero. Adattamento a persone, luoghi e situazioni: questa è
la carta vincente per sopravvivere.
Nei primi venti anni circa della mia vita, ho
abitato accanto allo storico bar “Machiavelli” ed era lì che andavo da piccolo
a vedere le partite di calcio. Mi divertivo a vedere come reagivano alcuni dei
clienti-telespettatori (solitamente un gruppetto di giovani) a ciò che
succedeva in campo. Quando erano impegnate due squadre per cui loro non avevano
nessun interesse, ne sceglievano una ed iniziavano a tifarla. Ma se questa
aveva un’occasione da goal e magari il portiere dell’altra squadra ne impediva
la rete, immediatamente tutti esultavano perché in quella frazione di secondo
avevano cambiato la direzione del prorpio tifo ed erano contenti per il goal
evitato.
Era tutto un continuo gridare di gioia, visto
che tutti appoggiavano la squadra che in quel momento se la cavava bene. In
pratica, non perdevano mai. Senza saperlo (né loro, né io), mi insegnarono lo
spirito di adattamento. Se riesci ad averlo, qualsiasi situazione la vita ti
presenti, avrai una possibilità maggiore di venirne fuori bene. Certo, era
anche una dimostrazione di come essere voltafaccia. Purtroppo è utile anche
quello, ma fortunatamente non lo pratico. L’adattamento, invece, mi è servito –
e molto – visti i miei vari cambi non solo di città, ma anche di Paesi.
L’opposizione tra tedesco e brasiliano, come
hai accennato, è forte. Credo che i tantissimi tedeschi del sud del Brasile si
siano adattati perché, senti che contraddizione, si sono chiusi: hanno formato
delle comunità quasi – o senza quasi – a sé stanti, quando sono arrivati. Poi
piano piano si sono mischiati agli altri, ma ancora oggi abbiamo la “tipica
cittadina tedesca” in pieno Rio Grande do Sul (lo Stato dove vivo). Tipica
urbanisticamente parlando e anche culturalmente. Sono le città dove si
rispettano di più i pedoni, per esempio.
Con la descrizione del tuo lavoro, mi hai
fatto veramente entrare nel tuo ristorante. Non posso ricambiare questa
esperienza , dato che non c’è modo di entrare nei progetti. Tu hai un lavoro
aperto alle persone, io ai numeri, alle regole matematiche, fisiche e pure
chimiche.
La passione delle barche deriva dal posto
dove sono nato e quando da piccolo, con mio padre andavamo in darsena a vedere
questi oggetti galleggianti, da quelli piccoli che c’era d’aver paura a
montarci, ai lussuosissimi yacht.
Mi incuriosiva lo scafo, la parte che l’acqua
nasconde, il come faceva a galleggiare una cosa così grande e sproporzionata
tra lunghezza e larghezza e spesso anche altezza. Guardarli in costruzione nei
cantieri era assistere ad un miracolo dal quale fui fulminato.
Se non avessi lavorato “nelle barche”, avrei
lavorato “nei treni”. Infatti l’altra mia passione erano i treni: sempre quando
ero bambino ed il tempo non prometteva niente di buono, andavo, ancora col mio
babbo, alla stazione oppure ai piedi di una passarella poco più a sud. Mi
piacevano i treni in movimento, quelli che non si fermavano: giocavo anche a
contarne i vagoni.
Purtroppo oggi quella passerella non c’è più,
cancellata da quella tremenda notte del 2009. Oggi la stazione di Viareggio mi
trasmette questa doppia sensazione: il ricordo positivo delle ore passate lì, e
quello negativo di questo avvenimento di cui ebbi notizia tramite una delle mie
nipoti quando lavoravo in Cile.
Rallegriamoci un po’: Albertina! Un bel pezzo
di figliola: era un mito per noi ragazzi! Non ci siamo frequentati molto –
sicuramente meno di quanto io desiderassi – ma ricordo, sì, la sua simpatia.
Che sorpresa averla qui tra noi, a discutere sul tutto e sul niente.
Sapevo del suo amore per la scrittura, ma non
che fosse arrivata a tanto: complimenti! Così dici, e mi rivolgo direttamente a
te, nervosetta che non sei altro, che ti abbiamo lasciato nella merda? No, è
che l’Italia ha più bisogno di gente come te. Omero ed io eravamo un peso per
il Belpaese. Il nostro, o perlomeno il mio, è un auto esilio semi volontario.
Beh, do anche il benvenuto a Gualtiero: se
Albertina scrive anche poesie, forse saranno più lungimiranti di noi, Omero, dato
che sia i ciechi sia i poeti possono vedere nell’oscurità. Ma cieco si può
dire? Sapete, con questo politicamente corretto non so che parole usare: meno
male che il mio lavoro si basa su calcoli e disegni.
La mia amica Chiara Landucci vorrebbe far
parte della nostra comunità di e-mail, ma mi dice sempre che è troppo
impegnata. Impegnata a far soldi, le rispondo. E mi manda candidamente
affanculo, parlando politicamente corretto.
Via, devo far soldi anch’io e quindi vi
lascio, Alla prossima!!
Chiara Landucci 14
Bada, Remoto, intervengo solo per
sbugiardarti un po’. Saluti tutti gli altri che non conosco, eccetto un po’
Omero per sentito dire.
Basta, ho già finito. Non so se interverrò
ancora, ma perlomeno voglio che si metta agli atti che perlomeno una mail l’ho
scritta. Alla faccia di quello che guadagna in Euro e spende in Reali. Facile
la vita, vero Remoto?
Bacissimi.
Gualtiero 15
Saluto voi, partecipanti a questo dibattito
intrigante, ultimamente sto imparando anche a usare il mio computer per orbi e
tutto scorre bene, mi pare, qualche bestemmia ogni tanto, ma è normale. Insomma
questo è un documento storico, il primo che scrivo da cieco senza aiuto di mia
figlia Clara che è andata a suonare il violino altrove, mi pare a Bologna, se
non erro, o a Boulogne, probabilmente senza uscire dall'Europa, insomma.
Interessante questa cosa del Grande Fratello
che dice Ugo, nel mondo attuale è difficile assai non essere influenzati e
proprio per questo bisogna fare attenzione agli incompetenti, ai disonesti e ai
prezzolati, che non di rado possono anche risiedere nella stessa persona,
influencer, sito di internet.
Ho sentito dire che nella modernità la
maggior parte delle nostre energie psichiche viene usata per distinguere e
accantonare tutto quello che non ci interessa e in un certo senso è un assurdo,
farebbe anche incazzare, ma è piuttosto logico.
Omero può capire meglio il mio punto di vista
sulla vita, mi pare anche Albertina sia un tipo da non farsi certo mettere i
piedi in testa, ma anche la mia filosofia di vita non prevede falsità, nel
dubbio rifiuta a priori.
Non ci conosciamo ancora, Remoto, amico mio
futuro, posso anche soccombere, ma diventare ipocrita e voltafaccia mai.
Su certe piccole cose e in determinati
periodi sono riuscito anche a fingere, ma a lungo andare mai potrei sostenere
certi comportamenti o adattarmi a farmi piacere certe cose. Quello che tu dici,
riporto la tua affermazione qui, è in fondo un pensiero abbastanza comune, che
diversi miei amici o conoscenti mi hanno rivolto a suo tempo e al quale non ho
mai saputo rispondere come avrei voluto, forse perché prima non capivo bene, ma
ora credo di sì, per lo meno intendo molto meglio me stesso e il mondo, sebbene
mai completamente, ma a grandi linee invece sì.
Forse è anche un pensiero di sinistra, ma non
certo della sinistra di ora, che in questo è diventata proprio il contrario,
una bella falsità istituzionalizzata.
Questa immagine io la riporto alla piccola città di provincia. Lucca, un ricco
microcosmo che conosco abbastanza, eppure mi sorprende sempre, per quanto la
gente là si comporti prendendo alla lettera questa tua definizione.
Ma anche in un mondo che non piace, bisogna
adattarsi carissimo Omero. Adattamento a persone, luoghi e situazioni: questa è
la carta vincente per sopravvivere.
Certo,
la vita è soprattutto adattarsi, lo ha detto Darwin e l'evoluzione ne è
testimone e prova costante, ma non bisogna farne lo schema di comportamento
assoluto. Ci sono da fare delle distinzioni e non si può prendere quello che la
società ci passa come inevitabile o fisiologico, sennò ci trasformiamo in
creature senza capacità critica e come la famosa e disgraziata rana nell'acqua
che si scalda lentamente, ma progressivamente sempre più, bolliremo senza
accorgerci e saremo portati sui vassoi per essere mangiati.
Il
fenomeno è largo purtroppo e si allarga sempre di più, parole non mie quelle
che seguono sono di un professore italiano che vive negli Stati Uniti. Parte da
un discorso più ampio, ma finisce, secondo me, nel descrivere bene questa specie
di comportamento.
"Adeguarsi
non per necessità ma per potersi considerare vincenti; è diventare servi per
godere vicariamente dei successi dei padroni — come insegna lo sport, non a
caso diventato un rito essenziale del neoliberismo, con decine di milioni di
italiani che si esaltano per le vittorie di squadre per l’80% costituite da
mercenari stranieri o di tennisti che parlano malamente l’italiano e per
non pagare le tasse hanno preso la residenza a Montecarlo, ma siccome gli uni e
gli altri sono multimilionari e famosi è bello sognare di essere come loro.
Gli stronzi e gli avidi non mi interessano;
quando sono più forti mi piego ma con la consapevolezza che lo faccio a causa
della mia debolezza, non perché loro siano migliori. È importante. Se lo facessero
in tanti esisterebbe, come in tutte le epoche precedenti, una forza
controegemonica che, sia pure in posizione subalterna, conserverebbe una
propria identità, una propria dignità, una propria cultura. Invece incontro
tante persone che amano, per esempio, i libri, ma se ne vergognano, anche coi
propri figli, perché convinti da ricchi cialtroni (spesso definiti «influencer»
o «celebrity» in quanto gli anglicismi confermano la loro appartenenza al ceto
dominante) che siano (i libri e i loro lettori) anacronistici, come se non lo
fossero sempre stati per il semplice motivo che ogni società prima del trionfo
del modello americano era diacronica, ossia includeva in sé qualità, memorie,
esperienze, oggetti di media e lunga durata e non solo quelli di moda in quel
preciso momento. Ho menzionato i libri ma lo stesso vale per l’educazione e le
buone maniere, per il senso di appartenenza, per le tradizioni, per la
religione, per le ideologie, per la morale.
Lo ripeto: chi davvero sia convinto che ciò
che piace agli adolescenti (ossia elle multinazionali che li manipolano) sia
meglio, chi abbia sviluppato una dipendenza dal proprio iPhone d’ordinanza e
viva di «breaking news» o «gossip» (ovviamente anglicismi), chi creda che la
mitica mobilità dia la felicità mentre restare nella propria comunità per
migliorarla sia perdente se non reazionario, chi arrivi a rifiutare la nozione
di collettività per esaltare il presunto diritto individuale e individualistico
di essere, sentirsi, fare quello che gli piace, vada per la sua strada. Mi
basterebbe che i tanti che non si riconoscono in questo stile di vita, pur
subendolo non diventassero però suoi sostenitori e complici solo per il timore
di venire marginalizzati o derisi.
È in atto una guerra culturale e chi la sta
vincendo sta facendo terra bruciata (i liberisti con le nuove tecnologie fini a
sé stesse, i liberal con la cancellazione del passato) in modo che
un’alternativa non sia mai più possibile. Non li si può sconfiggere in questa
fase storica ma restare fedeli a sé stessi e ai propri ideali renderà possibile
a una futura generazione di recuperarli e usarli. Ma spetta a noi darne e
lasciarne testimonianza."
Francesco Erspamer
Un commento sotto questo stesso post di
Facebook è stato piuttosto interessante e ce lo metto per intero.
Confesso che, pur essendo del tutto d'accordo
col post, mi pare che manchi un elemento fondamentale: le classi subalterne.
Certo, siamo un po' tutti subalterni. Ma c'è subalternità e subalternità. I
settori sociali che stanno davvero in basso, che fanno i salti mortali per
sopravvivere, che si vedono ogni giorno più poveri e costretti continuamente a
inseguire padroni e padroncini per mendicare un salario da fame per dieci ore al
giorno e più di lavoro; che non possono più farsi curare perché costa troppo,
che non rientrano nelle statistiche del consumo, che spesso non vanno più a
votare perché non hanno più speranze, sono in realtà una parte notevole del
"popolo". Che però NON esiste, neppure nei post di chi si oppone
radicalmente al potere attuale. E questo è sintomatico della "vocazione
alla sconfitta" di quella che ancora si definisce sinistra nel nostro
paese.
Per terminare direi che anche Dado ha
ragione, ma Francesco non ha per niente torto: è vero che tanta gente non ha
alcuna scelta, essendo quotidianamente presa per il collo, ma questo non ci
impedisce di capire che noi invece questa scelta ce l'abbiamo, non siamo così
ridotti male, grazie a Dio o a chi per lui ne fa le veci, proprio per questo
bisogna fare la nostra piccola lotta quotidiana per la giustizia, o se vogliamo
per la non totale insensibilità.
D'accordo: chi se ne frega della attuale
sinistra? Anche quella di prima ormai è lontana, inutile fare i nostalgici e idolatrare un Berlinguer, per esempio.
Diciamocelo chiaramente, il pensiero è largo,
lungo e ramificato, forse anche complicato, ma non incomprensibile: nella vita
il libero arbitrio non è favorito dall'ambiente, dai vantaggi personali,
(nostri o altrui, che però possono anche essere solo apparenti, già a medio
termine,) ma esiste ancora ed è un atteggiamento possibile. Almeno da chi non
deve lottare ogni giorno per la sopravvivenza, che poi è il nostro caso, mi
pare.
Il consenso non esiste da tanto tempo e
sarebbe un passo avanti, ma naturalmente gonfia ogni ipocrisia e falsità, dove
prima non esistevano, poiché chi comandava non aveva bisogno di arrufianarsi le
masse sottoposte e sottomesse.
Forse è esagerato questo documento-fiume ma è
stato dettato anche dal fatto di poter finalmente e di nuovo disporre della mia
libertà e di non dover dettare, insomma di poter scrivere per i cazzi miei. Per
leggere è già un altro discorso, documenti in braille in giro ce ne sono pochi,
insomma bisogna accontentarsi, che ci vuoi fare.
Omero 16
Anche io sono fisicamente entrato nelle
barche e nelle navi, con le tue immagini fatte di parole, caro Ugo, devo dire
che mi hanno sempre affascinato anche a me, i treni pure, ma un po' meno.
Mi felicito per te Gualtiero, orbo sì, ma non
troppo babbo natale tuo malgrado. Parlare il tedesco da alticcio è una cosa,
ma a cose normali il tedesco di
Gualtiero è perfetto non dategli retta.
Per quanto riguarda il torrenziale intervento ultimo, mi hai shoccato,
almeno inizialmente, ma le tue parole non mi suonano male, capisco e condivido
la maggior parte. Però Ugo non voleva intendere tutto quello che hai sottinteso
tu, magari parlava un po' meno in generale o più in particolare, insomma il
vecchio Darwin non era un fesso qualsiasi, ma discutendo più in particolare di
uomini e di società moderna, di adattamento ed evoluzione ce ne sono tanti tipi
e di diversa intensità.
Insomma il paragone dei ragazzi che guardano
la partita è un esempio di voltafaccia, va bene, una falsità non ideologica, in
questo caso innocente, solo per fare il tifo o no per qualcuno e cambiare idea
facilmente, fare il tifo per l'avversario.
Mi piacerebbe sentire però cosa ne pensano
l'incazzereccia ma acuta Albertina e anche Chiara, se non l'abbiamo spaventata
troppo.
Albertina 17
Buonaserina a tutti i soci, insomma i
partecipanti in questione, se non erro ora siamo in cinque. Penso che Ugo non
volesse dire che per forza bisogna essere falsi per non soccombere, ma si
poteva intuire anche così. Ci sono vari livelli e interpretazioni possibili.
Gualtiero è un intellettuale, forse anche suo malgrado, che però non volendo
ormai si sente fuori dal gioco, dal mondo del lavoro, dall'ipocrisia tutta
italiana e moderna, vivendo in Germania, essendo cieco, vivendo da pensionato o
giù di lì.
Diverso sarebbe se lavorasse otto ore, più
gli straordinari non pagati tutti i giorni, se dovesse farsi il culo e doverlo
pure distinguere dalle quarant'ore proverbiali e lucchesi. Se lavorasse in un
ristorante e venisse pagato male, o se dovesse andare a fare le vendemmie, o a
raccogliere le mele, i pomodori o altro.
Però lo dice anche, che la nostra situazione
è privilegiata e quindi si può distinguere, visto che gli altri non possono,
qualcuno deve pur resistere al dannato mainstream.
Incazzereccia sono io, è vero, sì, ma solo
quando è necessario, come diceva Carlos Castaneda, appena una follia
controllata quindi.
Dicono che i cognomi non passano di trecento
generazioni di storia, ma ci sono tante e variegate controversie. Con solo tre
generazioni al secolo andiamo indietro di mille anni.
Il lavoro in un istituto araldico serio,
quale il nostro dovrebbe essere, è un giornaliero scavare nella storia, a
partire da documenti veri che non sono tanto facili da trovarsi, a me piace
proprio questo uscire e andare - anche sotto la pioggia - a spulciare nelle
parrocchie di campagna, tra polvere e ragnatele, più che stare seduti a
rappezzare i risultati di queste ricerche sul campo. Di solito invece gli altri
preferiscono il contrario, stare al caldo e cucire i rapporti che io gli metto
sul tavolo o direttamente nel computer di bordo. Si tratta di navigare nello
spazio e nel tempo, come capirete. Chi ha immaginazione si trova a scendere
romanticamente nella scala a ritroso di centinaia di anni fa e a dover cercare,
ragionare e scartare, immagini e suoni, anche odori, di una bella fetta di
storia, di come la gente viveva, quando, dove, perché eccetera.
Certo che ci sono anche tanti imbroglioni, a
Silvester Stallone, notizia che corre tra lavoranti e colleghi di araldica, gli
hanno fatto un bel pacco, visto che lui c'aveva origini pugliesi e un bel po'
di soldi, gli hanno inventato al volo una famiglia nobile, stemma e albero
genealogico ad personam e ad hoc. Lui ha fatto fare scudi di
vario materiale da attaccare dentro e fuori dalle sue ville un po' pacchiane,
poi quadri, tovaglie, asciugamani, piatti, posate e bicchieri con sopra il suo
bel blasone, prima di scoprire che era tutta una carissima fake new.
Non so se la casa araldica in questione ha
dovuto chiudere, in ogni caso se lo sarebbe meritato, magari Stallone ne è
diventato socio, o se l'è comprata lui con una manciata di dobloni falsi.
Gualtiero 18
Ho avuto modo di farmi rileggere quello che
aveva scritto Ugo e ammetto di aver sbagliato, sono partito per la tangente, è
vero che la mia risposta è stata eccessiva e fuori luogo, quindi me ne scuso. A
una certa età e con i problemi che ho avuto la mia mente comincia a perdere
l'opportuna e originale geometria dei fatti.
Non solo per questo, ma anche per questo, più
motivi familiari gravi, almeno per me, più un trasloco verso Hamburg o Amburgo,
se vogliamo, città piovosa e portuale, mi impediscono di continuare in questa
sede e al Pellegrino mi vedrete solo tra qualche tempo, e se tutto va bene.
Un abbraccio a tutti.
Omero 19
Ho parlato per telefono con Gualtiero, me lo
aspettavo che fosse diventato improvvisamente schivo ed evasivo, non mi ha
voluto spiegare niente, ho cercato di fargli capire che magari più avanti, in
un momento più propizio, potrà di nuovo unirsi a noi, ha detto di sì, ma
sembrava solo ansioso di chiudere la nostra conversazione.
Sono rimasto perplesso, ma in fondo questo
nostro contatto per email è una cosa fluttuante, era partito per essere solo di
due persone, ma vedo che potrebbe essere un forum interessante per un numero
imprecisato, senza esagerare.
Tutto quello che chiedo e glielo avevo detto
anche a Gualtiero, è che siano individui che vogliano condividere esperienze e
pensieri, ma che non creino problemi, non litighino. Mi ci metto anch'io in
mezzo, insomma è auspicabile che non siamo polemici e forse questa frase gli è
rimasta impressa e ha agito di conseguenza, dopo il suo intervento fuori luogo
con Ugo si è sentito in colpa, non lo so.
Il mondo, almeno quello che io conoscevo, o
forse m'illudevo appena e di sicuro non conosco più tanto, si è diviso in due
gruppi. Quelli anche troppo sensibili, che basta una parola storta o
un'occhiata per farli stare male e anche qui mi ci sento dentro pure io, ma in
modo imprevedibile e discontinuo. Poi quelli invece che hanno perso, o forse
mai avuto, ogni vergogna e dignità, li puoi prendere a cannonate che pensano
sempre che a sbagliare sei te e quindi se ne fregano, problema nostro.
Albertina 20
Dicono che io sono una specie di caterpillar,
che vado per la mia strada senza curarmi se schiaccio qualcosa o qualcuno, non
è vero, ma so riconoscerne uno quando lo incontro e mi pareva il caso di
Gualtiero.
E se ha deciso di ritirarsi deve avere dei
motivi personali validi, quali per esempio non possono essere quelli di essere
troppo sensibile, o di esserci rimasto male perché aveva mal giudicato Ugo e la
sua mentalità.
Approfitto per farvi conoscere lo studio del
mio cognome:
BOMBONATO
A questo cognome sono legati: BONATO,
BOMBONATI, BOMBONATTO, BOMBONATTI. Un tempo capitava spesso che, nella
registrazione all’anagrafe dei nati, si commettessero errori nello scrivere i
nomi e i cognomi.
Questo cognome è molto interessante, perché
il significato etimologico è decisamente incerto e varie sono le ipotesi
delineate dagli storici e dai ricercatori araldici. Il filo che unisce tutti è
l’antichità del cognome che si perde nei meandri dei secoli. È un cognome poco
comune, dalla ricca e complessa storia, che si intreccia con quella dell’Italia
nelle trasformazioni della lingua e dei dialetti influenzati dalle parlate
europee e del Mediterraneo, grazie ai commerci. Ecco le varie teorie e la
storia da cui nascono, partendo dalla più ovvia a quella più suggestiva.
· Bombonato, dal latino “bonum nati” e poi dal
medioevale “bonattus” : nato bene, ben nato, buon acquisto. Questa è l’ipotesi
più accreditata. Facilmente si può individuare il cognome in una famiglia
nobile del 1500. Siamo tra Milano e Bergamo, ma anche a Verona dove un
Bombonato era Capitano di Giustizia. Quindi, essere nato in una famiglia nobile
e ricca ha creato il cognome.
· Bombonato dal francese antico
"bombon", che significa dolcetto. Durante i matrimoni nobiliari nel
XV secolo in Europa le bomboniere erano delle piccole scatole contenenti
dolcetti o confetti che venivano regalate agli ospiti come segno di gratitudine
per aver partecipato all'evento. Bombonato forse era colui che fabbricava i
bombom.
Nel romanzo “I Finzi Contini” lo scrittore
Giorgio Bassani inserisce un amico della famiglia con il cognome Bombonato e lo
caratterizza come una persona elegante e raffinata.
· Troviamo il cognome Bombonato in documenti
antichi relativi alla famiglia nobile “Bolongaro” a Stresa. Siamo vicino a
Milano e ancora la ricerca ci porta al francese antico “Boulonais, boulanger,
bolongaro”.
Boulonais, nella regione Nord-Pas-de-Calais,
costituiva la Piccardia, un dipartimento che entrò a far parte della Francia
nell’843 con il trattato di Verdun. “Boulanger” (Panettiere) è un termine
proprio di origine “piccardiana”: la Piccardia è una regione storica, nel nord
della Francia, che si estende a nord, dai sobborghi di Parigi e dai vigneti
della Regione Champagne fino alle spiagge della Baia della Somme sul Canale
della Manica. Siamo nel regno dei Franchi che dominarono la Pianura Padana
proprio tra l’VIII e il IX sec.d.C. costituendo il Sacro Romano Impero. La voce
antichissima “boulange” (panettiere, colui che fa il pane rotondo) si trasformò
gradualmente fino a diventare Bolongaro (cognome di una nobile famiglia a
Stresa) e a fine ‘800, nei documenti, si trova un Bolongaro detto Bombonato, un
probabile commerciante di caramelle o dolci. Ecco che i due termini si fondono.
· Una ricerca molto particolare ci porta al
linguaggio marinaresco antico (di cui si sa poco), ai naviganti e commercianti
veneziani; i fenomeni di contatto linguistico sono, in età medievale,
particolarmente intensi, e quasi sollecitati dalla poderosa frizione culturale
che si determina nell’antico mare nostrum. Il ruolo del veneziano è preponderante
per via dei rapporti privilegiati della Serenissima con l’Impero bizantino, con
il mondo arabo e con le altre città di mare come Genova. Nei diari di bordo di
Pigafetta, Colombo e Giovanni da Empoli si trova il termine, di origine
iberica, “bomba” inteso come una specie di vela quadrata. Nel periodo
tardomedievale e rinascimentale l’apporto del veneziano cambia il significato
del termine che entra nel linguaggio militare; così “Bombonato” rientra tra i
naviganti, ammiragli o marinai.
Tra le carte antiche si è trovato un
Bombonato da Ramo di Palo di cui non si sa nulla.
Il cognome Bombonato, e sue variazioni, oggi,
è presente tra Milano e Bergamo e nel Polesine; non più di 500 famiglie, di cui
una ottantina in provincia di Rovigo, soprattutto a Pontecchio Polesine. Il
fenomeno della migrazione ha portato in Brasile anche dei Bombonato.
Che
ve ne pare?
Omero 21
Interessante lo studio dei cognomi, a quanto
ho capito la gente si interessa più a questo che alla parte degli stemmi, vuole
sapere la storia della sua famiglia, o no?
Questa parte che vi metto qui ora non la
leggerà, perché sono io che ricevo le varie email del nostro gruppo
improvvisato, le attacco per farle leggere a tutti e poi le mando ai vari
indirizzi.
Il personaggio in questione è piuttosto
misterioso, sia perché ha insistito per partecipare a queso epistolario e
perché è voluto diventare mio amico anche piuttosto... direi in maniera
forzata, mi è sembrato. Essendo molto simpatico non gli è stato difficile, ha
una personalità molto forte e non ama essere contraddetto. Direi che è un
manipolatore, intelligentissimo e colto, simpatico e affabile, ma anche
piuttosto irascibile.
Una signora italo-tedesca poi mi ha detto di
averlo riconosciuto, che era, o è ancora, lo psicoterapeuta di sua sorella e
che non è per niente cieco!
D'accordo, mettiamo nell'inventario
un'ipotesi normale e classica: che la signora si sbagli cioè, che sia solo una
somiglianza, ma la signora Soverato, che è una nostra cliente fissa, e non pare
assolutamente una visionaria, dice che lui usa legarsi i lunghi capelli bianchi
in un codino per le sue sedute, invece qui si presenta con quegli occhialini
scuri dei ciechi, che altrimenti non userebbe e la candida chioma al vento.
La signora Ute Soverato e sua sorella Gundel,
sono di madre tedesca e padre italiano, ma hanno sempre vissuto a Berlino. Loro
due più una decina di altre persone, vengono qui di lunedì, tutte le settimane
e parlano solo in italiano, che tutti stanno studiando e sono appassionati
della nostra penisola, ridono come matti e si scolano diverse bottiglie di vino
bianco: Vernaccia, Pitigliano, Gewürztraminer, Müller Thurgau e Chardonnay.
Vengono e se ne vanno in taxi, per non correre rischi inutili. Gundel, la
sorella suddetta vorrebbe far parte del nostro gruppo, il suo italiano è quasi
perfetto, anche se la sua pronuncia è piuttosto legnosa, come di solito succede
ai tedeschi, ma per email non si sente tanto.
Ora che Gualtiero non c'è più la potremmo
anche accettare. Lo chiedo a voi, anche perché il nostro babbo natale
potrebbe anche cambiare idea e se fosse vero quello che dicono le sorelle
Soverato sarebbe una cosa imbarazzante. Propongo di far passare qualche
settimana, per vedere cosa succede.
Le due sorelle sono affabili e simpatiche, ma
tra di loro quanto di più differente si possa trovare al mondo. Ute è una che
prima di fare le cose le pensa e le classifica in un estremo ordine nel
cervello, poi ci pensa assai e non le mette in pratica, nella maggior parte dei
casi. Gundel invece è anche troppo spontanea e a volte diventa... diciamo così:
sconveniente. Ute forse vuole proteggere Gundel dal mondo, sorella maggiore che
si sente quasi una mamma della minore.
Questo fatto di Gualtiero sono sicuro che la
piccola alla grande glielo aveva detto da tempo, ma Ute ci pensava da settimane
se era il caso di rivelarmelo o no, diverse volte ho avuto la sensazione che
stesse per dirmi qualcosa. Pensavo a una magagna del mangiare o del servizio,
il loro gruppo è molto importante per l'economia del ristorante, mi portano un
sacco di soldi e non mancano mai all'appello.
Ute però poi decideva di tacere, alla fine ce
l'ha fatta a vincere i suoi stessi ostacoli e quando me lo ha detto, mi ha
sorpreso assai.
Tutt'e due sono laureate: Gundel
professoressa di lingue straniere (italiano e spagnolo) e Ute ginecologa.
Chiara 22
Anche io sono appena arrivata, ma se mi
chiedete cosa ne penso di ammettere anche queste due signore la mia risposta è
sì.
Mi è stato chiesto altresì di formulare la
mia opinione su quello che ha detto Gualtiero, in base a ciò che avrebbe
sottinteso Ugo. Ho difficoltà perfino a capire cosa dicono, lo confesso.
Naturalmente conoscendo Ugo tenderei a dare ragione a lui.
Dal punto di vista filosofico, se mi
chiedessero la mia personale teoria di comportamento, mi chiedo se saprei
rispondere. La gente attorno a me non ci pensa a queste cose, io mi sorprendo
solo ora a dire che non lo so, ci dovrei pensare. Non è un tipo di ragionamento
che sono abituata a fare, forse se dico come vivo lo capirete da voi.
Certo che il mio punto di vista sulla mia
vita sarebbe influenzato da quello che io vorrei che fosse e a nascondere
quello che invece è, che vorrei anche cambiarlo, ma non ci riesco. Non riesco
ad ammettere che non ci riesco, forse perché non dipende solo da me.
Va bene, una donna seguendo quello che ha
intorno e il suo istinto, tenderebbe a comportarsi in un'ottica di mamma, cioè
interpreta la sua vita non tanto pensando a sé stessa, o a suo marito, ma ai
suoi figli per i quali darebbe tutto, non solo in teoria, ma succede
concretamente e quotidianamente che annulla la propria in funzione della loro.
Non si tratta di eroismo, è un meccanismo che se ci si rende conto mette un po'
paura, ma fregarsene e pensare solo a sé stessi e ancora più spaventoso. Le
mezze misure significherebbero un'armonia che nella vita è difficile ottenere,
si tende sempre ad esagerare da una parte o dall'altra.
Anche in politica, se la donna comincia ad
avere il suo ruolo in crescita di importanza, poi finisce per comportarsi come
un uomo.
E allora siamo sempre più lontani da una
integrazione. Mio marito è rimasto deluso dal governo attuale, per esempio,
povero illuso, figurarsi che aveva scritto, da maschio femminista, questo
dialogo al quale però crede sempre meno.
“Ha! Mi fanno ridere quelli che dicono che
l’uomo è l’animale più intelligente.”
“L’uomo inteso come umanità?”
“No, l’uomo inteso come maschio della donna.”
“Ah. E secondo te chi è allora, il più intelligente: il delfino?”
“No, per me è proprio la donna.”
“La donna intesa come femmina di uomo?”
“Questa è la mia opinione.”
Pausa, soffio di vento all’esterno, un
clacson lontano.
“Tu non ci crederai, ma io ho sempre avuto
l’impressione che tu mi considerassi un po’ in ritardo, anche sulle tue teorie
più semplici.”
“Beh, tu sei più essenziale, la donna non ne
ha bisogno di certe cose, a meno che non sia per arrivare alla conservazione
della specie, per quello la cultura ampia non serve.”
“Per esempio per simulare e dissimulare, sono
sempre stata meglio di te.”
“Esattamente.”
“Eh sì.”
“In più non ti disperdi nei meandri dei
pensieri, sei essenziale e badi al sodo, io, a volte, per capire se voglio
prendere un caffè o no, ci metto una mezz’ora.”
“Comunque sia, la tua nuova teoria
m’interessa.”
“Non è nuova, come teoria, da giovane non te
la potevo dire, ora che siamo più attempati…”
“Insomma: hai sempre pensato che le donne
sono meglio degli uomini?”
“Leggendo Bukowski, confesso, mi ero convinto
del contrario, ma proprio allora ho iniziato a pormi il problema. Eravamo alla
fine degli anni 70...”
“Perché poi, da giovane, non me lo potevi
dire?”
“Perché avevo paura che ti saresti montata la
testa, chi lo sa, in un secondo momento di perderti.”
“Ed ora non ce l’hai più ‘sta paura?”
“Ora ho capito che passate le pulsioni più prepotenti
del sesso, saputo anche che l’orgasmo è un trucco unicamente inventato per
stimolare la procreazione, noi ci sentiamo più liberi e tranquilli, non abbiamo
voglia di infilarci in avventure, abbiamo una certa età, perciò…”
“Ho capito, vado a prendere una birretta.
Preparati perché stavolta voglio sapere fino in fondo tutto quello che hai da
dire. Spero solo che non sia una delle tue solite tattiche.”
L’uomo con le pantofole sorride, arrossisce
un po’, la donna coi bigodini va e torna in un minuto.
“Io sarei pronta, vuoi un sottofondo di
musica?
“Sì, ma non saprei cosa scegliere…”
“Ti va bene Keith Jarrett?”
“Kölln Konzert?”
“Fatto.”
I due sono di nuovo seduti e sorseggiano le
rispettive birre, un pianoforte suona già, le sue note lente echeggiano piuttosto
ipnotiche, si potrebbe dire.
“Tutto è iniziato quando in Africa certe
foreste si trasformarono in savana, le scimmie dovettero scendere, per andare
da un albero all’altro…”
“Scusa, ma non l’hai presa un po’ troppo da
sotto?”
“Sì, ma è necessaria un po’ di ambientazione,
sai, per capire meglio come era la vita dell’epoca…”
“Guarda: sono le undici e mezzo, domattina
devo uscire presto. Sai com’è, la gente esce di casa, a volte. Quanto tempo è
che non provi anche tu quest’emozione?”
“Ora non mi ricordo. Però prima mi sembravi
entusiasta.”
“Lo sono, ma sbrigati che è tardi.”
“Va bene, taglierò i dettagli.”
“Vai.”
“Dunque, allora quello che poi sarebbe
diventato l’uomo, iniziò a camminare eretto, a muoversi in cerca di cibo, era
nomade, si spostava ain piccoli gruppi. Quando dal cosiddetto uomo di
Heidelberg uscirono fuori, non si sa come, due gruppi separati e ben distinti:
uno più forte e abituato allo sforzo fisico, alle temperature più basse, l’uomo
di Neanderthal; l’altro, l’Homo Sapiens, veniva da zone più calde, era meno
forte, fisicamente, ma sapeva lavorare meglio i suoi utensili, era più intelligente.
Per motivi che non sappiamo e poi stasera è
anche tardi per affrontarli, l’Homo Sapiens salì verso nord e si trovò a
disputare il terreno dove i Neanderthal vivevano già.”
“E le donne dov’erano?”
“Le donne entrano quando la concorrenza trai
due diventa gioco di vita o morte, ma perché i Neanderthal avrebbero dovuto
soccombere?
Perché la donna scelse chi era più adatto a
fare quello che aveva scoperto, cioè il modo migliore per sconfiggere la fame e
il problema della sopravvivenza, l’Homo Sapiens era più intelligente e meno
adatto alla caccia, cioè alla sopravvivenza di quel vecchio tipo…”
“Ma che cosa aveva scoperto la donna?”
“L’agricoltura.”
“Ma chi te lo ha detto? A me non risulta
proprio.”
“Beh, l’uomo era cacciatore e pescatore,
stava fuori tutto il giorno per procacciare cibo, la donna no, stava ad
aspettare, sorvegliava il territorio, sicuramente aveva la pazienza necessaria,
più l’occasione di vedere cosa succedeva coi semi nella terra, che poi era la
stessa cosa che succedeva a lei. Procreavano, continuavano la vita.”
“Forse hai ragione.”
“Direi che tutto combina abbastanza. Per via
della riproduzione, l’istinto più forte della donna, chiave di volta della
natura stessa, si decide che l’agricoltura è il modo migliore anche per
allevare i figli, stare tutti più vicini, insomma.
Ecco che nasce anche l’idea della famiglia,
la donna convince l’uomo che deve mettere la testa a posto, basta coi divertimenti
senza regole.
Non è che glielo spiega, ma lo mette in
pratica coi fatti.”
“E come riesce a farcela?”
“Attraverso il sesso, è chiaro, l’uomo ha
sempre avuto la debolezza di credere che è lui il dominatore del mondo, anche
nel sesso, poverino, ma invece l’ultima parola è sempre della donna, è lei che
sceglie.
Il suo segreto è che per lei il piacere del
sesso è una roba di secondaria importanza, lo controlla assai meglio dell’uomo.
Dopo aver scelto l’Homo Sapiens, fatto
estinguere il rozzo e ormai superato Neanderthal, sceglie la monogamia e la fa
diventare tacita legge nel mondo, perché così il nucleo familiare si sviluppa
con meno problemi, per allevare i figli funziona meglio e così via.
Ecco che l’uomo dà l’addio al suo passato di
nomade, mentre le avventure extraconiugali diventano fuorilegge, con effetto
pressoché immediato.
Insomma la civilizzazione iniziò così, anche
se l’uomo non ne era proprio felice, almeno salvava le apparenze.
La donna prese ad addomesticare gli animali,
non si sa se fu per primo il cane, o la capra o la gallina, ma subito dopo è
toccato all’uomo.”
“E allora perché l’uomo ora controlla tutto
il mondo, la donna ha una posizione di comprimaria, esclusa dagli incarichi
importanti e così via?”
“No, non è così, la donna ha lasciato
all’uomo il ruolo di capofamiglia e poi di capotribù e di sindaco, o capo di
stato, o quello che può essere, non per generosità, ma per calcolo.
Tutti questi ruoli di amministrazione del
potere sono secondari, lei non lo dice, ma lo sa e lo sa per via delle
mestruazioni.”
“Che? Le mestruazioni? Ma che c’entra?”
“La donna
alla porta di uscita dell’infanzia scopre le mestruazioni, diventa
adulta molto prima dell’uomo, in più in una società come quella italiana,
l’uomo non diventa mai adulto, ma questo è un altro discorso e manca già un
quarto a mezzanotte.
Tornando alle mestruazioni, la donna scopre
prestissimo che la vita ha inizio e fine, questo forma il suo carattere, avrà
sempre i piedi per terra, lascerà i sogni di gloria all’uomo, che invece deve
dare un senso alla sua vita, occupando quei vari ruoli di preminenza della
società a cui la donna non aspira, perché ha altro da fare, deve continuare la
specie, lei.”
“Allora perché, se la donna non da’
importanza al potere e al denaro, secondo te, cerca sempre uomini che hanno
denaro e potere?”
“Non sempre, tu hai scelto me, non certo per
il mio potere o per il mio denaro…”
“Beh, tu mi hai sempre rassicurato con delle
teorie simpatiche , a volte astruse, ma che mi facevano vedere la vita in un
altro modo…”
“Può essere, ma io credo che tu vedessi in
me, soprattutto, un potenziale buon padre per i tuoi figli, come infatti è
stato…”
“Probabilmente è così.”
“La donna, comunque, cerca un ambiente che
gli permetta di allevare i figli senza eccessivi problemi e quindi spesso è
vero che cerca uomini con denaro e potere, ma li vuole non per quello che
rappresentano, ma solo per il futuro di una famiglia più sicura.
“Beh, non sempre è così.”
“No, ma ci sono più probabilità, se c’è
denaro e potere, i figli crescono più sani e più forti, più protetti, secondo
un ragionamento semplicistico ma assai seguito, almeno sulla terra.”
“Infatti.”
“Ecco, l’uomo non ha la risposta alla domanda
fondamentale sulla vita e non la cerca nemmeno. Fa finta e basta. In compenso
cerca di sfuggire alla responsabilità, inventa gli sport, va al club, al
casinó, si fa l’amante, tutto quello che lo allontana dal punto focale della
civilizzazione lo affascina.”
“Ma allora perché la donna, se è così
intelligente, determinata e motivata, ha lasciato portare il mondo al punto in
cui sta adesso, con distruzioni ambientali, fame, povertà, le multinazionali,
le banche, il WTO e la distribuzione dei capitali in mano a pochi e senza
scrupoli?”
“Beh, la donna ora si rende conto di essersi
fidata troppo dell’uomo e vede i danni che lui ha recato al mondo, ecco perché
ha dovuto cambiare piano, da qualche anno la tendenza si sta invertendo, lo
avrai notato.
Lei deve, suo malgrado, prendere il potere
dalla parte del manico, sennò tutto va a ramengo e chi ne farà le spese presto
o tardi sarà la continuazione della specie, la sua sfida sarà continuare ad
essere madre e allo stesso tempo incollare i cocci del mondo mezzo rotto...”
“Mi pare spaventoso.”
“Spaventoso è quello che l’uomo ha fatto del
mondo finora, ci ha giocato come se fosse una partita a Monopoli, senza mai
pensare al dopo, alle conseguenze delle sue stronzate, l’uomo non pensa mai
alla continuazione della specie, che gliene frega a lui? Ma la donna ora
prenderà le redini ed ha tutto quello che le serve per riuscire a salvarci,
anche se non ce lo meritiamo, anche se noi faremo di tutto per non lasciarvi
gli incarichi che pensiamo che ci appartengano da sempre, non ci credi?”
“Vorrei crederci, o forse no, forse ho paura
di crederci.”
“Beh, non c’è bisogno di cominciare subito.”
“Si può rimandare a domani?”
“C’è una certa urgenza, è inutile negarlo, ma
avete aspettato migliaia di anni, otto ore in più o in meno non saranno
determinanti.”
“Si va a letto?”
“Sì, certo, ma a che ora ti volevi alzare
domattina?”
Io gli ho detto che secondo me non si può
fare nemmeno una specie di rivoluzione con i tempi attuali di pensiero unico
dominante, partendo da una sola persona. Se anche fosse Vangelo e perfino
se fosse Cristo in persona si metterebbero tutti contro. L'umanità ha
complicato la sua esistenza tanto che è sempre più difficile capire chi ha
ragione e chi ha torto. Il consenso sarebbe una bella cosa, se non obbligasse
la distorta mentalità umana a fingere, invece che a essere, ad andare sempre
più dietro alle apparenze e sempre meno i contenuti.
Marco dice che è solo un'epoca di transizione
e io gli rispondo che in fondo tutte le epoche sono di passaggio, per arrivare
ad altre. Purtroppo sì, dice lui, o per fortuna dico io.
Albertina
23
Sì, facciamo entrare queste signore che
vogliono imparare l'italiano, io non ho mai conosciuto una tedesca, insomma
sono curiosa e disponibile a collaborare, per una buona causa anche a
sforzarmi, voglio dire a chiudere un occhio. In più possono aiutarci a capire
questa storia di Gualtiero, che mi pare misteriosa e intrigante, non lo so.
Martino ha detto che Berlino è a un tiro di
schioppo, basta avere le ferie e veniamo lì, a mangiare anche, ma non solo.
Sono comunque 1300 km di distanza e il vero
problema è che lui le ferie non le ha praticamente mai fatte, ha una ditta in
proprio con un socio, e si fanno il cosiddetto culo da una vita. In compenso ci
tirano fuori pochi soldi e sono sempre preoccupati, per le nuove leggi e le
tasse, per le bollette sempre più care, lavorare sempre di più per guadagnare
sempre meno, insomma come tutti vengono strangolati dal sistema, questa è la
normalità, credo che lo sia ovunque, non solo in Italia.
Rispondendo a Omero, l'araldica infatti, come
tu suggerisci, è diventata più lo studio dei cognomi, anche se è nata come uno
studio degli stemmi. Insomma la storia della famiglia attualmente acchiappa di
più e un cognome uguale non significa affatto che siamo della stessa famiglia.
Chiara
24
Ragazze e ragazzi, scusatemi.
Ho fatto già due interventi, di cui uno
lunghissimo e non mi sono neanche presentata. Beh, il nome lo sapete, l’età non
importa. Sono nata a Pontito, una delle dieci “castella”, cioè paesi, che
compongono la “Svizzera Pesciatina”. Nome che sembra altisonante per questa
parte montagnosa del comune di Pescia, provincia di Pistoia, ma che le è stato dato proprio da uno svizzero,
l’economista nonché storico e letterato Jean Charles Léonard Simonde de Sismond
che a Pescia ha vissuto una parte della sua vita. In queste lande sono gli
stranieri a valorizzarci un po’: noi indigeni siamo buoni solo a buttarci fango
– sentite come sono fine – addosso.
Poi ho abitato a Borgo a Buggiano, sempre in
zona, e ora a Lucca. Conosco Remoto perché i miei andavano a Viareggio un
mesetto all’anno in villeggiatura d’estate e ci si conobbe sulla spiaggia. Ero
ferma davanti al mare e mi preparavo per tuffarmici quando quel… quel…
definiamolo babbeo, mi venne addosso e mi buttò in terra. “Scusa, stavo
guardando quella nave che sta entrando in porto e non ti ho vista”, fu la
giustificativa. Poi, per farla breve, si fece conoscenza e si amoreggiò pure,
nel nostro periodo universitario a Pisa. Ma eravamo molto differenti: io
solare, lui un po’ orso e amante della solitudine. Quando per lavoro ebbe la
possibilità di lasciare l’Italia, non se lo fece dire due volte e ciao! Fine
dell’amore, ma non dell’amicizia.
Ah, io ho poco tempo perché a differenza
dell’orso solitario, io sono sposata con quattro figli. E di bimbetti me ne
intendo, dato che insegno italiano, storia e geografia in una scuola secondaria
di primo grado, le vecchie scuole medie.
Oltre a lui, di questo gruppo conosco – ma
solo per nome – Albertina, un altro mito sessuale (oltre a me, chiaramente) del
Remoto giovane. Il quale, tante chiacchiere ma… lasciamo perdere, via che è
meglio.
Lascio a voi le discussioni, che ho già
scritto troppo!
Landucci, il mio cognome, è tipicamente
toscano credo, Albertina potresti dirmi da cosa viene?
Albertina
25
Rapidamente e sinteticamente ti rispondo,
Chiara, perché queste notizie sono il nostro business e non lo possiamo
divulgare così pubblicamente o quasi.
Potrebbe derivare da una variante
dialettale di nomi medioevali come Orlando o Rolando (significa "gloria
nella sua terra"). Il cognome Landucci è
toscano, della provincia di Lucca in particolare.
Ugo 26
Interessante questo studio dei cognomi, per
esempio il mio da cosa viene? Ultimamente sono un po’ indaffarato, poi vi
spiego, anche se so di essere praticamente insostituibile, le due signore
tedesche potranno attenuare la sensazione di vuoto della mia mancanza, pur se
provvisoria. Sicuramente hanno tante cose da raccontarci, ma speriamo che sia
in italiano! A presto, o quasi!
Albertina 27
Il cognome Lai ha origini molto antiche e in
Italia è generalmente associato alle regioni della Sardegna e della Toscana.
Esso è un toponimo, ovvero un cognome derivante da un nome geografico,
specificatamente dal latino Lacus che
significa 'lago', 'pianura alluvionale' o 'bacino idrico'. Si ritiene che
indicasse in origine quelle famiglie che abitavano in prossimità di una
formazione lacustre o un insediamento adiacente a un bacino d'acqua.
Ute e
Gundel Soverato 28
Non preoccupatevi, ci
siamo imposte di scrivere solo in italiano, in fondo è per questo che siamo
qui, per perfezionare la nostra lingua.
Il cognome Soverato è un
toponimo, ci hanno spiegato che viene dalla Calabria, si tratta di un paese sul
litorale del mar Ionio, lo abbiamo anche visitato e c'è perfino un peperoncino
piccante che reca lo stesso nome.
Sebbene di padre italiano,
siamo due berlinesi autentiche, di solito invece i tedeschi che vivono a
Berlino vengono da altre città, non che essere nate qui significhi qualcosa di
bello o invidiabile, ma solo piuttosto raro.
La guerra forse ha
lasciato tracce nelle nostre case e famiglie, anzi sicuramente. Berlino ha
sofferto più di altre, ci sono stati i bombardamenti, il Muro, il Ponte
Aereo, la divisione in quattro parti
simboliche, ma neanche tanto e altri episodi determinanti per chi viveva qua.
Per molti anni non è stata più la capitale della Germania, Berlino, piuttosto
recentemente è tornata ad esserlo.
I tedeschi hanno sofferto
per i loro gravi errori e sono spesso malvisti anche oggi, per il loro
atteggiamento prepotente, secondo noi anche giustamente.
Una società saggia, se
potesse esistere, sarebbe poco numerosa e separata dalle altre società, ma è
solo una teoria, perché se solo esistesse non potrebbe non essere assai
influenzata e contagiata dalle altre.
Per esempio gli indios
dell'Amazzonia, vivono una vita migliore della nostra, a contatto con la natura
e producendo solo quello che gli serve per vivere. Ma vengono schiacciati e
massacrati regolarmente per prendere le loro terre. Se hanno avuto la foresta e
le acque a proteggerli, questo sarà sempre più difficile e improbabile.
La società, in senso
generale, è malata, non dovremmo proprio farcene una ragione, perché basta una
minima percentuale dei suoi facenti parte per far ammalare anche gli altri.
Una società saggia
guarderebbe lontano. Invece ognuna di quelle che conosciamo non
riesce nemmeno a vedere l'immediato. Nel suo rapporto con l'ambiente, ad
esempio, una cultura brillante potrebbe interrogarsi su quali conseguenze
porterebbero, tra mille anni, le alterazioni nelle sequenze genetiche di organismi
selvatici o addomesticati e di altre specie introdotte.
Fra 1.000 anni, cosa accadrà del combustibile
nucleare esaurito? Ma 1.000 anni sono uno spazio di tempo troppo distante per
essere preso in considerazione, tanto più da gente indaffarata come noi che ha
problemi a pianificare le prossime vacanze estive. Dieci secoli oltrepassano a
tal punto la durata della nostra vita e l'orizzonte della nostra immaginazione
che vogliamo solo liquidarli come estranei e inavvicinabili, non vale la pena
pensarci?
Questo l'abbiamo scritto insieme,
naturalmente per grammatica e sintassi ci aiutiamo a vicenda. Ute mastica meno
l'italiano di Gundel che è professoressa, ma Gundel la aiuterà per correggere i
testi.
Omero 29
E Tucci da cosa proviene?
Non sono proprio sicuro di capire cosa volete
dire, sorelle Soverato, vi vorreste spiegare meglio? Intanto il vostro italiano
è perfetto, congratulazioni, non si sente nemmeno l'accento tedesco.
Albertina
30
Tucci dovrebbe derivare dal nome medioevale
Tuccio, di cui si trovano varie tracce, ad esempio nel grossetano. A Montieri
ad esempio appare un Ser Tuccio in qualità di vicario vescovile nel 1300 e a
Firenze, sempre nello stesso periodo, si trova un fra Giovanni di Tuccio
degl'Infangati.
Una seconda ipotesi lo lega ai vezzeggiativi
di nomi come Alberto, Roberto, Santo o Vito.
Un altro esempio di questa cognomizzazione si
trova nella seconda metà del 1500 a Narni (TR), dove si legge di un magistrato:
"...Illustri et excellenti domino Eugenio Tuccio...".
Il cognome Tucci è
molto diffuso in tutta l'Italia peninsulare.
Gundel 31
Ora ci provo io a spiegare più diffusamente quello
che abbiamo scritto, che poi è stato un parto di qualche opportuno copia-incolla,
per questo senza errori.
Oltre a questa discendenza padre-figlio,
esiste anche un'altra definizione di generazione che potrebbe essere utile.
Potremmo contare come generazione la durata di una vita. Una generazione
andrebbe quindi dalla nascita alla morte, quella successiva dalla nascita alla
morte e così via, ogni volta per 72 anni di media circa. Immaginiamo di
tramandare un tesoro: basterebbe che una persona sia presente nella vita di
un'altra, anche per un solo giorno, per il passaggio di consegna. Il tesoro
potrebbe essere un oggetto, ad esempio una biblioteca in formato tascabile,
oppure un'entità astratta, come la conoscenza o la saggezza, da passare di
persona in persona come in una catena. Finché c'è una persona che nasce prima
che il possessore precedente muoia, la catena generazionale non s'interrompe. Ci
siamo evoluti per concepire mentalmente le generazioni. Quante generazioni
attraversano mille anni?
Ho costruito una catena generazionale
virtuale cercando su Wikipedia una persona importante morta poco dopo la mia
nascita. Qualche minuto di ricerca ed ecco comparire l'esploratore Sven Hedin.
Poi scopro un'altra persona assurta agli onori di Wikipedia nata poco prima che
Hedin morisse. Poi un'altra nata prima della morte del predecessore e così via
di seguito. Con poco sforzo, ho formato una catena di 13 persone che risale nel
tempo di 1.000 anni:
1952 # Io
1865 # Sven Hedin, esploratore
1785 # William Hooker, botanico
1696 # James Oglethorpe, fondatore dello stato della Georgia
1629 # Papa Giovanni III di Polonia
1560 # Hieronymus Praetorius, compositore tedesco
1466 # Andrea Doria, ammiraglio italiano
1386 # Donatello, artista italiano
1319 # Pietro IV d'Aragona
1255 # Duccio, pittore italiano
1173 # Tankei, scultore giapponese
1116 # Roger de Clare, conte di Hertford
1070 # Colomano di Ungheria
1011 # Roberto I, duca di Borgogna
La "singolarità", concetto nato
come sinonimo di "punto di discontinuità" in matematica, è oggi usato
dai futurologi e dai sostenitori del "singolaritanismo" (una nuova
teoria e filosofia morale), per indicare un punto, nello sviluppo di una
civiltà, in cui il processo tecnologico accelera oltre le capacità di
comprendere e prevedere di coloro che vivono nell'epoca precedente. Secondo
alcuni studiosi il progresso tecnologico, essendo una conseguenza delle
capacità di calcolo che hanno avuto negli ultimi decenni una crescita
esponenziale (cioè che raddoppia la velocità ogni 18 mesi) accelererà
altrettanto esponenzialmente, grazie soprattutto alle nanotecnologie. Sarà
possibile, molto prima del previsto, il superamento dell'invecchiamento, il
collegamento tra mente umana e artificiale e la creazione di menti
"miste" molto più intelligenti delle umane.
Acceleriamo! Tutti
risultati che saranno alla base della "singolarità" che favorirà un
enorme balzo in avanti dell'intelligenza sulla Terra. Sulla base di teorie come
questa è nato anche un movimento, il "singolaritanismo", che sostiene
la necessità di accelerarne la realizzazione.
In questa catena virtuale, il duca di
Borgogna, nato nel 1011, potrebbe aver consegnato personalmente la sua formula
del successo a Colomano d'Ungheria, che a sua volta avrebbe potuto passarla a
Roger de Clare e così via fino ad arrivare a Sven Hedin, che avrebbe potuto
trasferirla a me. Sono stato costretto a scegliere personaggi famosi, le cui
strade avevano ben poche probabilità di incrociarsi, perché esistono scarse
testimonianze storiche della nascita di persone comuni: gli unici che hanno
date di nascita note sono i personaggi famosi. Ma anche le persone comuni di
qualsiasi famiglia potrebbero formare una catena di relazioni che copre lo
stesso arco di tempo, con un pronipote che nasce prima della morte del proprio
bisnonno. Potremmo immaginare il bisnonno che prende in braccio il piccolo e in
qualche modo gli trasmette la saggezza del suo bisnonno.
Continuando a immaginare, potremmo
visualizzare una persona di 70 anni con le braccia distese in direzioni
diverse, dal passato della nascita al futuro della morte, con le dita che
toccano la generazione precedente e successiva. In una catena di braccia tese, ciascuna
delle quali rappresenta 70 anni, avremmo bisogno di allineare solo 13 persone
per attraversare con le loro vite un arco di tempo lungo 1.000 anni. Se faccio
il gioco della campana saltando su 13 caselle che rappresentano altrettante
generazioni del passato, arrivo all'anno 1000 d.C. Perché fermarsi qui? Posso
continuare per altre 13 generazioni di
persone-nate-prima-della-morte-del-rispettivo-predecessore e risalire fino
all'anno 10 d.C., all'epoca di Gesù:
950 # Reizei, imperatore del Giappone
870 # Al-Farabi, filosofo islamico
792 # Papa Adriano II
715 # Malik ibn Anas, studioso islamico
640 # Musa ibn Nusair, governatore del Nord Africa
593 # Jomei, imperatore del Giappone
538 # Gregorio di Tour, storico romano
512 # Severo, patriarca di Antiochia
441 # Shen Yue, poeta cinese
390 # Bleda, re degli Unni
313 # Didimo il Cieco, teologo
270 # Massimo, imperatore romano
213 # Claudio II, imperatore romano
178 # Pang Tong, consigliere di corte
121 # Marco Aurelio, imperatore romano
70 # Marino di Tiro, matematico fenicio
10 # Erone di Alessandria, ingegnere greco
Albertina
32
Se si accellera, come suggerite voi care
sorelle Soverato, se malauguratamente si accellerasse ancora di più, penso che
si scoppierebbe, tra l'altro mi pare che stia già succedendo. Non capisco
comunque che cosa volete intendere con questa affermazione, lo confesso.
Non abbiamo intanto una data precisa per la
nascita della prima civiltà propriamente detta (quella sumera), e non abbiamo
un numero di anni esatto e costante per definire una generazione.
In termini legali credo si utilizzino 25
anni, molti biologi molecolari nelle ricostruzioni della storia evolutiva usano
27 anni, in alcuni libri di antropologia ho letto che fino al XIX secolo la
durata delle generazioni variava in base all’ aspettativa di vita del periodo,
per esempio nel XII e XIII secolo una generazione veniva contata in 18–20 anni.
Se usiamo come media i 25 anni per
generazione, e supponendo la nascita della civiltà sumera il 1° gennaio 3800
a.C., si tratta di 5819 anni e quindi 232 generazioni. Se usiamo i 27 anni per
generazione il totale scende a 215, mentre se usiamo 20 anni come media il
totale sale a 290 generazioni.
Per
nascere abbiamo bisogno di:
2 Genitori
4 nonni
8 bisnonni
16 trisnonni
32 tetra- nonni
64 penta - nonni
128 esa-nonni
256 etta-nonni
512 Otta-nonni
1024 Enna-nonni
2048 Deca-nonni
Solo il totale delle ultime 11 generazioni,
sono stati necessari 4.094 ancestrali, tutto questo in circa 300 anni prima che
noi nascessimo.
Ute 33
L'accellerazione che suggerisce tale
movimento non è nel ritmo di vita, già arrivata ai limiti di sopportazione, ma
solo nella ricerca scientifica e sociologica.
In sociologia,
una generazione è un insieme di persone che è vissuto nello stesso
periodo ed è stato esposto a eventi che l'hanno caratterizzato. Una generazione
raggruppa, cioè, tutti quegli individui segnati dagli stessi eventi, ed è
distinta dal concetto statistico di coorte dal fatto di
condividere un comune sistema valoriale e una comune prospettiva sul futuro.
Definibile solo a posteriori, cioè quando la
sua influenza sulla storia e nella società è terminata, una generazione è
spesso in almeno una forma di conflitto con la precedente, qualità che
contribuisce a caratterizzarla. Gli eventi influiscono sulla generazione che li
ha vissuti, determinandone dunque un mantenimento di caratteristiche
proprie di quel momento storico, culturale e sociale.
Fin dall'antichità si è posto il problema del
concetto di generazione, che può essere inteso come gruppo di individui della
stessa età e di conseguenza nella stessa fase della loro esistenza, che
condividono una serie di eventi e una serie di prospettive:
lignaggio
discendenza familiare
ascendenza familiare
La sociologia si è interrogata su questo
concetto da un punto di vista quantitativo, al fine di determinare la durata di
una generazione e utilizzarla come unità di misura per la storia della società.
Bastava un battito di ciglia a determinare il passaggio da una generazione alla
successiva. Fin dall'antichità si intendeva una
generazione anche come unità
di misura temporale
non-standard per indicare la durata media di tempo tra la nascita
dei
genitori e la nascita dei loro figli. In questo senso la durata di una
generazione era calcolata intorno ai 30 anni e successivamente si è affermata
una quantificazione intorno ai 20-25 anni. I limiti dell'approccio quantitativo
sono però evidenti e sono stati ben presto messi in dubbio con diversi elementi
alla definizione delle caratteristiche principali del concetto di generazione:
·l'appartenenza
ad una stessa fase della vita (la contemporaneità)
·eventi,
cause, punti in comune caratterizzanti
·orizzonte comune di
esperienze
In questo contesto la presenza di incastri
temporali tra le varie generazioni non si configura più come un problema ed
esse possono avere durate diverse ed essere compresenti allo stesso tempo.
Una generazione ha solitamente anche
un'identità collettiva riconoscibile, sempre a posteriori.
La durata di una generazione umana conta una
distanza temporale di ogni 70 anni.
(Le notizie qui riportate sono interessanti,
anche a livello filosofico, ma vorrei suggerire - come membro fondatore di
questo forum - di focalizzarsi di più su questo tema. Vorrei suggerire di
formulare la propria personale filosofia di vita, che è un po' anche per questa
curiosità che ho intrapreso questo cammino, insieme a Ugo che per cause di
lavoro, suppongo, si è messo un po' da parte, spero provvisoriamente.
La nostra filosofia di vita si esprime anche
con la completa mancanza di filosofia, anche quella è già una scelta, cosciente
o meno, ma un codice personale, un tipo di comportamento, anche solo auspicato,
è necessario per capire un po' chi siamo e dove ci troviamo, che cosa vogliamo
eccetera.
Ho ricevuto diverse pressioni a riguardo e mi
fa piacere, quindi da questo momento in poi possono partecipare persone
introdotte dai già partecipanti, basta presentarsi sinteticamente con email
esterni a questo testo, ovviamente garantendo la propria capacità ed efficienza
in lingua italiana... e poi comportarsi da galantuomini e gentildonne, pena
espulsione immediata, o quasi)
tutto questo approssimativamente
Omero Tucci, fondatore capo, si fa per dire
Jens Kristensen 34
Presentato da Omero, sono danese, professore
all'università di Kiel. Ho avuto un'esperienza di vita interessante e interattiva,
forse perché ho studiato il comportamento umano, di diverse materie legate tra
di loro, come storia, filosofia e sociologia. Sono un falso magro leggermente
sovrappeso, ma non mi si potrebbe chiamare ciccione. Almeno questo lo spero.
Brizzolato, sale e pepe, attualmente con più sale e meno pepe.
Avendo una cultura abbastanza larga e
variegata ho insegnato un po' di tutto, dipendendo dalla richiesta del mercato,
a bassi livelli anche l'italiano, che è sempre stato una delle mie passioni,
anche per via delle vacanze sulle colline toscane e certi romanticissimi borghi
medioevali della Maremma.
Nonostante questo, quando lavoravo come
professore di materie umanistiche mi sorpresi di quanti soffrissero della
strana Sindrome del Bastiancontrario.
Se in una classe mi azzardavo a dire una cosa
di cui ero obbligato a citare l’esistenza, ma di cui ero anche certo
dell’inutilità, ecco che per loro, automaticamente, diventava la più importante
e unica questione, almeno fino alla fine della lezione.
Molti di loro se la ricordavano anche nelle
seguenti e insistevano nello spiegare per forza, a tutti, nuove e interessanti
sfaccettature sulle quali si erano esaustivamente documentati. Non valeva la
pena di dargli eccessiva soddisfazione, perché allora si convincevano ancora di
più dell’importanza nascosta dell’argomento in questione.
Con il tempo imparai a mettermi un po’ da
parte e a considerare questi soggetti soprattutto a livello antropologico e
sociologico insomma. Dopo un po’ quelli si stancavano, soprattutto se nessuno
li contrastava.
Ho notato che ci sono anche persone che se tu
dici che i peperoni ti hanno fatto male, per esempio quelli che erano sulla
pizza, vogliono convincerti che era un’altra cosa, ma non i peperoni.
Se dici che bere il caffè non ti fa dormire,
per loro diventerà un punto d’onore dimostrarti che non è vero, è solo una
questione psicologica, esattamente uguale per tutti.
La mia filosofia è vivere e lasciar vivere,
cercare di imparare costantemente e divertirsi un po' almeno, tutti i giorni.
Paride Persico 35
Contadino e sedicente cervello fino,
presentato da Ugo Lai, italiano in Argentina, città di Rosario. Un passato di
ragioniere e perfino di politico, ma per poco tempo, ho capito subito che lì
non c'era niente da fare. Ora faccio l'orto e studio varie materie, tra cui la
diffusa stupidità umana per capirne l'intelligenza, certo meno frequente, ma
indubbiamente esistente. Il mio cognome deriva dal famoso pesce un po' spinoso,
a livello gastronomico piuttosto gustoso, ma va saputo cucinare.
La mia filosofia è un misto: calma, il
mondo è nostro (proverbio brasiliano-bahiano) più se ce lo levano magari
potrebbe essere anche meglio (opportunismo internazionale).
Un mio conoscente è convinto di essere bravo
a fare i discorsi, cosa dalla quale invece io mi sento terrorizzato.
Ne è proprio orgoglioso e quando ce n’è
bisogno lo chiamano immancabilmente. Se qualcuno gli chiede qual è il suo
segreto, dice che sono tre:
1)Prima dico quello che sto per dire
2)Poi lo dico
3)Dopo ripeto quello che ho detto.
Naturalmente, poi, finita la lista dei
ringraziamenti e delle ruffianate, lo scheletro del discorso vero e proprio
sono dei luoghi comuni triti e detti mille volte da altri in occasioni del
genere o anche completamente differenti, durante conferenze o celebrazioni di
qualsiasi tipo.
La maggior parte della gente che mi piace,
non a caso, la pensa come me, a riguardo: i discorsi sono cose che nessuno ha
voglia di fare e nemmeno di ascoltare.
Proprio ieri ho visto un documentario
sull’archeologia e anche sulla scienza in generale, in cui gli intervistati
dicevano che teorie nuove, o prove importanti che cozzavano con tutto il
precedente di quella materia, venivano accantonate e nascoste, semplicemente
perché scomode, si sarebbe dovuto mettere tutto di nuovo in discussione.
Sono arrivato alla conclusione che gli umani
amano ingannarsi sistematicamente: prima lo fanno con se stessi, poi con gli
altri, gli altri lo fanno con loro e la verità rimane perlopiù intoccata.
Tutto questo non gl’impedisce certo di
sventolarla come una bandiera sacra e inviolabile, ma ne parlano come una cosa
astratta, che naturalmente non conoscono e nella pratica non vogliono nemmeno
conoscere, anzi: ci stanno attentissimi a non venirne nemmeno sfiorati.
Se si tratta di una facciata piace a tutti,
però nella sua applicazione pratica non gl’interessa, perché è una cosa
scomoda.
La verità è troppo rigida, si capisce, invece
la bugia apre un ventaglio enorme di possibilità, si può scegliere quella che
ci piace di più, quella che ci avvantaggia maggiormente, se ne avessimo
bisogno, se ne possono cambiare anche delle parti, strada facendo.
Si sfocia di nuovo inevitabilmente
nell’antropologia, una scienza molto vasta che io posso dire d’ignorare
profondamente, ma che parimenti mi affascina.
Omero 36
Che gli esseri umani amino ingannarsi non è
una novità, ma secondo me la maggior parte non si rende conto di tante cose,
anche più importanti, del fatto che insegue la propria coda.
Bisogna parlare per forza dell'ansia, perché
segna le nostre giornate e senza di quella si vivrebbe meglio. Non da oggi ho
cercato invano di sconfiggerla, di ignorarla, insomma di snobbarla e mi
piacerebbe sentire cosa ne pensate, se siete ansiosi o se invece non lo siete:
come, quando e perché.
Credo che sia un nostro limite, degli esseri
umani voglio dire, gli animali non ce l'hanno per quel che mi risulta, se non
sono gli stessi padroni che gliela fanno venire.
Forse per via della morte, che sappiamo
arriverà un giorno o l'altro, gli animali non lo sanno e stanno meglio.
Se la vita abbia un senso non lo so, ma
sembra che vogliamo essere sempre da un'altra parte, abbiamo la sensazione che
stiamo perdendo tempo.
Insomma che ci facciamo qui?
A questo proposito ero con il mio amico Jens,
che ora fa parte del nostro forum, parlavamo con le gambe nell'acqua, eravamo
con le rispettive consorti alla spiaggia dei nudisti di Teufelssee (Lago del
Diavolo), a Berlino ce ne sono diverse e io ero l'unico tra centinaia di
persone nude con addosso dei pantaloncini corti gialli a righine blu.
Era estate ed era caldo, una cosa che succede
anche in Germania. La gente completamente nuda prendeva il sole si comportava esattamente come se fosse
vestita. Nessuno mi guardava, non me lo facevano pesare, ma si vedeva che
m'ignoravano in maniera differente dagli altri.
Jens nemmeno da vestito era un granché, non
era certo un bello spettacolo da nudo, ma non gliene importava niente,
d'altronde attorno a noi non era il peggiore. Il mio amico, professore di
lingue e suo malgrado filosofo contemporaneo, uomo che per un bel po' invano ho
cercato di convincere a partecipare al nostro forum, mi ha sorpreso, non del
tutto positivamente, quando gli ho chiesto quale fosse - secondo lui che era un
addetto ai lavori - il senso della vita. Alla quale mia domanda ha placidamente
risposto:
- No, il senso della vita io non lo so, ma conosco il
senso della vite, se ti accontenti se non ti fissi troppo sul significato delle
parole e sulle preposizioni articolate.
Te lo posso anche sommariamente spiegare: la vita può
avere tanti sensi e ognuno inventa il suo, se può, o sennò segue la corrente, è
una roba complicata assai e troppo soggettiva per avere delle regole, che sono
inevitabilmente altalenanti e ingannevoli.
Personalmente io preferisco la vite. La vite ha due
sensi: avanti e indietro, nel senso che si può andare avanti e non si può
tornare indietro, questo implica che bisogna dare importanza a tutto,
riflettere, ponderare... ma senza esagerare, sennò ci si blocca. Per avere un
senso la vite deve andare avanti e non può andare indietro, è una condanna
degli esseri umani, ma è anche una specie di metaforico suggerimento. Fin qui
ci siamo?
- Tutto qui? Ho
domandato io deluso.
- No, ci sarebbe anche un altro senso, di un'altra vite.
Quella anche ha due sensi: produrre e portare a maturazione l'uva che può
essere usata come una normale uva da tavola, oppure per produrre il vino.
Quindi ha due sensi.
Ti pare una stronzata?
- No, due. Anzi quattro.
Luiz Santillana
37
Mi
ha presentato Ugo Lai, mi chiamo Luiz
e
sono spagnolo di origine, psichiatra, sono quindi preposto a seguire ed
amenizzare, quando ci riesco, certi comportamenti estremi e dannosi.
La
mia filosofia è vivere il momento, quindi è abbastanza varia e cangiante, forse
anche fluttuante. A me piace così. Oppure non saprei proprio come cambiarla,
fate voi.
L'ansia
mi renderebbe ansioso o anziano, scelgo di debellarla in una maniera mia
personale che è capire quando si presenta e agire al contrario, con una calma
artefatta sì, ma funzionante, almeno al mio caso.
Credo
che capire nel momento in cui certi problemi ci capitano, ci possa aiutare a
prenderli per le corna e quindi ad amenizzarli, ma non certo a dimenticarli,
come il coraggio può venire fuori dal momento in cui uno riconosce di aver
paura.
Ugo 38
Tranquillo, Gualtiero. A volte sono io che
posso non esprimermi bene. D’altra parte non sono un professore come la Chiara
(da notare come ci punzecchiamo: è lampante che ci amiamo sempre). Io lavoro di
numeri e di formule ed in più, nello scritto non si capiscono le sfaccettature
e le intonazioni delle frasi, per cui è difficile a volte interpretarlo. Per
esempio, qui nel Rio Grande do Sul c’è una piccola parola, anzi,
un’espressione, “bah”, che ha significati plurimi a seconda della cadenza con
cui è pronunciata e nello scriverla non si capirebbe qual è quello che vorremmo
utilizzare.
Proprio in questi giorni mi è successo
qualcosa di simile col mio amico Giovanni. Più o meno come con Gualtiero: anzi,
un po’ peggio, se si può dire così, perché avevo scritto una frase secca (e con
il punto esclamativo, odiato dai grandi scrittori) che poteva essere mal
interpretata. Non c’è stato nessun litigio, parlando ci siamo intesi subito.
Ecco una cosa che manca al mondo moderno,
soprattutto quello social: la calma, l’analisi, il discernimento di ciò che
l’altro scrive. Si legge, si parte subito in tromba e poi fatichiamo per
rimettere insieme gli eventuali cocci. Tempo fa lessi, su uno dei più famosi di
questi social, una persona che criticava un parcheggio di un camion a una certa
ora che metteva in difficoltà il passaggio degli autobus. Subito gli fu
risposto, in maniera scorbutica, che tanto in quel momento della giornata le
corse dei mezzi pubblici erano terminate. A sua volta, la prima persona replicò
che invece gli autobus a quell’ora c’erano, essendo proprio lui un autista di
quelle linee.
Sembra che le persone diano tutto per
scontato, padroni della verità assoluta, conoscitori di tutte le situazione. E
dicono, anzi, affermano tutto con arroganza. E guardate che di arroganza me ne
intendo, visto che molti di coloro per cui indirettamente lavoro, si presentano
come Dio in terra.
Insomma, come capite io non sono alla vostra
altezza per riflessioni filosofiche. Io guardo al sodo. E, devo ammettere,
guardo a me. Sono un egoista, un orso come dice Chiara. Quello che mi domando
è, visto che ne faccio pubblica ammenda, sono almeno parzialmente perdonato?
Scorrendo rapidamente i vostri
interessantissimi discorsi, ho notato che le nuove amiche tedesche parlano di
separazione delle società. Ne parlò, anzi, ne scrisse, il botanico francese
Auguste di Saint-Hilaire nel suo “Viaggio al Rio Grande do Sul”, Stato che
visitò nel 1822, lasciandoci quasi le penne avendo mangiato un miele che
evidentemente non era commestibile. Ebbene, studiando la società degli indios
locali (non mi domandate quali, non ho tempo di prendere il libro e cercare) e
la società che si stava insediando in questa terra di confine luso-spagnola,
affermò che le due etnie non dovevano affatto mischiarsi.
Il motivo era semplice: gli indigeni vivevano
per il presente, gli invasori (possiamo tranquillamente chiamarli così) per il
futuro. Per cui, se un indio andava a caccia e incontrava due cinghiali, ne
ammazzava solo uno, perché era quello che serviva per l’immediato. La fame del
giorno successivo si sarebbe placata andando di nuovo a caccia di quel
cinghiale sopravvissuto, sempre nella speranza di trovarlo.
La nostra società, no. Noi li avremmo uccisi
entrambi, uno per il presente, l’altro per il futuro. Saint-Hilaire affermava
che l’unione dei due gruppi si sarebbe rivelata una merda, scusate il
francesismo. Infatti non sarebbe stato possibile inculcare nelle teste degli
europei il bisogno di vivere solo per il presente oppure convincere gli
indigeni che esiste un tempo chiamato futuro. Infatti cacca è stata (da notare
come ho cambiato il sostantivo, rendendo accettabile lo stesso prodotto; la
forza delle parole!), soprattutto per i poveri abitanti locali.
Riallacciandomi al discorso, chiudo con una
domanda ai filosofi del gruppo, ripresa da De Crescenzo a sua volta ripresa da
non so chi. Il passato non esiste, perché non c’è più; il futuro non esiste
(avevano ragione gli indios?) perché deve ancora arrivare. Il presente, come
momento divisore di due tempi che non esistono, come fa ad esistere?
Chiara 39
Venendo da Ugo il discorso sul presente, che
secondo De Crescenzo non esiste, è intrigante. Ti ringrazio per avermi dato
occasione di ricordarmi che cosa non mi è mai interessato della filosofia, cioè
i sofismi, quelli che anche una volta risolti, nella pratica non ti cambiano
niente. Naturalmente è una cosa giusta ed efficace considerare la filosofia da
vari punti di osservazione.
Ma è un mare senza vento, completa bonaccia,
che improvvisamente diventa in tempesta.
No, non lo so, la filosofia mi affascina e mi
spaventa, sarebbe come dire che noi potessimo condurre la nostra vita sulla
base del ragionamento, eppur tenendo conto del cuore, sarebbe bello ma non mi
pare possibile.
Albertina 40
La vita è una disciplina e il cuore decide
quanto il cervello, se possibile discutendo su ogni scelta, ma senza
perdersi in inutili sofismi; ti piace
di più così?
Andando per esclusione, perché mi dovrei
interessare alla filosofia? Che cosa mi importa di capire o di sapere?
Solo la parte pratica, comprendere prima di
tutto cosa voglio, come sono fatto io e la gente e poi, non necessariamente in
questo ordine: com'è il mondo attorno.
E ce n'è già abbastanza per potersi perdere.
Luciano De Crescenzo mi garba assai, anche
come persona, e poi è stato lui che mi ha portato, a pezzi e bocconi, sulla
strada della filosofia, mi sono persa quasi subito, ma ogni tanto mi ci
ritrovo.
Luiz 41
Qui sta piovendo
ininterrottamente da giorni. Lo stato del Rio Grande do Sul è allagato e
scivola neanche tanto lentamente verso il mare. Dicono che è colpa del fenomeno
atmosferico del Ninõ o forse della Ninã, non mi ricordo, ma una è conseguenza
dell'altro, il quale è provocato da un ciclico ma irregolare e discontinuo
surriscaldamento dell'Oceano Pacifico.
Essere metereopatico è
una delle caratteristiche brasiliane più comuni, vedi che chi mette la musica
alta non lo fa mai quando è nuvoloso o piove, appena spunta il sole ecco che
siamo automaticamente condannati ad ascoltare le peggiori versioni di samba e pagode,
chi alza assai il volume raramente ascolta bella musica, fose cercano di
compensare con il cursore alla bassezza delle canzoni.
Gundel 42
A Berlino sboccia la
primavera, forse perché siamo aldisopra dell'equatore. Il tempo atmosferico ha
a che fare con quello dell'orologio e del calendario, non a caso si chiamano
con lo stesso nome in italiano, spesso nelle altre lingue invece sono parole
diverse, come in tedesco e in inglese.
Il presente è detto
indicativo proprio perché - al momento giusto -
separa le acque per noi e ci indica da una parte un passato e dall’altra
un futuro.
Ci dice che il passato
- per quanto romantico - non è più; che il futuro - anche se radioso -non è
ancora.
Invece il passato,
anche se non sempre imperfetto, che sia prossimo o anche remoto, non ha più
energia, ma sulle sue macerie, magari ancora fumanti, saltella proprio il
presente, a indicarci la strada da scegliere.
Il futuro, non importa
se sarà semplice o anteriore, certo avverrà o sarà avvenuto, ma purtroppo c’è
ancora da aspettare.
Anche se a volte ci
viene il dubbio, siamo piantati qua in mezzo e pure se condizionali e
congiuntivi vari ci punzecchiano con ipotesi non sempre realizzabili, pare
proprio che esistiamo, effettivamente, in qualche misteriosa maniera.
Dimentichiamoci
quindi, almeno per un po’, di essere chi siamo, perché il presente non aspetta,
è proprio oggi, ora, in questo momento. Se ci facciamo prendere dall’ansia, il
tempo perde il suo valore, anzi sciupa anche tutto il resto.
CONTRIBUTI
LETTERARI
Mi è venuto
in mente di fare un libro con questi contributi a loro modo letterari, allora
ho invitato i partecipanti a scrivere qualcosa di artistico, si fa per dire, a
partire dagli argomenti trattati. Se non hanno niente allora qualcosa di amici
e conoscenti, meglio se inedito. Mi hanno già mandato diverse cose, sto
selezionando le cose secondo me migliori. Man mano le metterò giù.
Luiz (19 pagine)
FUORI
DALL'AMBULATORIO
Lavoro
per diverse ditte di Porto Alegre, Rio Grande do Sul, Brasile, dove cerco di
armonizzare il tempo e lo spazio, i caratteri delle persone, per migliorare poi
di conseguenza l’ambiente e finalmente il relativo lucro di queste imprese… che
poi è quello che conta, almeno per loro.
Ho
un paziente-impaziente e datore di lavoro, tra gli altri, che sa benissimo cosa
fare, il che è cosa rara, ma che si guarda bene dal farlo, cosa assai comune.
Paulo
Sergio è anche un caso antropologico degno di menzione, è un grande osservatore
e ha un cervello notevole, anche se lo usa a senso unico, cioè solo per far
soldi.
È
un uomo di età indefinibile, la sua faccia a volte sembra vecchia ed altre più
giovane, ma la sua carta d’identità dice che ha quarant’anni.
È
una specie di imprenditore genialoide, che dà ogni tanto segni di squilibrio,
come qualche improvvisa risata satanica o attacchi di ira ingiustificata e
distruttiva, a volte si sfoga sui mobili.
Va
bene, sono suoi, ma per pagarli poi si deve stressare anche di più.
È
un tecnico, nel suo campo, un manager creativo che ha inventato e sviluppato
macchine con sistemi di conteggio dei passeggeri per i minibus di Porto Alegre,
che qua si chiamano Lotação e rappresentano un mezzo di trasporto migliore
dell’autobus e perciò fonte di grandi guadagni per le relative imprese.
Un
nuovo sistema di porta a cellule che non permette all’unico uomo di equipaggio,
allo stesso tempo autista e controllore, di rubare sul denaro incassato.
Uno
schema complesso ma efficace, che oltre a garantire a Paulo Sergio un futuro di
successo finanziario, gli ha annullato ogni ombra restante di tempo libero e in
famiglia lo conoscono per sentito dire, attraverso ricordi lontani, fotografie,
cassette video e lo incontrano, di persona, solo nei rarissimi fine-settimana
in cui lui riesce a liberarsi, cioè nei rari natali, pasque e carnevali.
Per
lui le vacanze sono i viaggi di lavoro, che fa per ricerca o per allargare il
suo raggio d’azione.
Durante
il nostro quasi un anno e mezzo insieme, visto che è un grafomane incallito, ha
scritto una specie di opera buffa, addirittura corredata da disegnini astratti
e non, che non mi avrebbe mai lasciato leggere, se io non fossi andato a
frugarci dentro, in sua assenza, visto che non sapevo più come aiutarlo.
Mi
è servito abbastanza, leggerla, di nascosto, la maggior parte di quel contenuto
non sarebbe stato accessibile, altrimenti.
Tra
le altre cose, parla anche male di me.
La
sua è una malattia fin troppo comune, tanto che in genere si crede che i malati
siano gli altri, quelli che non ce l’hanno.
Non
che ora io sappia cosa fare, con lui e per lui, il suo è un carattere forte,
non accetta che nessuno gli dica cosa fare, ma non posso più stare a guardare e
ci sto riflettendo su.
Il
suo è un caso complesso, perché Paulo Sergio conosce sempre i due lati della
medaglia, ma sceglie invariabilmente quello che gli è più comodo, che poi,
spesso, non è affatto il migliore.
Riporto
qui la stesura completa, ma senza i disegnini, perché spesso sono osceni e mi
ritraggono in varii aspetti, dei quali, personalmente, non sono orgoglioso.
Ore
23 e 15.
Seduto
in ufficio, non riesco fare quello che dovrei, cioè terminare una specie di
relazione per un discorso che farò domani in una riunione generale.
Per
distrarmi un poco, inizio a fare disegnetti astratti e idioti, un po’ schifosi,
che però non m’impegnano per niente la mente, anzi mi fanno continuare a
pensare, allora inizio a scrivere.
Tra
le altre malattie mentali, si può dire che ci sia in me una certa grafomania,
poi ho anche la mania di leggere tutto, ma non so come si chiama.
Non
è che non mi piaccia la realtà di tutti i giorni, ma ho bisogno di qualcosa che
mi faccia evadere, anche per pochi minuti alla volta, da questo tipo di
situazione a tema fisso, allora leggo un po’ di tutto.
Diciamo
che quando non leggo, o scribacchio o disegno, tutto quello che faccio è parte
di riflessi condizionati e spinti da uno stato di stress altalenante, anche se,
ultimamente, proprio leggendo, ho imparato che lo stress è necessario, ma è il
distress invece, che non lo è.
Normalmente
con il nome di stress si intende il distress, nella lingua di tutti i giorni,
erroneamente si chiama stress quello stato patologico di incapacità di reagire
positivamente agli ostacoli e alle traversie del nostro quotidiano, che invece,
per definizione, è il distress.
Lo
stress non è altro che una ‘sindrome da adattamento’ , purtroppo o per fortuna,
veramente necessaria, nella vita di tutti i giorni, per mantenere lo stato di
tensione indispensabile per concentrarsi nel superamento degli ostacoli
quotidiani.
Il
distress, invece, è l’eccesso di stress, se una persona è sempre tesa, non
riesce a rilassarsi in nessuna delle fasi di routine giornaliera, o comunque in
maniera insufficiente per ricaricare le proprie pile stanche, entra in uno
stato di vera e propria malattia, allora sì, veramente negativo, questo è il distress.
Ore
10 e 16 minuti.
Di
nuovo in ufficio, guardo dalla finestra, in un buco tra una riunione e l’altra
e da qualche minuto, incredibilmente, nessuno entra e nessuno mi telefona, ne
approfitto prima che si accorgano che non ho niente da fare.
La
mia mente è sempre da un’altra parte, difficilmente accompagna quello che sto
facendo, se non in parte, una frazione scomposta di tante, che allo stesso
tempo tentano, senza riuscirci, di fare il punto di una situazione in costante
fuga dal presente.
La
realtà è alienante, perché si tratta sempre di lavoro e la quantità di lavoro
non è mai quella ideale… o è troppo o troppo poco, le dosi non sono mai
controllate e distribuite, chi ne ha troppo e chi ne ha troppo poco, un giorno
si lavora eccessivamente, un altro i clienti non arrivano.
Intendiamoci, il mio lavoro mi piace, ma non sempre si può
fare come voglio io, perché gli altri non me lo permettono, anche se sono il
capo e padrone della mia impresa e qui comando io.
La pressione che sopporto tutti i
giorni, pur essendo proprietario, non è poca, riunioni su riunioni e clienti
insoddisfatti, dipendenti incompetenti, poco tempo o niente e i soldi
potrebbero essere di più, visto e considerato che non ho più una vita personale
da almeno dieci anni.
Se non fosse tragico sarebbe comico, o
forse è già tutte e due le cose, come dicono alcuni teorici saputelli che
conosco, come il nostro psichiatra Zè Mario, al quale non farei mai leggere
queste pagine, nemmeno se mi supplicasse in ginocchio.
Quasi mai mi trovo in condizioni ideali
per godere del piacere di quello che sto facendo, prima di tutto perché non
posso mai terminare qualcosa che vengo puntualmente interrotto da qualcuno, o
da una telefonata, o perché mi viene in mente cosa avrei dovuto fare e ora non
posso più… e invece, testa di cazzo, mi sono dimenticato.
Il mio cervello è sempre immobilizzato e
tremante sotto una cascata di cose da fare e spesso non so da che parte
cominciare, inizio allora a caso, per non rimanere lì un sacco di tempo a
cercare di decidermi: di tempo non ne ho e non ne posso perdere.
Però mi pare di essere in ritardo su
tutto, alcuni dicono che è mancanza di ‘opportuna sequenza e progettazione del
futuro immediato’, ma sono solo frasi ad effetto, perché per me non esistono
più il passato ed il futuro… e intanto, forse di conseguenza, anche il presente
non lo controllo più.
Mia moglie non la vedo quasi mai e
questo potrebbe essere anche un lato positivo, perché è capace solo di
lamentarsi, i miei figli mi salutano distrattamente come farebbero con il
postino, ma forse il postino lo vedono più spesso, o magari l’internet ha reso
la vita impossibile anche a lui.
Ho iniziato a
leggere un libro che lei, Ana Clara, mi ha fatto trovare accanto alla tazza del
caffè, e mi ha subito incuriosito, lei lo sapeva, perché qua in Brasile
funzionano molto questi testi di training autogeno.
Anche se non ci
credo molto, a volte dicono cose utili, ma il fatto è che io non ci capisco
quasi niente, o meglio: capisco cosa dicono, nel senso stretto del significato,
ma non capisco come si fa a comportarsi come dicono loro, l’uomo non è una
macchina… e se lo fosse magari sarebbe meglio, allora io avrei bisogno solo di
una revisione totale.
Ho viaggiato
assai, sempre per lavoro, e ho visto che in Europa, per esempio, questi libri
non vendono per niente, forse la gente di là sa vivere in maniera migliore o
forse, invece, siamo noi che siamo all’avanguardia perché, almeno, ci rendiamo
conto che il problema esiste.
L’uomo, se non sa
disciplinarsi, è alla mercè delle onde in un mare in tempesta, va alla deriva
senza minimamente rendersene conto.
Mi hanno detto
che questo tipo di letteratura proviene dalla cultura americana e noi
brasiliani siamo direttamente legati a loro, almeno dal punto di vista di
mercato, quello che loro vendono là, lo vendono anche anche qui e altrove, se
ci riescono, ma in Europa ci mordono meno.
Ore 12 e 4 minuti.
Mangiando un panino
con una durissima suola di scarpa, maionese acida, pomodoro transgenico e
insalata di plastica, che la segretaria Aline è andata a prendermi giù al bar,
(e poi mi ha ingannato, fors’anche in buonafede, dicendomi che c’era della
carne, dentro,) scrivo di nuovo:
Il libro che sto
leggendo è intitolato: “Dallo stress al successo personale, in 34 lezioni
pratiche, spiegate con semplicità e grafici dal Phd in scienze sociali, esperto
di Neuro-Linguistica, James Lee Wanamaker”, il cui seguito è, l’ho già visto in
Internet: “Dal successo personale allo stato privilegiato di saggezza
filosofica, in 55 lezioni pratiche con James Lee Wanamaker”.
Questi libri sono dei
mattoni di circa settecento pagine, scritte fitte-fitte, fatte di regole,
grafici, postille, consigli, suggerimenti, postulati su come diventare
coscienti di se stessi e approfittarne poi nel mondo del lavoro, del successo
sociale e magari, poi per piantare tutto e fuggire.
Insomma, dicono che
funzionino, anche se nessuno capisce come… ecco, io ho qualche fottuto dubbio,
ma sono curioso. Però è meglio tornare indietro, all’inizio del libro, ecco
come Wanamaker abborda il tema:
Gli esseri umani compiono le loro azioni in uno stato di
veglia più o meno completo, nel quale spesso il loro cervello è in preda ad una
agitazione che non solo rappresenta un dispendio di energia enorme e per niente
necessario, ma in questo stato di veglia esagerato è più difficile controllare
il proprio cervello che saltella di qua e di là come una scimmia ubriaca.
La scimmia ubriaca è una visione - purtroppo - assai
ottimistica del mio cervello, perché l’ebbrezza non c’è, è tutto abbastanza
cosciente, eppure incontrollabile.
Una serie di meccanismi perennemente innescati e
legati l’uno all’altro, che portano, insieme, e a rotazione, ad un senso di
insoddisfazione generale.
Ecco: l’unica cosa di cui sono cosciente è proprio
questa: sono prigioniero di un meccanismo, ma tutto questo è molto poco
meccanico, forse è più elettrico, o magari elettronico... chissà, questo
Wanamaker potrebbe anche avere ragione.
La dispersione è incalcolabile, la padronanza sui
nostri pensieri e sulle conseguenti azioni è parziale, discontinua ed in
progressivo peggioramento (ogni giorno finché dormiamo e la nostra mente
riposa, ma anche in generale perché la nostra insoddisfazione aumenta) man-mano
che diventiamo sempre più stanchi ed insoddisfatti, realizzando, chissà come,
che la vita non ci riesce come vorremmo.
Ma anche di questo non siamo certi, come potremmo?
Non abbiamo punti fermi, siamo in balia delle onde in una tempesta, che anche
se termina, poi, non lo fa per causa della nostra influenza ed in seguito
ricomincerà senza che noi possiamo interferire più di tanto.
Sì, posso anche essere d’accordo, anzi diciamo che
lo sono senz’altro, in fondo è esattamente ciò che provo ogni giorno, ma come
risolvere questo stato di cose?
E poi mi pare strano che nessuno abbia detto a Wanamaker
che il mondo è un mercato, e che per mantenersi al passo bisogna essere rapidi
e attualizzati, senza alcuna pietà - giammai - operare chirurgicamente oppure,
come fanno i suoi compaesani, buttando bombe in quantità, se e quando valutano
che sia cosa buona e giusta, parola del Signore?
Ore 15 e 22.
Sto trangugiando distrattamente una merenda vegetariana,
magari sana, ma completamente priva di sapore; bevo un caffè orribile che devo
chiedere dove è andata a trovarlo, Aline, magari per fargli causa, alla mia
segretaria che me lo ha portato e a loro, allo schifoso bar o sudicia tavola
calda che l’hanno fatto e non contenti della loro sporca e rischiosa impresa,
hanno deciso pure di venderlo, implicando addirittura un pagamento in cambio.
Lo psichiatra della ditta è qui con me, Zè Mario,
sta riempiendo di ganci illeggibili una montagna di cartacce fruscianti, ogni
tanto mi studia con occhio clinico, dice delle frasi di circostanza.
Devo dire che mi fa più compagnia il mio cane, un
pastore belga dai denti bianchissimi: Arcore.
Zè Mario, al mio fianco, ha detto che sta scrivendo
una relazione sui miei dipendenti e su di me. Gli ho domandato chi l’avrebbe dovuta leggere, poi. Ha
sorriso viscidamente e ha cambiato argomento, dice spesso che sto peggiorando,
lo dice con parole gentili, sorridendo, ma io intendo perfettamente cosa dice
tra le righe, ma non gli dò soddisfazione, e lui continua col suo bla, bla,
bla, dicendo anche, che di conseguenza, o forse no, anche i miei impiegati sono
più stressati, e giù ancora con il suo serafico e apparentemente innocuo bla,
bla e bla.
Io cerco di fargli capire che me ne frego di lui, che
continuo a mantenerlo qui, nonostante il prezzo esagerato che mi costa, solo
perché quando succede un problema con i miei dipendenti, mando lui a
risolverlo, in questo è veramente bravo, e così io non ho più bisogno di
incazzarmi tutti i giorni con loro, che sono tanti, ma solo con lui.
Certo che ho anche il dubbio che abbia proprio ragione,
per quanto mi riguarda, ma non ho certo bisogno di lui, io, sono il capo e sono
libero di essere stressato quanto mi pare e di mandare affanculo tutti, e se
non gli piace che se ne vadano.
Intanto ricopio le parti del libro di training-autogeno
che m’interessano, così me le ricordo meglio, mi piacciono, hanno il loro
fascino, anche se forse sono delle baggianate.
Abbiamo bisogno di una disciplina, ecco perché
esistono le religioni, perché l'uomo si sente incompleto, l'idea della morte ci
ossessiona, più o meno inconsciamente, ma diventando sempre più coscienti dei
nostri limiti dobbiamo prima imparare a fare tutte le cose che possiamo fare e
che invece non facciamo, semplicemente perché non esercitiamo un controllo su
noi stessi e su ciò che ci circonda.
Possiamo migliorare costantemente, se solo ne abbiamo coscienza e
voglia. La nostra coscienza determinerà anche la volontà, se crediamo in ciò
che facciamo, quindi il sistema che adotteremo dovrà soddisfarci -prima di
tutto- da un punto di vista logico.
Secondo me il difficile è, piuttosto, capire come una
persona che è arrivata a frazionare e a frammentare così la propria vita, nella
sua routine, a sbriciolarla e poi a liquefarla, a portarla allo stato gassoso,
possa redimersi e correggersi, tanto bene, da riuscire di nuovo a solidificarla
e a cucire, o a saldare, o a congelare, migliaia di pezzi insieme…
Il mio corpo non sa vivere in un altra maniera, prima di
entrare in questo stato di cose, io mi sono preparato per anni, magari non lo
sapevo, ma la mia tendenza è sempre stata questa: cioè gli studi di quei tempi
erano leggermente differenti dal mio lavoro forsennato di ora, ma le
prospettive, non sono cambiate mai.
Il fatto è che non è difficile capire cosa fare, il
difficile è capire come riuscirci, allora ci sono gli psicologi, gli
psichiatri, i preti, i ragionieri, i medici, i guru, i consigliori eccetera.
Ecco che Wanamaker è un misto di tutto questo: è un
essere squamoso ed eternamente sorridente che, per arrivare al successo, ha
osservato la gente come me, chi lo sa, magari prima anche lui era così… poi ha
globalizzato le notizie, cioè: ha pigiato tutto nel frullatore e ha ottenuto le
34 regole, le ha messe in una forma grammaticale accettabile e le ha scritte in
un fottuto libro.
Non mi pare troppo difficile, la gente è così
diffidente, con le altre persone, che si fida di qualsiasi cretinata che gli
dice, dalle pagine di un libro, uno con una lontana parvenza di autorità nel
campo dei cervelli fusi.
È facile, dire alla gente cosa deve fare, perché nessuno
lo sa veramente, cosa deve fare.
Al massimo - più o meno male - fingono.
Ore 18 e 53.
I miei dipendenti cominciano ad andarsene, sto qui con
gli occhi sbarrati, ma ho ancora troppe cose da fare per andarmene a casa, mi
distraggo un po’, pensando e scrivendo la mia tesi, non so perché lo faccio, ma
il fatto è che non riesco più a dialogare con nessuno e questa è una specie di
conversazione ideale con me stesso, Wanamaker e magari anche con quel coglione
di Zè Mario a fare da moderatore.
Ecco che cerco di riprendere da dove mi ero fermato.
Ma, se quello che sono io, è il risultato di tutto quello
che ho fatto prima di arrivare fino a questo punto, (che non so se sia grave,
ma mi pare di vedere intorno, tra le altre persone - più o meno - la stessa
cosa…) beh, come posso cancellarlo e imparare a vivere in un altra maniera, se
ho sempre vissuto in questa dannata maniera qui?
E soprattutto, poi, come posso fidarmi di qualcuno che
m’insegni come e cosa devo fare, se tutto quello che ho imparato nella mia
vita, fino a adesso, è non fidarsi mai, in nessun caso, di nessuno?
Io stesso, in fondo, sono la dimostrazione di questo
progressivo stato anguilliforme e viscido dell’essere umano, che non è più cosa
sente e vuole, ma piuttosto quello che deve, per forza, riuscire a vendere e
alla svelta.
Intanto James Lee Wanamaker se ne frega, e continua
imperterrito con la sua spiegazione che ora diventa puramente tecnica:
Il corpo umano è come un circuito elettrico:
genera elettricità.
Il circuito ideale è quello di minor
resistenza (impedenza, che si calcola in ohm), perché fa maggior e miglior uso
dell'energia elettrica a disposizione.
Il nostro cervello approfitta meglio ed in
maggior quantità dell'energia generata dal nostro corpo quando è meno attivo, è
nelle frequenze piu' basse che esso registra un maggior numero d'informazioni,
tra quelle che riceve, ed in più lo fa con maggior precisione.
Tutto ciò è dimostrabile colla nostra
esperienza personale: abbiamo visto che al mondo coloro che riescono a
dominarsi, i tipi calmi, sono quelli che vivono meglio, che sono più amati, che
riescono ad essere capiti dagli altri e in ciò che fanno senza grandi
difficoltà.
Secondo me, i tipi calmi sono impressionanti, sembra che
gli abbiano fatto l’elettrochoc, mi mettono quasi paura, con il loro sguardo
lontano, come possono essere così freddi, senza reazioni e senza tic, come
possono rimanere così distanti dal mondo che si strizza e soffre, si contorce e
scoppia di violenza, fisica e mentale, tutto intorno a loro?
L’altro giorno mi sono trovato con uno specchio di
fronte, durante una riunione, il semplice fatto di vedermi là riflesso, (pieno
di scatti e movimenti incontrollabili della faccia e anche di alcune parti del
corpo,) mi ha fatto sentire male, ho dovuto cambiare posto, mi sono messo di
lato e mi sono sentito meglio.
Ho notato però, che quello che si è seduto al mio posto,
dopo, è rimasto tranquillo a guardarsi allo specchio, mentre la riunione
continuava… e questo mi ha fatto di nuovo innervosire… e anche più di prima.
Dall'altro lato coloro che invece sono
nervosi ed agitati non hanno nessun controllo sulle loro azioni, un momento
sono felici, due minuti dopo cadono nella depressione più completa.
Questa super-attività non fa bene, la
mente lavora in Beta su un'infinità di cose senza soffermarsi su nessuna, o
poco per ciascuna, non sviluppando -insomma- nessun pensiero valido o
definitivo circa niente di ciò che 'e il nostro ambiente, la nostra capacità di
convivere con gli altri e con le condizioni ambientali.
Potremmo dire infine che la confusione
genera rabbia e risultati discontinui con tendenza a peggiorare, senza dubbio
senza possedere mai la sensazione completa che stiamo facendo qualcosa di buono
per noi stessi, ma che stiamo perlopiù subendo ciò che ci capita senza poter
scegliere.
Ecco i valori scientificamente riconosciuti
dei vari stati mentali che sono calcolati attraverso l'encefalogramma in CPS
(onde cerebrali in cicli per secondo):
BETA-14 o più CPS-> completamente svegli
ALPHA - tra 14 e 7
CPS -> svegli ma quasi addormentati, o
dormienti sul punti di svegliarsi
THETA - tra 7
e 4 CPS -> livello del sonno
DELTA - 4 o meno CPS -> sonno profondo
Si può quindi dormire in Alpha, Theta e
Delta, ma in Alpha e in Theta si può arrivare ad essere capaci di usare le
nostre capacità meglio che in Beta.
Perché i nostri circuiti sono più ricettivi,
possono concentrarsi meglio che in Beta che rappresenta anche il livello della
dispersione, dell'attenzione estremamente volubile e quindi della massima
distrazione.
Credo di essere una delle poche persone che vivono
perennemente in Beta, forse dormo anche in Beta, se il Beta esiste io sono il
manifesto del Beta nel mondo…
Però, per quanto mi paia interessante, di tutta questa
spiegazione, non ho elementi sufficienti per poterne confermare la validità o
veridicità, certo che contrasta con la scienza propriamente detta, che, a
quanto mi risulta, non riconosce l’esistenza di questi quattro stati mentali
distribuiti tra sonno e veglia.
Il che potrebbe anche non essere un problema, ma ci
vogliono dei fatti, la necessaria pratica come logico seguito della teoria.
Ore 22e32.
Sono ancora qui, la stanchezza delle palpebre si cura con
il collirio, ma dopo un po’ anche quello pare fatto di sabbia… e progressivamente
sempre più ghiaiosa.
La giornata sarebbe stata assai produttiva… ma solo se la
nostra fosse stata una fabbrica di bestemmie: un bel panne quasi contemporaneo
di diverse macchine, le relative proteste dei proprietari, ci ha fatto intuire,
ai vari tecnici e a me, che se non troviamo una soluzione a quel problemino
elettrostatico nei giorni di pioggia, siamo fottuti e ci troveremo in futuro
con molto tempo a disposizione, debiti da pagare e qualche ingiunzione del
tribunale.
Cerco di non pensarci e riprendo la mia opera, come una
liberazione virtuale dai problemi, quelli veri, attraverso la falsità
autorevole di James Lee:
PASSIAMO ALLA PRATICA
MEDITAZIONE
La mattina, ti alzi e vai in bagno, fai
quello che devi fare, poi regoli la sveglia per suonare dopo quindici minuti,
per non rischiare di svegliarti ore dopo senza ricordare niente della tua
esperienza.
Quindi ti stendi sul letto di nuovo e
-guardando verso l'alto con un angolo di circa 20 gradi- cominci a contare
lentamente alla rovescia da cento a uno.
Per motivi ancora non spiegati dalla scienza
basta questa posizione degli occhi per generare onde Alpha.
Per uscire da questo stato di meditazione è
consigliabile usare sempre la stessa frase (solo per evitare perdite di tempo):
ESCO LENTAMENTE MENTRE CONTO DA UNO A CINQUE,
MI SENTO BEN SVEGLIO (E MEGLIO DI PRIMA).
UNO, DUE, TRE , QUATTRO, CINQUE, OCCHI
APERTI, BEN SVEGLIO, MI SENTO MEGLIO DI PRIMA.
Continuare con lo stesso conteggio per dieci
giorni.
Poi contando da 50 a 1 per altri 10 giorni---
poi da 25 a 1 per altri 10 giorni------------
poi da 10 a 1 per altri 10 giorni------------
poi da 5 a 1 per altri 10 giorni-------------
Giorno seguente ore 8
Oggi inizierò a fare come dice il nostro sorridente
J.L.Wanamaker che dalla controcopertina del libro mostra tutta la fiducia che
ha nella vita e una barba perfettamente in ordine.
RILASSAMENTO DEL CORPO
Siediti sul letto coi piedi in terra, lascia
riposare le mani sul petto. Mantieni la testa equilibrata senza farla
pendere. Concentrati su una singola parte del corpo: il piede sinistro,
rilassalo con la forza della coscienza, con la tua volontà; poi la gamba
sinistra e così via fino ad arrivare alla gola, al viso, agli occhi e
finalmente al cuoio capelluto.
Ecco la differenza tra il prima ed il
dopo, questo esercizio ti mostrerà l'importanza di quello che hai appena fatto.
Ora scegli un punto a circa 45 gradi
sopra il livello degli occhi e fissalo finché le palpebre cominceranno a pesare
e permetti allora agli occhi di chiudersi. Comincia allora a contare alla
rovescia da cinquanta ad uno. Questo per dieci giorni, quindi:
da 50 ad 1 per 10 giorni
da 10 ad 1 per 10 giorni
da 5
ad 1 per 10 giorni
Le esperienze di James Lee sono un po’ lunghe, ci
vuole un po’ di tempo, per vederne i risultati messi in pratica, ma ho fede, ce
la metto tutta.
Rettifico: non so se ho fede o la mia è piuttosto
curiosità, ma non posso scegliere, m’impegno al massimo, certo, a volte mi
dimentico, ma James Lee pare un tipo comprensivo e oggi ho scoperto che ha la
mia stessa età.
Domanda: possibile che lui sia così intelligente e
saggio, da avere speso, così meglio di me, il mio identico numero di anni, e
che io sia progressivamente diventato sempre più cretino e lui mi stia
insegnando, sorridendo pazientemente, a esserlo un poco meno?
Risposta: non è del tutto impossibile, cerco di
credere che sia improbabile, ma la mia mente, sempre secondo lui, non ha
nessuna fermezza, non ha punti di riferimento, balla tutto il tempo sul ritmo
di una musica che non è più l’armonia della natura, del mio corpo.
Sto iniziando a parlare con Lee, ad arrufianarmi, in
un certo senso.
Lo psicologo della ditta, Zè Mario, direbbe che
nella vita tutto ha un prezzo ed io sto cercando, invano, di ottenere uno
sconto.
Zè Mario è esageratamente calmo e sta sempre a
studiare la reazione degli altri, molto poco le sue.
Lo ho visto fare in pubblico cose per niente
esemplari, come mettersi le dita nel naso e liberarsi con naturalezza del
prodotto di quelle ispezioni, sotto le sedie o i tavoli più vicini.
Secondo Wanamaker, però, le dita si possono usare
meglio, eccone una dimostrazione:
TECNICA
DELLE TRE DITA
Unendo il pollice, l'indice e l'anulare
di una delle tue mani, ottieni un tipo di tecnica di introduzione ad una concentrazione
più rapida, quando non hai tempo per una meditazione completa.
È incredibile
quanto la disciplina può aiutare un povero essere umano perduto nella burrasca
del consumismo selvaggio, ed infatti io non ci credo.
Invece, secondo
James Lee basta seguire le sue magiche regole e il nostro male svanisce.
Tanto per
intendersi, il male di noi manager d’assalto, è che crediamo di essere
onnipotenti, ma dentro di noi lo sappiamo bene che stiamo fingendo, è solo
marketing per vendere meglio e di più il nostro prodotto, che poi è proprio la
nostra apparenza.
In tanti dicono
che il mondo moderno è basato su facciate senza contenuto, che l’apparenza è
diventata più importante di qualsiasi altra cosa.
J.L.W è uno di
questi.
Ore 12 e 34
Oggi ho fatto una
pausa per il pranzo imbottita di esercizi e ho mangiato rapidamente un’insalata
mista, solo vegetale, per vegetare meglio, non per vivere, che quello è
un’altra cosa, ma il mio dietologo… o meglio, quello di mia moglie, dice che la
carne rossa fa male, forse ha ragione, lo ammetto, ma se la mangio mi sento più
vivo, sarà per via del sangue.
Ho una fame con
le orecchie, ma mi sento moralmente bene, perché sto seguendo le sue
istruzioni, che coincidono perfettamente con quelle di Wanamaker e di Zè Mario.
Non so se lo faccio
per dimostrare che non sono efficaci, ma se lo fossero sarebbe meglio per me.
E poi mi sembrano
tutti dei marziani, questi qua, o sennò non lo so da dove sono venuti fuori.
Un’ipotesi probabile:
di nascosto fumano un pacchetto di sigarette al giorno, mangiano chili di
bistecche con sopra barattoli di maionese e poi si guadagnano la vita dicendo
di fare il contrario.
Non è che io stia
credendo ciecamente a J.L.W, ci mancherebbe altro, ma ultimamente ho avuto
spesso intuizioni illuminate sul fatto che il denaro si rincorre eternamente la
coda, non l’acchiappa mai.
Sto guadagnando venti
volte di più di quello che dieci anni fa mi pareva molto, ma non sono per
niente soddisfatto e ogni aumento mi pare scontato, perché vedo davanti a me
un’infinità di gente che ha più successo di me.
Rispondendo a J.LW. io
dico che non c’è più tempo per i contenuti, si deve pensare all’essenziale e,
per vendere, quello che conta è l’apparenza, già che nessuno scende più sotto…
magari per la stessa mancanza di tempo.
Certo che per i
contatori elettronici di persone sui minibus, il discorso della validità del
contenuto è fondato, se non contano le persone o vanno in tilt come ieri e in
tutti i giorni di maledetta pioggia, le imprese di trasporto se ne fottono se
hanno una cassetta-involucro poco ingombrante, carina e colorata, ma, parlando
in generale, i prodotti virtuali sono quelli che funzionano di più, nel nostro
inizio di millennio, non c’è niente da fare.
E poi James Lee
Wanamaker prima di tutto si fa tagliare la barba alla perfezione e poi si fa
fotografare, dopo mi viene a dire che il contenuto è più importante
dell’apparenza, che l’ipocrisia è dannosa soprattutto per gli ipocriti…
Pazienza,
Wanamaker se infischia di quello che dico io insieme a milioni di altre persone,
e va avanti tranquillamente con le sue dimostrazioni:
Esempio di formula:
QUANDO IO UNISCO LE MIA DITA COSÌ RAGGIUNGO SUBITO
QUESTO LIVELLO MENTALE PER RIUSCIRE IN QUALSIASI COSA
Immagina quella che potrebbe essere la tua tela mentale,
grande o piccola, a due-tre metri di distanza dai tuoi occhi, meglio grande per
costruire scene ricche di personaggi, scene reali, riproduzioni del teatro
della vita.
Non deve coprire tutto lo spazio ideale, dovresti
lasciare una parte da ogni lato che simbolizzi tutto cio' che non stai vivendo
nella tela, per esempio il passato, che idealmente è dimostrato che l'uomo
colloca alla sua destra, come il futuro a sinistra…
Ore 17e46
Approfitto del fatto che oggi è una giornata di sole. Ho
notato una cosa: quando c’è il sole mi rompono tutti un po’ meno le scatole,
certo le macchine funzionano meglio, l’umore generale in giro è migliore, ma a
me, non so perché, girano i coglioni come sempre.
Prima che si accorgano che sono momentaneamente inattivo,
riprendo la stesura del mio ‘documento segreto’, da dove ero rimasto. Riprendo
Wanamaker e la sua proiezione del pensiero che così diventa solida realtà:
Le prime volte proietterai immagini semplici: una mela,
per esempio. Ripeti con il medesimo modello l'esperienza, rendi sempre più
reale la tua mela: colori, profondità, dettagli che possano rendere più nitida
e concreta l'immagine. Concentrati su quella mela e cerca di allontanare i
pensieri che di volta in volta si intromettono.
Per quanto io cerchi di concentrarmi la mia mente si
ficca in decine di argomenti e contro-argomenti, correnti e contro-correnti,
figure e contro-figure. Tutto, insomma e il suo relativo contrario, senza mezzi
termini. Non li conosco più i mezzi termini, io, conosco bene, ripasso a
ripetizione e mi ossessiono solamente sugli estremi.
Certo, è facile dirlo, ma concentrarsi è proprio quello
che non riesco a fare.
Ma lui non considera nemmeno che un povero disgraziato
non riesca a fare una semplicissima bischerata come questa, sebbene, poche
pagine prima, abbia detto che per noi, manager d’assalto stressatissimi, la
concentrazione sia cosa proibitiva.
Credo che lui supponga che se qualcuno sia arrivato a
leggere fino a questo punto, abbia in precedenza seguito tutte le regole e
relative applicazioni da lui riportate sul libro.
Invece no, ci ho provato, ma non è successo niente, forse
non ho avuto costanza e ora non riesco a concentrarmi, esattamente come prima,
o forse peggio, perché prima non me ne rendevo conto e stavo meglio.
Ore 23e32
Sono appena arrivato a casa, mia moglie dorme e i mei
figli penso che dormano anche loro, sono anni che non vado più a vedere se ci
sono, quando torno a casa.
Allora cerco di fare una meditazione, magari per
addormentarmi meglio.
MEDITAZIONE DINAMICA
Per ottenere un qualsiasi risultato occorre
concentrarsi, non basta desiderare di raggiungere una cosa, ma si deve essere
disposti a fare una serie di passi per rendere attuabile ciò che reputi
importante per te.
Deve essere una cosa possibile e seria, un
salto di qualità per la tua vita, è necessario che tu ti muova compatto verso
il tuo obbiettivo, per questo hai bisogno di un buon sistema per superare gli
ostacoli.
1a regola: desiderare la realizzazione
2a regola: credere che possa succedere,
la mente deve lavorare cosciente di farlo per qualcosa di possibile, per
renderlo probabile
3a regola: sperare attivamente (vedremo
come, operando con la tela mentale)
4a regola: non puoi creare un problema,
(per esempio fare qualcosa contro qualcuno per il tuo tornaconto personale) lavorando
attraverso l'intelligenza superiore questo non funziona.
E questo discorda con la realtà quotidiana del mondo
di oggi, la vita è una guerra che si combatte giorno per giorno, come si può
non voler male a nessuno, in questo mondo aggressivo, che oltretutto è
diventato un dannatissimo mercato globalizzato, quando tutto, là fuori, è
simulazione o guerra vera e propria? La concorrenza vive sul principio di
approfittare rapidamente e senza pietà delle disgrazie altrui, secondo
Wanamaker, io, invece, mi dovrei mettere a fare il filosofo?
Mi massacrerebbero…
Comunque questo non è il tipo di meditazione del
quale ho bisogno per addormentarmi, non riesco a trovare le cose che voglio,
quando ne ho bisogno, nel libro di J.L.W, anche perché, quando ne ho bisogno,
sono nervoso, e mentre sfoglio convulsamente le pagine, il mio pensiero se ne
va altrove.
Questo è un procedimento che funziona in generale in
questa maniera, per me, il segreto, secondo Wanamaker, è prevenire le cose,
prima di provocare lo stato di nervosismo.
Non risolvere tutto all’ultimo momento, programmarsi,
insomma. Agire quando è necessario e lasciare fare quando si può, semplicemente
stare ad osservare. Come se fosse facile saperlo… quando si può e quando non si
può…
SULLA TELA MENTALE
1a tappa: ricreare il fatto che ha sviluppato il
problema, o la situazione che rende necessaria la tua azione
2a tappa: spingere soavemente questa scena fuori dalla
tela dal lato destro (cioè nel passato). Ricreare sulla tela la scena che
avverrà domani. se possibile visualizzare la causa in sviluppo fino al
risultato, abbondare con i particolari
3a tappa: ritirare la scena portando anche questa nel
passato, a destra, sostituendola subito dopo con quella che viene da sinistra,
quindi dal futuro. Costruire questa scena sulla base del risultato sperato,
vivila e assaporala come se fosse vera.
Lo diventerà
Mandare affanculo James Lee Wanamaker sarebbe stata la
mia prima reazione, ma il dubbio che lui abbia ragione, ed io sia un cretino,
mi assale continuamente.
Giorno seguente ore 10e58
Ho parlato con lo psicologo Zè Mario, che lavora per me e
altre ditte e che a proposito di cretini può sempre dire la sua.
Attaccando una caccolona grigio-verdastra a uno
spigolo arrotondato del grande tavolo delle riunioni - che oltretutto è mio -
mi ha detto che la ricetta per stare bene, al mondo, non ce l’ha nessuno… ma il
mio sforzo per capire la verità non può farmi che bene.
Meno male, gli ho detto io, perché mi sentivo come
una merdaccia puzzolente e, come se non bastasse, in costante stato di veglia
dispersiva, detto Beta.
Lui ci ha riflettuto un attimo, si è infilato un
dito in una delle due accoglienti narici, poi, mentre ne perlustrava senza
fretta il contenuto, ha detto che fa parte della cura toccare il fondo del
pozzo.
Dopo, quando glielo ho domandato, ha risposto con
entusiasmo che il libro di Wanamaker è assai valido ed efficace, il che per me
era la peggior cosa che poteva dire, poi mi ha chiesto se io capissi il
significato dell’espressione da lui appena citata: toccare il fondo del
pozzo.
Ho mandato affanculo lui, invece di Wanamaker, era
più a portata di mano, è sul mio libro paga e quell’altro non so nemmeno dove
diavolo si nasconda.
Il giorno seguente, però, in preda ad un raptus incontrollabile,
ho comprato il secondo e ultimo libro di James Lee Wanamaker, quello che eleva
il lettore una spanna sopra i comuni mortali, lo porta ad uno stato di
contemplazione tibetana.
Per giustificare il mio gesto, ho pensato poi, di
convincere me stesso, che così potrò - dal mio esagerato stato di veglia Beta -
passare direttamente alla saggezza, saltando così lo stato di successo
personale e finanziario, che ce l’ho già e penso di sapere, per esperienza
diretta, come sia.
Così guadagno tempo.
Il tempo è denaro, checché ne dica Zè Mario, o almeno è
più facile credere a questa semplice equazione, che a qualsiasi altra regola,
il mondo è troppo dispersivo, bisogna pur credere a qualcosa, e che questo
qualcosa sia solido e tangibile.
Paride
(4 pagine)
Il mio amico è professore, quello che ha
scritto questo raccontino, insegna italiano e vive a Cordova, bellissima zona
di montagna Andina e Argentina.
STRANI I CONIGLI, MA ANCHE CHI LI GOVERNA
“Il sole è alto nel cielo eppure è freddo,
l’aria è umida, da lontano si sentono motociclette da cross, sulla collina di
fronte, il rumore va e viene, seguendo il girare delle folate di vento.
Una voce di megafono, che supera a stento il
rumore da trattore del camioncino scassato, elenca un’interminabile quanto
incomprensibile serie di detersivi e prodotti per la casa.
Paolo consuma la colazione già fuori dalla
porta, gli piace andare a fare un giro in giardino, insieme ai cani, anche se è
freddo, con la tazza del caffè bollente in mano e i biscotti in tasca, anche se
poi quando se li mette in bocca, a volte, sono un po’ pelosi.
Quella miriade di nuvolette bianche, sullo
sfondo di un cielo di un azzurro perfetto, hanno tanta bellezza addosso che a
guardarle intensamente pare che puliscano i polmoni dallo schifo di tutte le
sigarette fumate.
La visibilità è buona, il giorno prima ha
piovuto e poi dopo il vento forte ha fatto la sua parte.
In venti minuti, attraverso strade piene di
automezzi lanciati a tutta velocità tra un semaforo e l’altro, Paolo arriva in
centro, poi altri venti minuti per trovare posto per la macchina.
Dalla campagna ai grattacieli, dai contadini
alla psichiatria dell’ambulatorio del dottor Rui Castro Diniz, detto anche Rui
CD, al ventesimo piano di un palazzo moderno, altissimo e stretto.
Il consultorio, composto di due stanze e due
bagni, è diviso in: zona attesa, vano piccolo con divano e poltrona, una
finestra con tenda scura, riviste, musica rilassante e zona terapia, uno spazio
più grande e luminoso, tre poltrone e scrivania con sedia, cinque quadri belli
ma freddi, con poca emozione.
Le due parti sono separate da una porta e una
parete insonorizzate, tutto arredato con gusto e misura, varie piante in
idrocoltura.”
“L’ambulatorio del dottor Rui CD era piccolo
ma comodo, accogliente pur risultando anche un po’ freddino, molto ben
illuminato.
Il distacco era dato anche dai colori
pastello delle pareti, celestino-grigiochiaro-beige, dai mobili e dai
soprammobili, dai quadri che combinavano, ma senza darlo a vedere troppo, di
pittori diversi ma di simile ispirazione, insomma da una serie di cose che
inducevano alla calma riflessione.
L’impressione che dava Rui CD era quella
specie di maniera di vedere lucida, gentile, cerimoniosa ma assai poco emotiva:
era forse quello il cosiddetto sguardo dell’entomologo?
Quegli insetti erano esseri umani, ma pur
sempre inferiori e lo ammettevano da soli, con il semplice gesto di riconoscere
di averne bisogno."
Per esempio Paolo Cenci (PC) ci andava una
volta alla settimana, sempre allo stesso orario.
Prima di entrare si sentiva agitato, il suo
nervosismo perdurava finché si trovava in sala d’aspetto, una volta dentro,
poi, gli passava e si sentiva stranamente a suo agio, protetto.
Quando varcava la soglia della seconda
stanza, quella insonorizzata, si poneva in un’automatica distanza dal mondo là
fuori e dai suoi problemi, vedeva le stesse cose ma, d’improvviso, con
trasparente chiarezza e gli facevano meno paura, certo meno soggezione.
A basso volume c’era musica di tipo
internazionale, radio con rare voci di annunciatori, che dicevano - a blocchi
di tre - quali erano i pezzi ascoltati in precedenza.
Prima di lui, di solito, c'era un uomo grande
e grosso che aspettava nella saletta, quando lui entrava.
Il
cuore è un muscolo che si deve imparare ad usare e si tenta tutta la vita di
addomesticarlo, diceva il dottore, ma quello spesso è un ribelle, purtroppo.
Il
ritmo della vita non sono i secondi scanditi dall’orologio, ma i battiti del
nostro cuore,
spiegava ad ogni buona occasione.
Quell’uomo grande e serio, nella saletta
d’aspetto, non lo guardava mai negli occhi, appena si apriva la porta entrava
coi suoi passi da elefante, il dottore lo faceva passare e richiudeva.
Per quei pochi secondi si sentiva che la
musica là dentro era un’altra, poi più nessuna voce, nessun rumore.
Quella all’interno era musica per ambienti a
basso volume, calda e fredda allo stesso tempo, rigorosamente strumentale, al
massimo qualche specie di canto gregoriano moderno, più spesso ritmi soffici e
soffusi, chitarra classica, musica che poteva invitare alla riflessione, ma
anche al sonno, dipendendo dai farmaci.
Approssimativamente un minuto dopo, l’omone
usciva con una ricetta in mano, la testa brizzolata del dottore faceva capolino
sorridendo dalla porta, spuntava un braccio e una mano che lo invitavano ad
entrare.
Paolo si accomodava su una comodissima
poltrona delle tre identiche, i piedi su un cubo marroncino foderato di pelle,
uguale in tutto ad altri due.
Il dottore cominciava con calma e gradevole
tono di voce la sua sequenza di intelligenti stereotipi, progettati per far
sentire a proprio agio la gente.
Tempo atmosferico, calcio, di nuovo tempo,
cinema e aeromodellismo, nel caso di PC, l’hobby che avevano in comune era il
consueto finale della prima fase.
Durava cinque minuti, più o meno, poi entrava
delicatamente nel mondo del pensiero moderno, antico e più spesso anche
intermedio.
Senza far domande, come se si stesse parlando
del più o del meno, ma c’era sempre di mezzo qualche frase di Bergson, qualche
volta di Kierkegaard, meno spesso di Kant, naturalmente senza mai citare gli
autori.
Visto che in italiano era il più debole dei
due, il dottor Rui CD voleva che fosse chiaro che era solo in quella materia e
che accettava il suo ruolo d’inferiore solo per poco tempo, magari solo perché
stava pagando e quell’altro era da lui invitato, in quel gioco delle parti, ad
assumere un ruolo di superiore, anche se per meno di un’ora.
Allora PC si accorgeva che si poteva passare
alla prossima fase, che però di solito veniva interrotta sul nascere
dall’arrivo dell’altro professionista, omonimo ma assai più anziano, Rui
Bentivoglio Sa, Rui BS.
Dopo i saluti di prassi, per circa una decina
di minuti i due colleghi facevano finta che PC non ci fosse, parlavano di
psicologia e di psichiatria, ma il professore non sapeva distinguerle.
Insomma di solito il più giovane faceva
domande tecniche al più vecchio, che gli rispondeva e già che c’era lo prendeva
anche un po’ in giro.
Spesso Rui CD aveva bisogno di cambiare
orario, sul confine degli otto minuti spiegava perché si voleva, si poteva e si
doveva farlo e anche se gli altri due non facevano obiezioni, lui rigirava più
volte la sua spirale di motivi validi, da vari punti di vista, usando strutture
di frasi differenti ma che coincidevano nel contenuto.
PC aveva notato che spesso i due
professionisti guardavano l’orologio distrattamente, forse per abitudine: sia
il finto-antico appeso sopra la scrivania, o quello da tavolo che era anche un
accendisigari, sia il rispettivo da polso.
Poi iniziava la lezione d’italiano vera e
propria, di solito conversazione, un testo di attualità oppure anche una roba
meno recente, ma dentro c’era anche un po’ di grammatica, che però altre volte
si faceva più compiutamente attraverso regole teoriche ed esercizi pratici.
Il più anziano indugiava sulle sue risposte
facendo abilmente innervosire gli altri due, quando il professore lo incalzava
la sua calma diventava anche maggiore.
PC non si seccava per la scarsa fretta del
canuto, ma per l’impazienza del brizzolato, che era assai stressato, ma di
solito lo dissimulava bene, solo in questo caso si vedeva che non riusciva
assolutamente ad aspettare, perché di solito erano gli altri che dovevano
aspettare lui e non c’era abituato.
Teneva sempre nascosti i gomiti, perché lì si
poteva vedere la psoriasi.
Quando uscivano dalla lezione, spesso BS
faceva finta di salutare un paziente immaginario in sala di aspetto e CD ci
cascava sempre, accorrendo premurosamente ed untuosamente a vedere chi era e
perché fosse lì.
Capitava che a volte i due colleghi omonimi
ed amici si coalizzassero contro il professore, con il loro comportamento
studiato e mellifluo gli facevano venire dei dubbi anche su cose di cui era
sicuro.
Come quella volta del proverbio l’abito non fa il monaco, che in
italiano lui si ricordava che giammai lo facesse, ma in portoghese, per quanto
strano potesse sembrare, lo faceva e immancabilmente.
Quella volta riuscirono ad annodargli perbene
la mente e poi, alla fin fine, il concetto in questione non cambiava affatto.
“Gente molto intelligente e simpatica,
quella, mi sono fatto tante risate con loro, anche se spesso mi prendevano in
giro, riuscivano sempre anche a sorprendermi e questa è una cosa rara.
D’accordo, non sempre positivamente, però.”
Le lezioni si susseguirono per mesi finché
Paolo, alla fine, riuscì a separarli con la scusa che il loro dislivello di
conoscenza dell’italiano era troppo, il che era anche vero, Rui CD sapeva molto
di più di Rui BS, perché aveva cominciato assai prima a studiarlo.
Presi a piccole dosi erano migliori, quei
due, certo ci voleva sempre una pazienza certosina,
ma quella era la base del suo lavoro, più importante della stessa conoscenza
della lingua o della didattica per insegnarla.
Gli allievi non si potevano scegliere, di
regola era tutta gente piuttosto stressata, non erano casi affatto rari in una
grande città, quelli che facevano italiano, ma che avrebbero avuto forse più
bisogno di qualche altro tipo di materia e di professionisti.
Ironicamente gli capitavano spesso proprio
quel tipo di professionisti che avrebbero avuto un estremo bisogno dello stesso
tipo di professionisti, ma che sebbene fosse proprio una fondamentale regola di
quella professione, non riuscivano ad accettarla e meno ancora a metterla in
pratica.
Come può pretendere di essere credibile chi
fa il contrario di quello che dice? In quale maniera potrebbe riuscire a
insegnare agli altri a cercare di non ingannare sé stessi?
Omero 44
Eh sì, l’uomo quando era ancora ancora
pelosissimo, ha dovuto iniziare a pensare alla svelta, perché la sua
conformazione fisica era inferiore a quella degli altri animali. Era meno
forte, meno resistente e meno specializzato in una serie di fasi essenziali di
azioni che potessero garantire la sua sopravvivenza.
Sviluppò perciò la sua intelligenza, ultima
risorsa, a quei tempi come oggi poco di moda, per poter ovviare alle altre
mancanze.
Tornando a noi vedo che ci stiamo dando
piuttosto da fare. Orbene, mi pare il momento giusto di tornare indietro e
capire cosa è successo a Gualtiero, penso che sia un interrogativo dolente e
attuale, perciò chiedo alle sorelle Soverato o a chi ne avesse notizia, che
cosa e come, quando e dove.
Perché poi Gundel avrebbe smesso di essere da lui
psicanalizzata? Mi scuso per il termine.
Ute 45
Mia sorella è stata paziente di Gualtiero, come lo
conoscete voi, per lei invece era il dottor Geronimo Klinkenhammer. Dopo averlo
visto al ristorante e averlo visto suonare e cantare così bene, Gundel era
incerta se fosse veramente lui, anche perché i suoi capelli non erano bianchi,
quando lei veniva da lui ricevuta ogni sabato mattina alla dieci, in
Dieffenbach strasse al numero 12. Li aveva nerissimi e non sciolti sulle
spalle, ma raccolti in un codino. E soprattutto non era cieco, ma ci vedeva
bene e i suoi occhi mandavano moderate scintille e furtivi lampi.
In seguito è anche andata a controllare, ma il suo
ambulatorio là dove era non c'è più. Perché lei a suo tempo ha smesso di essere
sua paziente ve lo racconterà forse lei stessa, io non potrei.
Qualche annetto prima Siddartha Gautama,
fondatore del Buddismo, di famiglia ricca e nobile rinunciò a tutto per capire,
per diventare l’illuminato, il Buddha.
Nel 480 a.c. mentre il Buddha era già anziano
e predicava le sue idee lungo il Gange, Confucio in Cina scriveva i suoi
precetti e gli Ateniesi, sconfitti i Persiani a Maratona, coltivavano le arti e
la democrazia.
Siddartha auspicava di annullare il proprio
io, fino al raggiungere il Nirvana, stato di dissolvenza nel cosmo.
Il Buddha era contrario alla rigida struttura
delle caste sociali.
Il Buddismo ebbe un grande salto di qualità
dopo la morte di Siddartha, il re Asoka che governava varie regioni dell’India,
che quando il Buddha era in vita, erano ancora divise, aderendo con grande
convinzione alla nuova fede, le aprì le porte dell’India e poi per tutto
l’Estremo Oriente.
Paride 46
La morte dovrebbe
essere il contrario della vita, o magari no. Se uno sapesse quando deve morire,
potrebbe organizzarsi meglio? Come quando si va dalla cartomante e poi ci si fa
eccessivamente influenzare dalle sue previsioni.
Allora è meglio
saperlo oppure no?
Personalmente
preferisco di no, anche se mi dicessero che morirò esattamente fra
cinquant’anni a partire da adesso. Sarebbero cinquant’anni troppo influenzati
da questa previsione e poi che fregatura se non fosse nemmeno vero!
Il principio di
Heisemberg dice che l’osservatore influenza inevitabilmente il risultato
dell’esperimento. Il mondo senza di me non sarebbe certo lo stesso, almeno dal
mio punto di vista.
Anzi, ho ragione di credere che non esisterebbe neppure.
La
storia di Gualtiero la conosco per sentito dire, ma mi affascina, anche a
livello filosofico. Se veramente lui era uno psicoterapeuta perché fingersi
cieco? E poi perché cercare e riuscire a farsi amico Omero?
Sono
entrato in questo gruppo proprio per via della filosofia, posso dire che me ne
interesso da sempre, o perlomeno da quando ho capito che è un'arma, da puntare
non contro gli altri, ma contro le ostilità del mondo, che sono di tanti tipi,
per difendere noi stessi, eventualmente anche per attaccare.
La filosofia greca è nata in Turchia e
precisamente a Mileto, continuata poi nel sud dell’Italia, nella colonia della
Magna Grecia, ha messo piede in patria solo durante una terza fase.
I primi pensieri generali sulla vita furono
greci, anche se in Cina, Confucio appartenne alla stessa epoca e formulò teorie
a partire dal senso pratico.
Si dice che il primo filosofo fu Talete a
Mileto e il primo a coniare questo termine fu Pitagora a Siracusa.
I primi pensatori cercarono di razionalizzare
i perché dell’esistenza, i punti fondamentali della vita, l’origine dei
fenomeni della natura.
La mitologia politeistica greca vedeva gli
dei come esseri superiori, ma non troppo, assai simili agli uomini, con le
relative fissazioni e debolezze.
Il passaggio dal Mythos al Logos avvenne
quindi a piccoli passi, cercando di abbandonare il mito e di seguire di più la
logica, si tendeva progressivamente a sostituire la precedente universale
visione cosmica mitologico-religiosa con la scienza, o qualcosa che tentava di
assomigliarle sempre più.
Il sorgere del sole, lo sgorgare di una
sorgente, la notte, le stelle, il sorgere della luna, la tempesta, le nuvole,
la pioggia erano fenomeni che l’uomo non riusciva a spiegarsi, i suoi miti, che
talvolta diventarono religioni.
Non molto più tardi, verso il 650 a.c. si
iniziò a metterli in dubbio attraverso la filosofia.
Democrito fu l’inventore
dell’atomo, come lui i Presocratici si
preoccuparono di spiegare i fenomeni della natura, evitando di farsi
trasportare del sensazionalismo dei miti usati fino a quel momento.
Socrate e Platone cercarono di studiare e
definire il comportamento umano.
Aristotele, a partire da idee e teorie anche
altrui, cercò di dare le direttive pratiche ed esemplari per il futuro, la
saggezza per la ricerca della felicità
I presocratici furono i fondatori della
fisica, Socrate e Platone dell’etica e Aristotele della logica.
Gli Ellenisti in seguito, commentarono e fusero le teorie
precedenti con la pratica del mischiarsi delle razze e delle culture dell’epoca
e si spinsero da Alessandria d’Egitto fino all’India atraverso le conquiste di
Alessandro Magno di cui Aristotele fu maestro.
Ute 47
La grande fregatura
per gli esseri umani è il seminascosto ma costante pensiero della morte, di
tempo noi qua ne abbiamo anche troppo, ma se pensiamo che è una cosa che un
giorno finirà, allora pare che ci manchi da subito.
Non credo di essere
una di quelle che pensano spesso alla morte come un qualcosa in un certo senso
sgradevole. Se però considerassi la mia nascita una delle cose migliori che io
abbia mai intrapreso, ecco che la fine dell’esistenza potrebbe provocarmi un
qualche disappunto.
Non penso di conoscere
la morte, come non abbastanza la vita, la prima però è solo un momento, l’altra
invece ha una durata, perciò è forse preferibile, in quanto maggiormente
interattiva.
A noi umani il
pensiero della fine della vita ci accompagna e c’incuriosisce, se non sempre,
almeno spesso, dalla nascita alla morte. Uno strano processo per cui una
persona prima c’è e dopo non c’è più. È forse una magia?
La magia crea qualcosa
dove in precedenza non c’era, o fa sparire una cosa nel niente, ma è solo un
trucco. La filosofia, invece fa capire che quel qualcosa che noi credevamo
inesistente invece esiste, o quello che credevamo esistere - al contrario
- non c’è. Insomma la filosofia è il
contrario della magia, o qualcosa del genere.
Luiz 48
Uomo di famiglia aristocratica, ma di un ramo
povero, nato in una provincia lontana nel 551 a.c., Confucio diventò professore
a tempo pieno.
Ben presto, arrivò alla conclusione pratica
che una vita terrena ben vissuta, era più importante di qualsiasi vita da
raggiungersi dopo la morte.
Confucio credeva che i nobili dovessero
governare in maniera saggia e umana.
Come la classe dominante Greca, nella stessa
epoca, credeva più nella gerarchia che nell’uguaglianza.
Predicava cortesia, lealtà, umiltà e
delicatezza; esaltava la saggezza degli anziani che avevano molto da insegnare
ai giovani.
Forse l'intento di questo gruppo potrebbe
essere mostrare il bello e il brutto del vivere ai nostri tempi in una società
moderna, dove la gente è sempre più problematica, non ci si può fidare di
nessuno e siamo sempre a parlare del passato, come se l'ieri fosse meglio di
oggi, ma è l'oggi che stiamo vivendo e cerchiamo quindi di essere pragmatici!
Omero 49
Bravo Luiz, hai ragione.
Per convincere Gundel a raccontarci, direi
che è interessante per tutti, non c'è bisogno che ci dica nei dettagli le
sedute con Geronimo o Gualtiero, ma a noi cosa c'importa sono le cose esterne,
le sensazioni, le parole non dette. Siamo ansiosi di comprendere, insomma.
Ora siamo nove, sto mandando il documento
completo a tutti, all'inizio eravamo solo due e poi piano piano si sono
aggiunti gli altri, anche le lettere precedenti, chiamiamolo carteggio, così ci
si capisce meglio.
Gundel
50
Bene anzi male, malissimo.
Ci mettiamo completamente nelle mani di
questi professionisti del ramo perché ne abbiamo estremo bisogno, lo facciamo
con la massima fiducia, sennò non lo faremmo, ma non sempre questi sono dei
terapeuti competenti o anche solamente seri, diciamo che anche a livello di
persone non sono tanto meritevoli di fiducia.
Geronimo pareva molto intelligente e serio,
autoironico e gentile, mi avevano mandato da lui degli amici, gente che
conoscevo, ma fidarsi degli altri è sempre un salto nel buio, già è tanto se
possiamo fidarci di noi stessi.
Geronimo era ed è un pazzo, in buona
sostanza; D'accordo, lo siamo tutti un po', ma lui sembrerebbe di più, non solo
secondo me. Il fatto stesso che ogni tanto scappi e si nasconda da qualche
altra parte significa che ci sono grossi problemi.
Una
mia amica di Hannover mi ha detto che ha indirettamente saputo da una sua
amica, cioè dal rispettivo marito, che viveva ed esercitava lì, qualche tempo
fa, ma che cieco lo è diventato veramente. Dicono addirittura che sia stato
arrestato e che sia fuggito dalla prigione, che in un confronto a fuoco con la
polizia sia stato ferito alla testa e dopo, di conseguenza è diventato strabico
e cieco. Per cosa sia stato arrestato però non me lo ha saputo dire.
Pare
che addirittura non abbia nessuna figlia. Ma Omero, non l'hai vista anche te al
ristorante?
Omero
51
Jens
52
Chissà la storia che c'è dietro a questa
serie di piccole parti che noi veniamo a conoscere e neanche tanto
precisamente.
Bugia e verità, mischiate e confuse, da chi
ne ha interesse ma anche condotte dal caso, sono parte integrante del flusso
inarrestabile di un'esistenza sempre incerta e piena di alti e bassi, quando è
tutto tranquillo c'è da preoccuparsi, come fanno gli italiani che quando stanno
bene pensano a prima che stavano male e a dopo che saranno immancabilmente di
nuovo nei guai.
La cosa giusta sarebbe una via di mezzo: sì,
pensare al passato e al futuro, ma cercando di godersi il presente, ma troppe
cose ci distraggono dallo stare bene, proiezioni e ragionamenti forzati da
un'esperienza passata, qualche volta mal interpretata e a volte neanche nostra.
Mi piacerebbe essere un bugiardo, sono troppo
fedele e ligio alla verità, a quella realtà che spesso è scomoda, a come
poi sono io in relazione agli altri. Per
questo quando mi capita a tiro un grande bugiardo ne sono affascinato.
Va bene, dipende dalle occasioni, a volte i
bugiardi cronici mi irritano, forse perché mi prendono di sorpresa, oppure
quando mi trovo in un campo antagonistico, mio malgrado, se sono obbligato in
qualche modo a competerci, in una determinata occasione, comunque raramente.
Non si può sempre dire la verità, siamo
d'accordo ma mentire in maniera automatica, senza nessuno bisogno di farlo,
come se fosse parlare o respirare, è un fenomeno piuttosto interessante nelle
persone, gli animali mi garbano perché sono molto meno falsi.
Poi ci sono i casi gravi, come quello di
questo Gualtiero o Geronimo, che talvolta sfociano proprio anche in casi di
polizia. A quanto ho capito però dovrebbe essere uno psicopatico piuttosto
atipico.
Parto
da un luogo, meglio, da una osteria che non c’è più. Si trovava dalle parti di
Santa Caterina, via di Crollalanza. Era l’osteria di Luciano (Ferranti) «che
per gli amici faceva anche da mangiare». Più in là, in piazza Dante c’era ed
esiste ancora l’osteria-trattoria di Orsolina, «nome che rimane nell’insegna,
anche se, dopo la signora Maria, è ora condotta da altri cuochi». Risalendo
ancora più indietro nel tempo, gli autori ricordano la trattoria Dante
(Ferracuti) situata poco dopo superato l’arco della Biblioteca; le Tre Porte
invece aveva sede in via Paccarone. Nella Cantina di Chiappì, vicina a piazza
del Popolo, si poteva gustare la trippa. «Una magia» per gli scrittori. Salendo
salendo, l’hotel-ristorante La Casina delle Rose, sul colle del Girfalco,
attirava bella gente.
E Nasó? «Fermano, classe 1901, Peppe Spagnoli
– così è presentato nel libro a lui dedicato – era stato cameriere a Roma, al
Ristorante Valiani… A Fermo lavora all’Albergo Vittoria poi alla Casina delle
Rose». Non manca una lunga parentesi di gestione del Caffè Roma, sulla via
omonima, che era anche sala da ballo e ristorante per pranzi di cerimonie come
il matrimonio «di Adriana e Guido Gennaro, habitué e amico del cuoco da cui ha
mutuato la passione dedicandosi oggi all’Accademia dello Stoccafisso alla
Fermana». Lo stoccafisso resta uno dei piatti forti non a caso era ribattezzato
lo stoccafisso alla Nasó. E la “Fermanella”, locale ancora oggi esistente lungo
le Mura di via Crollalanza, era il tempio della gastronomia nasoniana. Altra
pietanza importante risultava il “Carrello del bollito misto” di cui, si legge
nel libro, «era necessaria la prenotazione, tante erano le richieste nei giorni
in cui veniva proposto. Peppe non procedeva alla sua programmazione se non
aveva in casa tutte le carni necessarie per la buona riuscita del piatto».
Questione di gusto, di stile, di passione. Le Guide dell’Espresso recensirono
locale e piatti a partire dal 1981 sino all’89, eccetto il 1984.
Un buon cuoco deve avere una buona brigata.
Così, gli autori ricordano anche gli aiutanti di Nasò: Adele Santarelli, Lidia
Santini, Luciana Paletti.
La pubblicazione riporta alcune delle ricette
tipiche di Nasó: dalla Fermanella ai Cannelloni, dal Pollo alla cacciatora alla
Salsa di cipolle, dalle Costolette di agnello all’Ossobuco, dalle Pappardelle
tonno e alici al Sugo all’amatriciana. E, ovviamente, al pezzo forte: lo
Stoccafisso. Quello stesso che il prof. Pio Natale, con altri primari medici,
direttori di banca e personaggi fermani in vista, celebrava ogni venerdì alla
Casina delle Rose. Ricordarlo non fa male. Fa male vedere la Casina sprangata e
decadente.
Adolfo Leoni, Il Resto del Carlino, Venerdì
11 settembre 2020
Chiara (11 pagine)
Questo lo ha scritto mio marito ovviamente,
io mi sono limitata a correggere alcune incongruenze, di cui lui mi è rimasto
pieno di gratitudine, ma è ovvio che io da sola non sono capace, non ci ho mai
nemmeno provato, insomma non scrivo niente.
Io sono la parte razionale e amministrativa
della famiglia e lui quella artistica e spendacciona, tanto per dire.
Dario non è uno psicologo né niente del
genere, ma quello è un tipo di persona che lo incuriosisce. Le terapie a base
di psicanalisi sono situazioni che lo fanno viaggiare nello spazio e nel tempo.
Non credo che vi abbia mai partecipato,
comunque. Per quel che ne so, neanche ha mai avuto amici o conoscenti del ramo.
IL
SIGNORE IN QUESTIONE
Primavera.
Piccola via tranquilla del centro di Brescia.
I due signori seduti al tavolo fuori dal bar
si divertono a cercare di capire che mestiere un eventuale essere umano possa
fare, senza averlo mai visto prima.
Senza parlarci, solo guardando vivere una
porzione di vita qualsiasi, come quella, lì al bar, magari ascoltando quello
che dice, ma rigorosamente senza interagire.
Il più giovane dei due si chiama Guerra,
grassoccio e piuttosto agitato, l’altro Falco, di orientale calma, coi capelli
bianchi e un’aria a volte inespressiva.
Tra di loro ci sono più di dieci anni di
differenza, ma sono amici e colleghi.
Quando siedono insieme al bar, come ora,
anche se solo per mezz’ora, nella breve pausa della merenda, tra un boccone di
tramezzino e una sorsata di cappuccino, incominciano automaticamente, non c’è
nemmeno bisogno di dirlo.
“Questo è evidentemente un assicuratore. Sei
d’accordo o no?” Dice Guerra. Falco lo guarda con tutta la sorpresa che la sua
faccia gli permette, poi dice:
“No. Per niente. No. Io direi, piuttosto un
medico, forse un otorinolaringoiatra.”
“Forse hai ragione, chi lo sa, ma non direi
proprio un otorino, non lo so, magari… forse-forse, piuttosto un pediatra. Che
mi dici?” Guerra finisce la frase e si spara in gola l’ultimo goccio di
cappuccino ormai freddo.
“Mmmmm.” Falco, gli occhi verso il cielo, sta
riflettendo profondamente, ma non troppo. Si sa che quando veramente s’impegna,
invece, fa schioccare più volte la lingua.
Il signore in questione siede a un tavolo lì
vicino e si guarda intorno, ordina qualcosa al cameriere.
I due fingono di non guardarlo. Sbirciano
distrattamente e discretamente, mettono insieme indizi che formano poi le parti
di due identikit.
Dettagli che sono in costante cambiamento,
dal cervello alla bocca le parole si trasformano, i concetti di conseguenza.
“No, nooo. No. Guarda che mani che ha.”
Sussurra Guerra con un piattino davanti alla bocca: “Questo è un cazzo di
chirurgo, te lo dico io.”
“O un pianista”
“O magari tutti e due.” Dice serio Guerra.
“Ma sì, pensa che un muratore che lavora a casa mia, ha delle belle dita
lunghe, lisce, troppamente sensibili… ”
“Forse usa i guanti.”
Falco riesce a dire battute micidiali senza
cambiare faccia, rimanendo completamente serio, Guerra ha la grande capacità di
non capirle quasi mai, gli viene naturale, pensa sempre ad altre cose.
Eppure sono amici.
Guerra inventa le parole, specialmente gli
avverbi, dice spesso ‘troppamente’ o ‘troppissimo’che non esistono nella lingua
italiana, le sue battute, spesso pure assai frizzanti, sono ignorate
sistematicamente da Falco.
Intanto il signore in questione succhia un
liquido con la cannuccia, tra l’arancione e il giallastro, forse un succo di
pesca, chi lo sa, di albicocca. Ogni tanto si guarda intorno per vedere se
qualcuno arriva, armeggia col telefonino, guarda l’orologio.
“Un adultero che aspetta l’amante?” Chiede
Guerra un po’ anche a Falco, ma soprattutto a se stesso.
L’espressione della faccia di Falco è
totalmente priva di segnali di riconoscimento, forse non ha nemmeno la pretesa
di essere un’espressione, chi lo sa, la sua faccia si è di nuovo dimenticata di
essere una faccia?
“Mmmm, la sua non mi pare proprio un’ansia
positiva, però potrebbe anche essere un incontro con un’amante che non sopporta
più, insomma, che vuole in qualche modo lasciare, magari.”
“Può essere, ma allora, che minchia di
mestiere fa?” L’ansia di Guerra è tangibile.
“Beh, questo non lo so ancora, più che un
medico mi pare, alla luce di questi nuovi aspetti, qualcuno che deve vendere
qualcosa, magari un rappresentante.”
“Già, hai ragione, vedi che ritorni sul mio
discorso? Mi fa proprio piacere. Sì-sì, potrebbe anche essere un colloquio di
lavoro, un appuntamento di affari, chi sta per arrivare dovrebbe essere allora
il cliente e lui quello che vuole vendere il suo prodotto, o qualcosa del
genere. No?”
“Ti faccio notare che tu avevi detto un
assicuratore, non un rappresentante.”
“Il tipo di meccanica mentale è la stessa,
non sottilizziamo.”
“Però sono due mestieri differenti.”
Il signore in questione continua i suoi gesti
apparentemente rilassati, ma sotto-sotto nervosi, seminascosti da una flemma
simulata che non sfugge certo ai due fini osservatori.
Nervosi sono quasi tutti, lo si sa, il mondo
moderno è così, certo che una buona parte cerca di dissimulare, ma questo qui
lo fa in una maniera strana, magari proprio perché, chi lo sa, forse-forse
professionale.
Intanto arrivano altri clienti, in poco tempo
i tavolini del bar sono tutti occupati e loro si danno da fare per non
dimenticarsi nessuno.
Tanti, in qualche modo troppi, signori in
questione, che loro analizzano e polemizzano, ora piuttosto diligentemente,
efficacemente ma senza troppa ispirazione, da entomologi, senza emozionarsi,
distrattamente, senza trovare in loro tanto interesse, non tanto quanto ne
hanno trovato nel primo signore in questione.
Un muratore, una casalinga, un poliziotto,
una guardia giurata, due infermieri, due segretarie e tre rappresentanti di
medicinali sono scoperti in un batter d’occhio dalla coppia implacabile.
Dopo un po’ i due devono tornare al lavoro,
di malavoglia, stiracchiano il tempo dell’orologio al massimo, ma chi deve
arrivare, a parlare con il signore in questione, è troppo in ritardo.
Guerra dice che Brescia è ormai piena di
gentaglia, a volte di origine ebraica, gente che non rispetta gli orari, ma la
puntualità, invece, è una cosa ‘troppamente’ essenziale per gli affari.
Falco obbietta, con un sorrisino tagliente,
che lui stesso, il Guerra, non è che sia proprio un esempio di puntualità,
l’origine ebraica, poi, non c’ha niente a che fare.
Guerra ribatte che qualche impercettibile
ritardo gli capita anche di farlo, lo ammette, ma solo sporadicamente e poi lui
non è mica un commerciante ebreo...
Il giorno dopo, stessa ora stesso posto, i
due aspettano il signore in questione, per quasi quarantacinque minuti.
Invano.
Tanti altri banalissimi signori in questione
passano e siedono, per venire - nella maggior parte dei casi - scoperti
attraverso i loro gesti, le poche parole udite, la maniera di fare.
Alcuni, i più facili, per via delle uniformi.
“Magari quello era di passaggio e non ritorna
più.” Dice Falco con lo stuzzicadenti del tramezzino appena terminato
all’angolo della bocca.
Guerra senza accorgersene ha orientato la
seggiola nell’esatta direzione da cui il signore in questione era arrivato, il
giorno prima.
“Strano a dirsi, ma mi ci sono già
affezionato, ci credi? Anche se mi pare che sia ebreo.”
“Non ricominciare con gli ebrei, vedi ebrei
da tutte le parti, lascia in pace gli ebrei, sono persone come tutte le altre,
che cosa ti hanno fatto di male gli ebrei?”
“A me niente, non mi piacciono, normalmente,
ma stranamente invece questo sì.”
“In che senso ti piace?”
“Beh, è misterioso, falso, sfuggente, perciò
è ebreo, insomma il personaggio ideale per il nostro giochino. Ma se ce lo
avessi attaccato ad una gamba me la taglierei.”
“Beh, non credo che ti si attaccherà mai ad
una gamba, e poi sicuramente non era ebreo, ma era un personaggio misterioso.
Mi piaceva.” Conclude Falco alzandosi.
“No, ‘che mi piaceva’, no: CI PIACE. Domani
vedrai che quello viene e lo scopriamo per benino. Segnati queste mie parole.
Dici di no?”
“Domani è sabato.”
L’indesiderato fine settimana arriva e i due
amici, che hanno famiglia, si sentono al telefono, la domenica sera.
Tra le tante cose da dire, l’appuntamento per
il giorno dopo, un quarto d’ora prima del solito e alcune nuove considerazioni
sul signore in questione sono d’obbligo e accompagnate da grande e bambinesco
entusiasmo, specialmente da parte di Guerra.
Lunedì.
Alle quattro meno un quarto i due sono già
seduti e il signore in questione, stavolta, non si fa aspettare.
Si siede allo stesso tavolo dell’altra volta,
i due anche occupano il loro solito.
Guerra scalpita, Falco finge di no.
Vestito con apparente ma studiata
trascuratezza, si nota subito in lui una grande cura del particolare,
accostamenti di colori, jeans o pantaloni sportivi, maglie di classe - magari
di kashmir - sulla camicia fintamente stropicciata. Abbronzato, ma non di
lampada, volto morbidamente rigido, occhio vispo, ma calmo, sguardo
perennemente ‘oltre la siepe’.
Barbetta sale e pepe di un giorno
perfettamente curata.
Occhiali da sole senza montatura, lenti ovali
e ambrate, stanghette marroni. Sa benissimo ‘dove dorme il polpo’, ma
preferisce non farlo sapere troppo in giro.
Il taglio dei capelli brizzolati, lunghi e
scompigliati con distrazione studiata, scolpiti qua a e là, dove conta, con
abili tocchi di gel, fa pensare al suo barbiere che ha studiato all’estero, ma
conosce le mode nazionali, le tendenze attuali e anche quelle del passato che
ogni tanto ritorna in voga.
Il solito minuscolo cellulare tra le mani, a
chiazze mimetiche militari, dal quale riceve spesso chiamate, da persone
differenti, si direbbe.
Stavolta ha anche uno zainetto, da cui estrae
un pacchetto di sigarette ancora cellofanato, che però rimette lentamente
dentro, un accendino, che rimane enigmaticamente sul tavolo e un libro.
Libretto violaceo, questo, di un centinaio di
pagine, che lui prende in mano, rigira più volte tra le dita affusolate, come
se lo vedesse per la prima volta e poi sfoglia distrattamente.
I due non riescono a vedere il titolo, anche
se allungano il collo e si contorcono abbastanza.
Guerra passa all’azione, finge di dover
andare in bagno e fa il giro largo, per dare un’occhiata al suggestivo
paesaggio di vecchi muri rimessi a nuovo, insomma passa lì rasente.
Il tempo di fare un bisognino di dieci secondi
e ritorna, siede, accosta la mano alla bocca per proteggere le parole che
escono e sussurra quasi dentro l’orecchio proteso di Falco:
“Istruzioni per rendersi infelici di Paul
Watzlawick! Lo conosci?”
“No.”
“Nemmeno io, ma sembra un nome ebreo e il titolo
è tutto un programma.”
“Ancora con questi ebrei?”
“Il mondo è pieno di ebrei, solo che non si
vedono, si cammuffano. Hanno paura, loro. Invece siamo noi che dovremmo
avercela.”
“Sì, va bene, ammetto che sia un grande
problema per il mondo, di conseguenza certamente anche per noi, ma che cosa
deduci tu da questo titolo?”
“Una vasta gamma di cose.”
“Prova a dirmene solo una.”
“Mah, c’è l’imbarazzo della scelta: per
esempio che il nostro uomo è un ebreo che si pone il tema della felicità nella
vita...”
“E allora?”
“Allora è una persona ebrea di una certa
profondità!”
“E con questo?”
“Che diamine, si possono già escludere alcune
categorie...”
“Che sollievo! Lo sai quanti sono i tipi di
lavoro in una città italiana grande come Brescia?”
“No, quanti?”
“Centinaia, proprio tutti inclusi: migliaia.”
“Bene, andiamo escludendo, noi, già che siamo
gente pratica ed intelligente... direi magari per intere categorie, per
guadagnare tempo, sì: beh, operaio non è, nemmeno muratore o poliziotto... non
sono lavori da ebreo, potrebbe essere un agente segreto, ma più probabilmente è
un libero professionista, abbronzato, curatissimo nei particolari, ma vuol far
credere che è studiatamente trascurato, insomma: un falso non-metrosessuale
ebreo.
Beh, un falso lo è anche in generale,
diciamo, ma questo non ci aiuta troppissimo... comunque il libro in questione
escluderebbe il rappresentante, secondo me; è risaputo, che chi pensa
troppamente alla vendita, non è il tipo che riflette sul senso della vita o
sulla felicità.
Si tirerebbe la zappa sui piedi ebrei.”
“Non è detto.”
“No, non è detto, ma è assai probabile.”
“Vuoi dire improbabile. Ma su questo hai
ragione, te ne dò atto. A proposito, tu ci pensi a queste cose?”
“A cosa?Alla felicità?”
“Sì, alla felicità.”
“Io? No, che c’entra? Beh, qualche volta. E
tu?”
“Raramente, ti dirò che una volta ci pensavo
di più...”
“E poi che cosa è successo?”
“Mi sono sposato, la routine, sai, i
problemi, i figli, il lavoro...”
“Non hai più tempo?”
“Infatti.”
“Troppamente vero! Nemmeno io.”
Il signore in questione, intanto viene raggiunto da una signora fuori di
questione, dal punto di vista dell’eleganza di un certo tipo, ma dai capelli
ritti.
Si siede scompostamente al suo tavolo.
Giacca, maglia, pantaloni e cappello tutti in
pelle nera. Lineamenti mascolini, trucco pesante, un po’ sbafato, occhi
spiritati, rughe profonde centimetri.
Iniziano a parlare, lei strilla quasi.
Lui le parla con grande calma.
Lei si abbandona in una posa immobile dietro
gli occhiali neri pescati convulsamente nella borsa, la faccia appoggiata ad un
braccio puntellato sul tavolo, ora sembra una statua di cera, il suo pallore è
sinistro.
I due scuotono la testa, sorridono seri, si
guardano ripetutamente e scuotono ancora lentamente e graziosamente le
rispettive cervici.
“Secondo te, anche le sue mutandine sono di
pelle?” Suggerisce Guerra.
“E probabilmente nere.”
“Sono amanti?”
“C’è una specie di assurda complicità, direi.
Certo che deve essere una roba perversa, come minimo... e magari pure peggio.”
“Sono d’accordo. Potremmo dire schifosamente
intrigante?”
“Non lo so. Lei è più brutta e vecchia di
lui, forse anche matta da legare, deve essere ricca.”
“È vero, hai ma-le-det-tis-si-ma-mente
ragione, ci devono correre dei bei soldi. Si sa: gli ebrei pensano solo ai
soldi.”
“Per favore smettila con gli ebrei. Lasciali
in pace. Hanno avuto una storia travagliatissima. E poi non ne conosci nessuno
e non puoi giudicarli. Io ho diversi amici e colleghi, persone degnissime. Il
nostro uomo non è ebreo e anche se lo fosse, a noi non ce ne frega niente,
quello che ci interessa è un’altra cosa. Il suo mestiere.”
“D’accordo, ma sono disposto a scommettere
che quello è un ebreo. E poi non è vero che non ne conosco nessuno: non ho
voluto approfondire nessuna amicizia, quando ho avuto occasione, ma solo perché
me ne sono accorto in tempo. Guarda! Guarda come lei lo ignora sapientemente
guardandolo negli occhi, con la bocca carnosa distorta dalla stanghetta
all’angolo delle labbra... io stanotte non lo so se riuscirò a dormire.”
“Infatti.”
“Anche tu?”
“No, dico che infatti tu probabilmente non
riuscirai a dormire...”
“Io no... e invece tu ci riuscirai?”
“Beh, sì, che me ne fotte a me?”
“Ah sì? Secondo me invece avrai le pallacce
degli occhi spalancate fino all’alba e poi te ne andrai a portare il cane a
fare un giro e tua moglie si preoccuperà in maniera pesante... pesantissima...”
“Sì, vabbè, ora scrivici un libro.”
Pausa piena di interrogativi ed esclamativi,
misti, tutto intorno la giornata è nuvolosa, ha l’aria di diventare
prossimamente piovosa.
“Istruzioni per rendersi infelici?” Riprende
Guerra.
“Appunto: ‘Istruzioni per rendersi infelici’
di Paul Watzlawick.”
“Avevi detto che non lo conoscevi!”
“Ed effettivamente non lo conosco.”
“E allora?”
“Allora che? Ho solo buona memoria.”
Scendono le prime piccole gocce di pioggia.
“Uno scrittore polacco-americano, eh? Magari un ebreo?”
Suggerisce Guerra entrando nel bar.
“Sì. Certamente un po’ lacco, forse anche
americano, ma rigorosamente non ebreo.” La battuta di Falco non viene raccolta.
“Questo lascialo decidere a me, che c’ho il
sensore. Certo che è ebreo. Inoltre queste tre componenti danno luogo a una
mistura pericolosa. Sono i peggiori, gli untori, fomentatori di turbolenze
etniche, agitatori apparentemente sommessi di popoli.” Sussurra Guerra per non
essere udito.
“Scusa ma in che senso?”
“In tutti i sensi.”
Il martedì seguente il signore in questione
non si fa vivo.
Il mercoledì però c’è già quando i due
arrivano, prima Guerra e poi a ruota Falco.
È da solo, ma ha un pacco voluminoso, dalla
forma irregolare, che forse deve aver ritirato alla posta, lì vicina.
Guerra dice che là dentro c’è un arma, Falco
obbietta che se è un’arma è un mortaio o un bazooka smontato, ma non esclude
del tutto l’ipotesi di un kit per montare una mitragliatrice.
Si sentono assai colpevoli di aver perso dei
minuti preziosi, dei risvolti forse determinanti ai fini delle indagini.
Mercoledì sera Falco va allo stadio a vedere
la partita di Coppa Italia con i due figli di dieci e quindici anni.
Il Brescia, che è a metà classifica in serie
B, è arrivato sorprendentemente ai quarti di finale, gioca con l’Inter.
Lo stadio è strapieno, in tribuna coperta
Falco vede tra la gente un uomo che sembra proprio il signore in questione,
insieme a una bellissima donna.
Fa in maniera di andare a sedercisi vicino.
Ascolta i suoi discorsi, ci parla anche, di
calcio, ma non ce la fa a carpire quella unica nozione che gli interessa: che
mestiere fa.
E poi, sarà la luce notturna, l’abbigliamento
più pesante, la sua pressante curiosità in aumento, ma non riesce a capire se è
veramente lui o no.
Alla fine si salutano in maniera evasiva, la
donna lo pressa per andare via prima del tempo.
Sarebbe stato un vantaggio enorme su Guerra,
avrebbe potuto giocare come il gatto col topo.
In più (o in meno) il Brescia ha perso due a
uno.
La stessa notte Guerra fa un sogno strano.
Il signore in questione non è ebreo, non è
neppure un uomo, ma una donna e lavora in un localino equivoco, fa la ballerina.
Un travestito alla rovescia, o meglio una
travestita, unico caso conosciuto nella storia.
Guerra si sveglia sudato, si va a fare una
doccia, ma dopo non riesce più a dormire.
Il giorno dopo è giovedì.
Il signore in questione appare in ritardo di
mezzora, ma i due non si sono mossi dal loro tavolo di osservazione.
Arriva dal lato opposto, li prende di
sorpresa, è insieme ad una coppia, sembrano approssimativamente
trentacinquenni, di cui lei parla troppo, lui non apre bocca.
Dopo una mezzora i due se ne vanno e lui
rimane solo.
Finisce tranquillamente la sua birra e se ne
va, ma Guerra lo segue di scatto.
Pochi metri dopo Falco gli telefona col
cellulare e gli dice che non fa parte del gioco, che si sta evidentemente
esagerando.
Guerra risponde che ormai il gioco ha
irrimediabilmente sconfinato e poi il giorno dopo è di nuovo venerdì, bisogna
sbrigarsi, lui non ha nessunissima voglia di passare ancora il fine-settimana
sulle spine.
La sera Falco non resiste e telefona a
Guerra, gli chiede cosa ha scoperto.
Guerra tergiversa, nicchia, fa il vago, evita
l’argomento.
Falco all’inizio pensa che voglia fare il
furbo, che gli voglia far pagare la sua indifferenza, la sua aria di
superiorità.
Poi capisce che invece c’è sua moglie che lo
sta ascoltando, ha sentito dei rumorini al ricevitore, Falco taglia corto,
saluta e riattacca.
È venerdì.
Seduti al solito tavolo i due conversano
animatamente, Guerra ha scoperto un possibile
appartamento del signore in questione, il quale, per giunta, non si è
fatto vivo.
Falco è insolitamente nervoso, aggressivo.
Guerra ha dormito poco e male:
“Lo so troppamente bene che fino ad ora
abbiamo fatto così, però ora le cose sono cambiate, ieri l’ho seguito fino alla
qui vicina Piazzetta delle Rose, come tu sai, zona bresciana con la massima
concentrazione di ebrei. Bene, ora noi dobbiamo andare a vedere se vive o
lavora là, che ne dici?”
“Non mi piace per niente questa storia, lo
sai, però... d’accordo, vengo con te, comunque io non entro, te lo dico qui e
subito, dentro ci vai tu, io rimango fuori.”
“Tu fai quello che vuoi, io vado fino in fondo.”
Agiscono come agenti segreti, si guardano
intorno continuamente, facendo finta che non guardano, in maniera imbranata.
Camminano velocemente, la respirazione è
accellerata, il cuore che pompa emozione dentro il sangue.
Entrano e escono subito dal palazzo, poi va
da solo Guerra e Falco rimane fuori a fare il palo, ovviamente senza nessuna
utilità, con malcelata indifferenza.
Guerra torna dopo poco e ha cambiato faccia.
Si siedono su un muretto.
“Allora?”
“Te lo avevo detto che era ebreo.”
“Come hai fatto a sapere che è ebreo?”
“Facile! Si chiama Mardocheo, che è
l’evidente italianizzazione di Mordecai!”
“Questo è ancora da dimostrare. E di
cognome?”
“Bramante. Tipico cognome giudeo-italiano.
Derivante da Abramo, di conseguenza: amante di Abramo, direi.”
“Brillante deduzione logica. Ci hai parlato?”
“No, ho visto il nome sulla targhetta
dorata.”
“Ma allora che mestiere fa?”
“Non ti piacerà quando te lo dirò, ti
avverto.”
“Dimmelo lo stesso.”
“Non hai capito a cosa alludo?”
“Se me lo dicessi, capirei.”
“Prova a indovinare.”
“Vuoi un cazzotto sul naso?”
“No, dai. Calmati. Il peggio è passato, o
forse no, magari no, non lo so, comunque prova a indovinare, dai, ti aiuto io!”
“E va bene: è un medico?”
“Quasi, o almeno non solo.”
“È uno psichiatra?”
“Bravo. Sì, purtroppo è un collega e per
giunta ebreo.”
“Non ci avevo pensato.”
“Strano che nessuno di noi, proprio noi due,
non ci abbiamo pensato. Non credi? Questo ha sicuramente una valenza
psicologica notevole ed indicativa che mi voglio studiare perbenino.
E poi, sai, gli psichiatri sono in aumento,
ho letto da qualche parte, specialmente gli psichiatri ebrei. Questa è la dura
realtà, che ci vuoi fare. Che me ne dici? ”
“Te ne dico che tu sei fuori di testa. Dai
retta a me. Anzi, se fossi in te, già che siamo in zona, andrei da Mardocheo
Bramante.
Non credo che ti farebbe male una bella
terapia.
Se vuoi ti accompagno.”
La scena sfuma con i due che camminano
affiancati sul marciapiede, Guerra ogni tanto si ferma e si sbraccia per mimare
qualche scena, Falco lo guarda ogni volta incredulo, ma in maniera
inespressiva.
Albertina
(6 pagine)
Il fatto è veramente successo, tale mio amico
è il veterinario in questione e mi ha raccontato la storia, io ci ho ricamato
un po' su, ma neanche tanto.
QUASI UN ANIMALE
“Non capisco come fa ad aiutarci se parliamo
solo io e Lei, tanto per cominciare. Perché mai ha voluto che lasciassi i miei
due cani a casa?”
“Beh, questa è la prassi, il nostro primo
approccio è un preliminare necessario, nel quale Lei mi dovrebbe dire come la
pensa, sulla vita, la terapia e i Suoi animali.”
“Sssì...
Lo sa cosa diceva a proposito un mio arguto
conoscente e Suo emerito collega?”
“No...”
“Il problema non sono gli animali, ma i loro
padroni.”
“Io non la metterei in questi termini.”
“Ma è quello che pensa, e si vede.”
“Invece no... e poi che diavolo
significherebbe?”
“Che la personalità degli animali è molto
semplice e si capirebbe al volo, se non ci fosse quella dei loro padroni a
complicarvi la vita, a voi e a loro.”
“Se Lei vuole fare le domande e le risposte,
formulare sia i miei pensieri che i suoi, per me va anche bene, ma visto che la
mia presenza diventa dispensabile, io vado a fare un giretto e torno dopo.”
“Molto spiritoso, ma non si sforzi di dire
cose divertenti, non ce n’è bisogno.”
“...”
“Allora, se ho ben capito qui dobbiamo
conversare, assai civilmente, oltre che sulle nostre reciproche personalità,
anche sui dubbi e le riserve che abbiamo, sulla nostra stessa terapia che sta
per cominciare. Dico bene?”
“Ecco, dobbiamo essere franchi e dire quello
che pensiamo a riguardo, tutti e due.”
“Bene. Le dirò subito che io ho una certa
esperienza, in questo tipo di analisi. Perciò ho un’idea che mi sono fatto, in
anni di terapia, per me e le mie due care bestioline.”
“Sì...”
“Lo psicoterapeuta non ha contatti con i suoi
pazienti, al di fuori della sua stanza, è cordiale con tutti se li incontra,
può capitare, saluta e parla, dice frasi gentili e brillanti, ma di repertorio.
Perché il suo distacco professionale funziona
bene se sente anche un po’ d’affetto, ma non troppo, se ha un contatto
sensibile, ma non stretto.
Lo psicoterapeuta è una persona
manipolatrice, nella sua vita privata, perché ha la chiave della verità e la
usa a suo vantaggio...”
“Che cosa c’entra tutto questo?”
“Sto parlando della mia esperienza. Credevo
di avere degli alleati che ogni volta hanno tradito la mia fiducia, non solo la
mia, ma anche quella di due povere piccole creature innocenti.
Non va bene? Non è quello che dovevo dire?
La disturba se Le parlo di queste cose?”
“Oltre il senso di disturbo, che senza dubbio
avverto, direi in crescendo, c’è anche il fatto che credo Lei sia venuto qui
per altri motivi.”
“Per esempio?”
“Andando per esclusione, certamente non per
psicanalizzare me.”
“E se tutto questo aiutasse semplicemente la
mia autostima? Di conseguenza quella dei miei due cani?”
“D’accordo, però pestare la mia autostima non
le servirebbe che a vincere una competizione, alla quale io non ho intenzione
di partecipare, perché diventerei un transfert negativo, a che cosa ci
servirebbe?”
“Bravo! La sua argomentazione è degna di
lode, mi ha convinto. Questo non significa che Lei mi convinca, né come persona
né come professionista. Tutt’altro.”
“Vuole scavare nella mia vita, sezionare la
mia personalità? Pensa che sarà una buona cosa?”
“Alt! Un momento: una buona cosa per chi?”
“Per Lei e i suoi cani.”
“Per me sì, quindi anche per loro, ma non so
ancora se lo sarà per Lei.”
“Per l’amor di Dio! Non siete come una
santissima trinità, perché avete tre personalità distinte e separate, tre ruoli
diversi, nella vostra convivenza.
Io intendevo piuttosto chiederLe se per Lei
potrà essere una buona cosa, partire così da lontano?”
“Certo, io devo avere una completa stima di
Lei, per potermi poi fidare della sua terapia.”
“Va bene, ma sbrighiamoci, abbiamo meno di
un’ora di tempo.”
“Ah, ora è Lei che ha fretta?”
“Non ho nessuna fretta.”
“Allora se questa nostra seduta sarà
insufficiente, (e se lo sarà lo decideremo dopo, noi due insieme,) beh, mal di
poco, la continueremo la prossima volta.”
“D’accordo, ma non dimentichiamoci che siamo
qui per loro, i cani.”
“Questo è vero.”
“Mi vorrebbe dire perché, allora, Lei ha
questi cani?”
“Beh, i cani normalmente sono una terapia a
quattro zampe, sia per i vecchi, che per i malati di mente, che per le persone
normali, o quasi, come me. Perfino per gli psicologi, mi hanno garantito, pensi
un po’ che roba universale!”
“Perché ha detto: normalmente?”
“Ah sì, beh, c’era un mio amico che aveva un
cane con solo tre zampe...”
“Come si chiamava?”
“Tripode.”
“Ma come? C’era nato, con tre zampe?”
“No, prima si chiamava Biancone, per via che
era un pastore maremmano, poi sa, dopo l’incidente...”
“Bella questa storia. I cani sono una terapia
con la coda e tutto, d’accordo, ma secondo Lei, anche parlare dei cani, è già
una terapia?”
“Senza dubbio...”
“Proviamoci. Lei quanti cani ha?”
“Due. Lo sa benissimo. Abbiamo riempito il
formulario insieme.”
“Come si chiamano?”
“Egisto e Pamela. Basta leggere lì sopra.”
“Nomi da persona.”
“Lo vede come è interessante? Lei ha già
capito che io trasferisco su di loro l’affetto che non riesco a dare alle
persone. In
cambio loro mi danno tutto l’affetto che non io riesco a ricevere dalle
persone!”
“Perfetto...”
“Infatti. Con questo non voglio dire che ho
rinunciato a provarci con la gente, non Si creda, ma intanto recupero un po’ di
carenza affettiva, faccio bene?”
“Magari sì.”
“Lei si lasci servire, mi fa troppo
tangibilmente bene e lo vedo ogni giorno che passa.
Ma che ne sa Lei?”
“Tutto e niente.”
“Ma veniamo piuttosto ai due protagonisti,
prima di innervosirci: Egisto è un pastore tedesco, sta perdendo l’uso delle
gambe posteriori, ha tredici anni, ma è ancora un compagno meraviglioso, anche
se caca e piscia dovunque, ormai non si controlla più.”
“Tipico del cane lupo, poveraccio.”
“Infatti, purtroppo.”
“E a Lei sembra triste, per questa sua
menomazione senile?”
“No, anzi, il bello è che il suo morale è
alto come prima, dal punto di vista filosofico i cani ci battono dieci a zero,
se lo lasci dire.”
“In che senso, scusi?”
“In tutti i sensi, loro badano al sodo e non
si piangono addosso, Egisto è contento perché io gli do’ tutte le attenzioni e
non mi arrabbio se sporca, pulisco volentieri, so che lui sarebbe disposto a
dare la vita per me, se fosse necessario e il minimo che posso fare è
retribuire il suo affetto e la sua fedeltà.”
“I rapporti con gli animali sono certo meno
complicati, di quelli con le persone.”
“Bravo! Ed è per merito loro, che sono assai
meno complicati, questi rapporti, non certo per merito nostro. Un uomo non sai
mai come prenderlo, spesso una persona, dentro di sé, non sa se vuole o non
vuole, una certa cosa, una determinata situazione, si fa un copione pronto nel
cervello e finisce per eliminare tutti i rischi, non facendo niente. Povero
illuso. L’animale, invece, diciamo il cane, o vuole o non vuole, non esistono
possibili sfumature. O è sì o è no. Che
bellezza!!”
“E la cagnetta?”
“Pamela? Quella è troppo simpatica, un po’
elettrica, forse perché è giovane, ma veramente affettuosa e piena di energia!”
“E vanno d’accordo?”
“Sì, ma non possono avere rapporti sessuali,
lei è sterilizzata, Egisto è trenta chili più di lei, poi anche per una
questione di misure, di lunghezza delle gambe, non so se mi spiego, ma lui ci
prova lo stesso, lei finge di morderlo, ma nessuno ci rimane male, è la ruota
della vita, un istinto animale e niente più.
Lei non fa finta di avere il mal di testa e
lui non si fa l’amante, anche perché in giardino non ci sono altre opzioni,
però non credo che lei sarebbe gelosa, sa? Si vogliono bene, si leccano sul
muso ogni volta che s’incontrano e vivono insieme ventiquattro ore su
ventiquattro.”
“Quanti anni ha Pamela?”
“Tre.”
“E di che razza è?”
“Pura razza bastarda.”
“Chissà perché, ma mi ero immaginato una
pechinese.”
“Vede il suo mestiere come la rende maligno?
Il pechinese è un tipo di cane che non sopporto, come la gente che ha un
pechinese, si somigliano proprio, delle merdaccine ipocrite.”
“Allora è vero che il cane somiglia al
padrone?”
“È un luogo comune che funziona sempre, uno
stereotipo infallibile, ci avrà fatto caso anche Lei...”
“Ma nel suo, di casi, una bastardina e un
pastore tedesco, cosa hanno in comune? In che cosa tutti e due somiglierebbero
a Lei?”
“Nel fatto che non hanno tanti grilli che
saltano per il cervello, come i pechinesi e i chihuaua, o i pitbull, i
dobermann e via discorrendo.”
“Arguisco che per Lei chi possiede questi
tipi di cani non è una persona normale.”
“A parte il fatto che le persone normali non
esistono e questo me lo avete insegnato voi, (la vostra categoria, voglio
dire,) anche l’uomo comune non esiste, è una semplificazione logica e utile
alle statistiche, ma piuttosto stupida se guardata da un qualsiasi altro punto
di vista.
Ogni animale ha la sua personalità, è ovvio.
E scommetto che Lei ha un pechinese in casa e
un dobermann in giardino, se non un sanguinario pitbull, perché Lei ha fatto
questo mestiere perché voleva subdolamente evitare gli scontri frontali nella
Sua vita da fighettino...
Mi sbaglio?
Mi corregga se sbaglio, La prego.
In garage Lei ha una SUV enorme, nera, coi
vetri scuri, ascolta Beethoven e Marylin Manson correndo per le strade di
S.Paulo , fottendosene se rischia di investire qualcuno a tutta velocità, un
po’ come faceva il colonnello di Apocalipse Now, quando bombardava i villaggi
nella foresta, come minchia si chiamava?”
“Chi, il colonnello?”
“No il regista...”
“Coppola.”
“Francis Ford Coppola!
Ma non ci provi nemmeno a cambiare discorso.
E non mi faccia incazzare piuttosto, Lei, se
lo lasci dire da chi se ne intende, Lei è solo un vermiciattolo strisciante,
dalla voce profonda, a volte, altre volte melliflua e suadente!”
“La prego, si calmi.”
“Ma che cazzo di psichiatra del cazzo! Io
credevo che dovesse saperlo, almeno Lei, che dire a qualcuno di calmarsi è la
frase magica per farlo incazzare moooolto di più!”
“Ma che dovrei fare? Secondo Lei? DirLe di
arrabbiarsi di più? O di continuare così che va bene?”
“Infatti.
Non è difficile.
Vede?
Ora sono calmo.
E se avessi tempo le spiegherei io un po’ di
quella psicologia pratica, quella fuori dai libri, che Lei ne ha un estremo
bisogno e non se ne rende nemmeno conto.
Disgraziatamente, o per fortuna, il nostro
tempo è terminato, quel tempo che si misura coi battiti del cuore, non con
l’orologio, quel tempo che Lei, forse, non conosce ancora.
Arrivederci, o magari piuttosto: addio.”
Ugo
(4 pagine)
Ragazze e ragazzi, non riesco a starvi dietro
e di ciò me ne dispiaccio visto i vari argomenti interessanti.
Nella mia concretezza, l’argomento ristoranti
mi ha attratto. Essendo un abitudinario, se trovo quello giusto raramente lo
tradisco. O, perlomeno, lo faccio rientrare in una ristretta cerchia dalla
quale non esco più. Così come le pietanze. Nei giorni che passavo al salone
nautico di Genova, al ristorante per cena prendevo sempre le solite cose. Ero
famoso per le crespelle, facendomi anche prendere per il culo dai miei colleghi
a causa della mia eccessiva prevedibilità: infatti erano loro che ordinavano
per me e se per caso – un caso mai avvenuto – avessi avuto voglia di qualcos’altro,
loro mi impedivano di uscire dalla mia consuetudine.
Però… c’è sempre un però. Qui in Brasile mi
sto sorprendendo di me stesso. Tempo fa ero in un ristorante a buffet
(abbuffata, come lo chiamo io: il buffet “libero” - ho scoperto che anche in
Italia sta nascendo, con un orribile nome in inglese che non voglio
assolutamente scrivere) e mi trovo davanti una lasagna all’ananas. Alla sua
vista, in italiano ho esclamato ad alta voce “ma che cazzo è??”, attirandomi le
occhiatacce dei presenti, i quali non avranno capito le parole, ma il senso sì,
visto il tono utilizzato.
Ma subito dopo ho pensato di provarle. E non
è che mi piacciono? E pure tanto? L’ho detto ai miei colleghi che mi prendevano
in giro per le crespelle, volendo mostrare il mio cambiamento. Ebbene, ora mi
ci prendono anche per le lasagne! Vabbè, lasciamo stare…
Sulla visione filosofica del mondo e
personale, ho già detto nel mio primo
intervento. Anche se poi tutto si riduce, per me, al fatto che qualsiasi cosa
possa essere considerata da tanti punti di vista. Anche una semplice parola.
Proprio ieri un mio amico operaio di Rio
Grande mi ha domandato come si dicesse in italiano “parafuso”. “Vite”, ho
risposto. Poi però ho sentito il dovere di aggiungere che in un testo italiano
che avrebbe potuto leggere, non sempre “vite” è vite di “parafuso”. Può essere
il plurale di “vita”, “vidas” in portoghese, può essere la pianta che produce
l’uva, “videira” nella lingua locale. Addirittura ha significati matematici e
aeronautici, ma non voglio addentrarmi troppo nei meandri del vocabolario
italiano: insomma, se “vite” ha tanti sensi, figuriamoci quanti sono i sensi
che ha la vita. Oiboh, mi sa che mi sono avvitato.
No, queste cose filosofiche ve le lascio a
voi.
Un mio collaboratore, toscano di esportazione,
mi ha regalato questo raccontino in tema a certe cose misteriose che vi garbano
tanto.
C’ERA UNA VOLTA IN ITALIA
“Don Aldo, il parroco di S.Martino in
Discesa, aveva sposato mio padre, nel senso che aveva celebrato la cerimonia in
chiesa.
Dovevo aver sei o sette anni quando ce ne
andammo per una settimana in montagna, al Lago Santo e alloggiammo tutti e tre
nella stessa camera del rifugio Marchetti.
La stanza era la più grande del rifugio e
aveva un lato che si abbassava fino al pavimento seguendo il tetto, c’era
perfino un grande terrazzo con una vista stupenda sul lago, attraverso gli
enormi alberi.
La sera, la lotta sul letto con don Aldo era
una tappa obbligata, prima di dormire, era lui che mi saltava addosso quando
meno me lo aspettavo urlando:
Canaglia!
Me la pagherai! Una frase presa in qualche film di cowboy.”
Ridono.
Lutero sta navigando a gonfie vele nel
passato, alle sue spalle lo psichiatra guarda il grande orologio a colonna.
“Spesso la sera ci sedevamo a chiacchierare
su una grossa roccia bianca, spaccata in due dal crescere di un faggio, sulla
riva del lago, davanti al nostro rifugio.
La pace era tanta che mio padre, normalmente
di malumore e brusco nei modi, diventava assai più piacevole.”
“Deve essere proprio un bel posto.”
“Ah sì, una sciccheria della natura. Anche
perché d’estate, col caldo infernale che c’è in pianura, lassù è proprio un
paradiso freschissimo, in mezzo alle nuvolette bianche.”
“E che facevate tutto il giorno?”
“Passeggiate e camminate, fermandoci per
ammirare la bellezza dei paesaggi e riposarci, quei due avevano imparato a far
le due cose contemporaneamente, pensi un po’. Io non ne avevo bisogno, saltavo
come un grillo, quando loro si fermavano facevo perlustrazioni intorno alla
base.
Insomma, si faceva quello che si fa di solito
in montagna, al mare uno si sdraia e lascia muovere le onde, ma in montagna si
cammina.
Si parlava tanto, ma si stava anche
piacevolmente in silenzio ad ascoltare la brezza tra i faggi, a guardare le
nuvole che si specchiavano e si rincorrevano sulle acque increspate.
E poi il lago era pieno di trote, ma non si
poteva pescare.
Cercavamo di fare escursioni che avevano come
meta tutti i posti più notevoli che ci dicevano gli altri turisti e gli
abitanti del posto, che poi erano quelli che lavoravano nei tre rifugi del
lago, che non abitavano lì, ma non troppo lontano.
D’inverno lì non ci stava nessuno, era tutto
coperto dal ghiaccio e dalla neve.
Sa come era il frigorifero del rifugio?
Un mucchio di neve nel bosco lì vicino,
coperto di foglie, in una radura dove non batteva mai il sole.”
Ridono.
“E don Aldo faceva finta di non essere un
prete?”
“Infatti, se ne approfittava che non lo
conosceva nessuno, ma la domenica celebrammo anche una messa all’aperto,
davanti alla cappella del lago, cioè io ero il chierichetto e tutti e due in
borghese, senza alcuna uniforme sacra.
Era una bellissima mattinata di agosto e la
gente si commosse delle sue parole di gratitudine all’ipotetico creatore, del
suggerimento che dava di pensare più a quello che aveva e meno a quello che gli
mancava.
Mi commossi anch’io, Le confesso e persino
mio padre.
Noi due non abbiamo mai praticato la
religione, né veramente creduto in un eventuale Dio qualsiasi.
L’abbiamo sempre vista come una cosa falsa,
prefabbricata a misura d’uomo, con le debite eccezioni che sono quelle che sto
raccontando, in un certo senso.”
“E sua madre?”
“Mia madre no, lei andava alla messa ogni
domenica, ci va ancora e ha più di novant’anni.”
Nicola guarda l’antica pendola, per la
seconda volta e pensa che deve passare in banca, appena può. Lutero riprende a
raccontare:
“Don Aldo, durante i giorni feriali, al Lago
Santo, andava in giro addirittura con dei pantoloni corti blu e una maglietta
polo nera, aveva due gambette bianche e pelose che non dovevano avere visto il
sole fin da quando era bambino. Ci parve che contrastassero assai con la faccia
scura che c’era sopra, tanto che a S.Martino in Discesa lo chiamavano il
Castagnaccio, non so se lei lo conosce, ma è una cosa fatta di castagne e
marrone scuro.
L’ometto in questione fumava anche e
parecchio, aveva le due dita che abitualmente giostravano la sigaretta,
completamente ingiallite.”
“Una volta mi ha detto che anche sua madre
era una montanara...”
“Scherzavo, Modogno è in una larga valle che
porta alla montagna, alle cosiddette Alpi Apuane, che poi invece sono sugli
Appennini, ma credo che sia a poche centinaia di metri al livello del mare. Più
che altro la loro parlata è caratteristica e la gente di pianura la riconosce
subito e chi parla così è considerato un montanaro, non ci sarebbe niente di
male, ma i Garfagnini sono considerati persone rozze, specialmente da chi non
li conosce.”
“Ma quel lago lassù, che nome strano, perché
si chiama Santo?”
“Mah, non mi ricordo, anche perché ero troppo
piccolo, ma credo che ci sia stato un miracolo, lassù.”
“Curioso.”
“Beh, mi ha messo proprio una pulce
all’orecchio, credo che mi dovrò informare.”
Il giovedì seguente Lutero arriva sventolando
un foglio stampato.
“Lei dottore crede ai miracoli?”
“Assolutamente no. E lei?”
“Neanch’io, comunque prima facciamo la nostra
brava terapia e dopo, nella sua pausa delle ore 16, al bar, ci beviamo un
cappuccino, ci mangiamo una pastarella o due e ci leggiamo questo foglio, che
ne dice?”
“D’accordo.”
L’ora di psichiatria pratica e avanzata passa
rapidamente per Lutero, che conosce già il segreto e assai lentamente per
Nicola, che si era dimenticato di quella storia, ma ora era diventato assai
curioso.
Scesi al bar sottostante, i due si siedono,
come hanno fatto altre volte, come vecchi amici.
“Questa è la storia del nome del lago, mi
pare curiosa, come minimo, gliela leggo?” Chiede Lutero.
“No, mi dia il foglio, se non Le dispiace, la
leggo da solo, che faccio prima.”
Lo psichiatra rimane assorto per un minuto o
poco più nella lettura.
Nel bar entrano ed escono varie persone, c’è
il rumore del traffico, la televisione accesa che trasmette il telegiornale.
Il suo volto è cambiato, quando ha finito, o
almeno a Lutero sembra così, gli pare anche che gli occhi gli siano diventati
lucidi.
Se ne rimangono un po’ zitti, finché Nicola
dice:
“Lo sa Lei che io ho interrotto il
seminario?”
“No, questo non lo sapevo, Le posso chiedere
perché?”
“Vuole sapere perché l’ho interrotto, o
perché avevo scelto di incominciare?”
“Tutt’e due le cose, ma solo se ne avesse
voglia.”
“Le basti questo, io credevo ai miracoli,
quando ho smesso di crederci, sono diventato razionale e sono uscito dal
seminario.”
“Le posso chiedere come è successo?”
“Chi è qui il paziente e chi sarebbe lo
psichiatra?”
“Beh, se non ne vuole parlare...”
Un altro silenzio, in mezzo ai rumori
circostanti.
“Sono nato in montagna, la mia vita era in
mezzo ai fenomeni della natura, il tempo per me erano il sole e la luna, il
temporale, la nevicata, il rigoglio della natura a primavera, il calore
dell’estate, lo spogliarsi degli alberi in autunno, il rigore severo
dell’inverno... non sono tutti dei miracoli?
Sceso a valle, ho avuto ben presto bisogno di
cambiare, mi prendevano in giro, la mia personalità pareva troppo ingenua ai
loro occhi...”
“Ma ora Lei capisce che invece gli ingenui
erano loro, che siamo ingenui noi tutti, ora, a vivere in questa maniera.”
“Vede, io credo molto nella prospettiva del
domani, oggi posso anche stare male, ma se credo nel domani, tutto cammina e si
muove nel senso giusto.
Però se un uomo si sente impotente, se pensa
ogni giorno di più di non poter migliorare la sua vita, il suo domani perde
completamente senso...
Il mondo intero si sta allontanando dalla
natura, il mondo intero sta sbagliando, ma come si fa a fermare il mondo?”
“E se il senso della vita fosse attraversare
ogni prova e cercare di vivere, per il tempo che abbiamo, nella miglior maniera
possibile? Star bene noi e far star bene chi ci è vicino?”
“Bravo, cerco di pensare così anch’io, ma non
sempre ci riesco. Onestamente non so se sto ingannando me stesso, proprio come
fanno tutti gli altri.”
Dopo una pausa di qualche attimo, Nicola
chiede:
“E poi caro Lutero, visto che siamo in vena
di confidenze reciproche, non ho capito perché lei viene qui da me, mi piace
parlare con Lei, ma qui si tratta di qualcos’altro. Lei sta meglio di me, la
sua mente è un orologio svizzero: spacca il millesimo.”
“Beh, essere paragonata a un orologio, anche
se svizzero, non piacerà molto alla mia mente, che però sapeva che dovevamo
arrivare a questo punto e si è preparata.
Anche a me piace parlare con Lei... e questa
è una cosa rara e preziosa.
Non conosco nessuno che mi ascolti e con cui
io abbia questo piacere di conversare, non m’importa se Lei lo fa per denaro, o
per il piacere di aiutare qualcuno, l’importante è che la conversazione sia
piacevole e di contenuto. Mi pare che lo sia.
Le medicine che mi da’ mi tranquillizzano.
Per me Lei è un amico, purtroppo di quelli
gratis non ce ne ho più.
Per come si sono messe le cose, nella vita
moderna, il miracolo della montagna è quello che dobbiamo fare, dentro di noi,
ogni giorno: cioè trovargli un significato, che già non è facile e poi magari
seguirlo.”
Gundel
(15 pagine)
Racconto strano, pare frutto di una mente
maschile, ma è stato scritto da mia cugina Gisy. Mi pare che faccia intendere
certe cose, di come va il mondo, pure di come sono i terapeuti e di come tutto
e tutti possono ingannarti, prima ingannando anche sé stessi. Ti fregano anche
se sei intelligente e conosci le persone. Non è mai abbastanza.
LO VEDI COME SONO?
Non ho mai dato importanza eccessiva ai
luoghi comuni, si rivelano spesso una semplicistica e perciò incompleta
esemplificazione dell’essere umano, il quale è molto più complesso di quel che
sembra.
Però è un dato di fatto che una femmina
giovane, intelligente, simpatica, sensibile e bellissima non l’avevo mai
conosciuta.
Non credevo possibile che tutte queste
qualità potessero albergare in un’unica persona di sesso femminile, ovviamente
anche in qualsiasi ipotetico corrispondente - e per me assai meno interessante
- caso maschile.
Insomma, come diceva il saggio fraticello di
Landshut, Hans Krankl: “La natura è giusta, se da una parte mette,
automaticamente, da quell’altra, vediamo che toglie.”
O almeno approssimativamente così si sarebbe
dovuta comportare, l’eccezione mi arrivò per posta elettronica, però.
Quando mi scrisse il suo e-mail di contatto,
il suo portoghese mi sembrò così confuso e sgrammaticato che pensai che fosse
assai limitata.
Il che non era sempre un difetto, dal punto
di vista del mio complesso mestiere, dato che la gente più problematica era
proprio quella più intelligente.
Quando me la trovai davanti, però, di colpo
mi si asciugò la saliva e non riuscii a spiccicar parola.
Non era solo bellissima, ma una spontanea
esplosione di primavera e sensualità, in una combinazione dai capelli dorati e
dalle folli labbra pitturate da un giovane Caravaggio innamorato delle
meraviglie della natura.
In più, già dai primi minuti della prima
sessione, venne fuori che Kerstin era una fanciulla che si abbandonava assai
spensieratamente ai piaceri del corpo e che il suo era un corpo che a parole io
non avrei mai saputo abbracciare. Ciliegina sulla dolcissima torta una faccetta
birichina proprio da lasciar perdere.
Particolari che mi disturbarono in maniera
positiva, se così posso dire, giacché affiancati da quel sorriso aperto e
invitante, per cui di schianto mi sentii, forse anche giustificatamente,
bloccato dal punto di vista professionale e molto stimolato, allo stesso tempo,
da un punto di vista basso e volgare, ma piuttosto forte.
Indirettamente arguii dal suo pieno vigore
fisico, che la sua esperienza da tossicodipendente era stata rapida, ma molto
intensa per lei, da un punto di vista psicologico, in seguito me lo confermò
lei stessa.
Come pur immediatamente compresi che, per
quanto difficile, avrei dovuto fare particolare attenzione a non rovinarmi la
reputazione e la carriera.
C’era da notare pur’anche che Kerstin aveva
cominciato a studiare psicologia, due anni prima, proprio quando era caduta
nella trappola della droga.
Magari aveva scelto quella facoltà per
spiegarsi meglio tutto quello che succedeva nel suo cervello, ma anche in
quello degli altri, pur non avendone un effettivo bisogno, come invece era
capitato a me.
La mia vita sessuale e pur’anche quella
privata, posso dire che non erano proprio esistite, almeno fino a quel giorno.
E ora era arrivata lei, meravigliosa
creatura, che non si dava delle arie, come avrebbe potuto fare, che mi sorrideva,
rideva di gusto ed erano due cose che sapeva fare bene assai.
Poi le usciva quel suono melodioso dalla
bocca, né troppo alto né troppo basso, che interpretava alla perfezione i miei
gusti, in fatto di voce femminile.
Di solito le donne troppo belle sono
condannate a non guardare mai in faccia la gente, perché hanno paura di essere
fraintese.
Non sviluppano la loro potenziale
intelligenza, perché tutto gli viene dato, senza che si debbano sforzare.
Vedono e sentono il loro immenso potere nelle
manifestazioni degli altri, non solo negli uomini ma anche nelle altre donne,
invidiose, sì, ma involontariamente pure rispettose.
Nel centro di recupero per tossicodipendenti
poi era entrata la Scientologia a fargli della confusione in testa e non ce ne
sarebbe stato alcun bisogno.
Secondo lei era ovvio che chi era più forte
si prendesse tutto quello che voleva, come diceva Hubbard stesso, anche se poi
nessuno avrebbe voluto fare la parte del più debole, ma a qualcuno toccava pur
esserlo, anzi: i deboli erano molto più numerosi dei forti.
Cercai di fargli notare che quello era pure
il principio della prepotenza, che può sembrare anche efficace, osservato dal
loro punto di vista, almeno finché non trovano qualcuno più prepotente e magari
anche più forte.
Non che lei credesse fermamente nella
Scientologia e/o nella Dianetica, ma la sua mente era molto volubile e aveva
difficoltà a soffermarsi sulle cose teoriche, che proprio per questo
l’affascinavano parecchio.
Forse perché le parevano inafferrabili,
poderosi punti fermi intorno ai quali la sua mente volteggiava, su e giù, qua e
là.
Come una farfalla variopinta nel suo vestito
corto e scollato, dal tessuto morbido che non faceva pieghe, incredibilmente
impalpabile, ma piuttosto poco trasparente.
Allora la invitai a riflettere sul
ragionamento che teoria e pratica non solo sono sempre legate, ma che la
pratica dovrebbe essere conseguenza della teoria, pur se possono alternarsi e
influire l’una sull’altra, di solito il raziocinio stimola l’azione
conseguente, sulla base delle conclusioni pensate in precedenza.
Fin qui niente di strano, lei era pienamente
d’accordo, anche se io affermavo il contrario di quel che diceva lei.
Disse che le pareti della mia sala, di quel
color porpora scuro, la facevano rabbrividire, ma non capii se era un
complimento o no.
Approvò entusiasticamente le mie poltrone di
pelle nera e che io non preferissi il famoso divano, per i pazienti.
No, no e poi no: ci si doveva guardare in
faccia, era molto meglio!
Kerstin faceva dei lineari e perfetti ragionamenti
logici, sensati e assai ben lubrificati e funzionanti nel loro meccanismo, ma
raramente li legava tra di loro.
Trovava più rapido e quindi più pratico usare
la sua bellezza contro di me e gli altri, indirettamente contro sé stessa,
nella sua affabile invasione dei territori altrui, nel nostro - appena nato -
rapporto tra paziente e terapeuta.
Per quanto cercassi di controllarmi, quello
che vedevo e sentivo mi faceva bollire il sangue e cercavo di pensare ad altro,
inutilmente.
Di solito usavo un riassunto sintetico della
Teoria Pratica Freudiana, la so a memoria e me la ripeto mentalmente, solo per
distrarmi, per ottenere il distacco necessario. In pratica diventavo ancora più
imbranato e la mia fuga dal presente non mi portava né al passato né al futuro.
Ho sempre avuto un talento per fuggire dal
presente, per me esistono solo gli altri tempi. Lo sdoppiamento, il triplicare
o perfino il quadruplicare delle mie attività mentali e fisiche, mi ha sempre
consentito di aumentare il ritmo delle cose e allo stesso tempo di realizzarle
tutte malamente. Non a caso me ne rendo conto solo ora, un bel po' di tempo
dopo.
Per forzare la barriera costituita dalla
rimozione ed accedere all’inconscio, ricostruendo il passato rimosso e curare i
disturbi la via di accesso è data da una cura con le parole, che analizza i
sogni e usa il metodo delle libere associazioni.
Al paziente, posto in uno stato di
rilassamento, si chiede di dire tutto quello che gli passa per la testa, senza
scrupoli di ordine religioso, morale, sociale, e senza omettere nulla.
Lo scopo è quello di eliminare il più
possibile le resistenze, quelle selezioni più o meno volontarie dei propri
pensieri che sono messe in atto dal paziente.
A volte però il fluire delle parole può avere
un blocco improvviso, quando sta per emergere qualcosa che è stato rimosso.
Compito dell’analisi è ricostruire ciò che
non va e scoprirne le cause per riequilibrare le forze psichiche in conflitto.
Kerstin cominciò da sola con le libere
associazioni, che era proprio quello che le avrei proposto, ma avrei voluto
anche essere io a suggerirlo.
Mentre quello che m’inchiodava alla poltrona,
era la sua finta ingenuità, che poi poteva anche essere vera, che ne sapevo io?
Quell’innocenza che faceva del suo modo di
parlare e dei suoi gesti un qualcosa che inspiegabilmente, eppur assai
logicamente, mi trasformava in un perfetto imbecille, più mi sforzavo di
apparire calmo e saggio e peggio era.
Per spiegare i fenomeni psichici bisogna
tenere conto della distinzione tra un livello conscio ed un livello inconscio
ed attribuire a quest’ultimo un’azione causale sul primo.
Le motivazioni del comportamento umano, sia
normale che patologico, hanno la loro collocazione nelle profondità
dell’inconscio.
La psiche è una realtà complessa che viene
divisa da Freud in tre zone: il conscio, il preconscio e l’inconscio.
L’inconscio è una forza attiva, dotata di
proprie finalità e operante con una propria logica, diversa dalla logica della
vita cosciente.
Esso comprende gli elementi psichici che sono
mantenuti nell'inconscio grazie alla forza della rimozione, meccanismo di
difesa psichico che rimuove dalla coscienza le nostre esperienze e i nostri
pensieri spiacevoli, che provocherebbero angoscia se affiorassero alla
coscienza.
Il preconscio comprende l’insieme dei
ricordi, rappresentazioni, desideri, insomma dei fattori psichici che, pur
essendo momentaneamente inconsci, possono, in virtù di un piccolo sforzo,
diventare consci.
Il conscio si identifica con la nostra
coscienza, con la nostra attività diurna e consapevole; è fluida perché non
siamo sempre perfettamente consapevoli di ciò che facciamo e vogliamo e di ciò
che ci accade intorno.
Tutti questi noiosissimi consci, a giro
dentro di me, si erano trasformati in un paio di cosce, le sue, che mi parevano
molto più interessanti e ben tornite.
Da qualche tempo avevo imparato che per
resistere, cioè per non comportarmi troppo istintivamente, in alcune
determinate ma non rare occasioni, dovevo distrarmi con altre cose e fare la
faccia assorbita di chi ascoltava attentamente, a volte chiudevo anche gli
occhi per concentrarmi meglio.
Il che non è proprio considerato eticamente
valido, e forse anche per questo magari non mi riusciva bene, non lo so.
In quel momento però mi parve strano che lei
commentasse come se avesse sentito quello che invece avevo solo recitato dentro
di me:
“Si figuri che io faccio sempre confusione
tra l’inconscio e il preconscio. Che scema!”
Lo disse accavallando quelle cosce forse
anche inconscie - ma era ancora da dimostrarsi - in una maniera che pareva
proprio naturale, eppure studiata nei dettagli, per stuzzicare in maniera
irresistibile i miei punti più reconditi e sensibili, di una sessualità
precedentemente repressa, ora però lanciata al galoppo.
Il tutto accompagnato da uno sguardo tra
l’innocente e il malizioso... al che persi per qualche secondo ogni cognizione
cognitiva, a riguardo e non.
Cominciai a tossire come un cagnone col
cimurro, diventai leggermente paonazzo, poi cianotico, ma feci disperatamente
ancora finta di niente e riuscii a balbettare in maniera quasi disinvolta che
poteva continuare con le libere associazioni, che io stavo bene assai, mai
stato meglio.
Mi recuperai alla svelta o almeno lo speravo,
con una serie di ovvietà a sproposito che biasciacai con noncuranza e che lei
mi parve bersi con estrema naturalezza e fiducia.
In seguito, nell’impetuoso torrente delle sue
numerose e forti, ma pur sempre libere associazioni, compresi che più che
ascoltarmi e sorbirsi le mie panzane, pensava ad altro e questo se da una parte
mi faceva arrabbiare, dall’altra mi tranquillizzava.
In particolare, il preconscio le riusciva
difficile da capire, mi disse, cosa che anch’io, a suo tempo, avevo avuto
bisogno di un decennio o giù di lì, non glielo dissi ma mi uscì fuori - forse -
un’aria di stolta superiorità che la divertì parecchio.
Insomma, per Kerstin era come una parte della
nostra mente che c’era e non c’era, per esempio: quando interveniva e quando
invece se ne stava comodamente in disparte?
Bella domanda.
Cercai di esemplificarglielo con dei casi
pratici, ma quando lei mi guardava troppo intensamente, mentre parlavo di cose
di cui entrambi sapevamo che io non avevo la più pallida idea, non trovavo di
meglio che recitare, dentro di me, quello che era come il mio Vangelo, giacché,
in un certo senso, pregavo una qualsiasi entità superiore – fosse esistente,
nascosta o solo virtuale – che mi potesse dare la forza di comportarmi se
non professionalmente, o anche solo saggiamente, almeno decentemente.
Quel violento conflitto che sentivo dentro di
me, lei non sembrava notarlo per niente, oppure mi stava ingannando ancora.
Però fu chiaro quasi subito che il mio
comportamento assai poco professionale e piuttosto sull’imbranato andante,
misteriosamente, a lei piaceva.
“Mi sento già meglio.
È in-cre-di-bi-le!
La mia amica aveva proprio ragione, mi aveva
detto che Lei era un fottutissimo portento vivente.”
Non riuscivo a capire, ma mi sentivo
incoraggiato a farla continuare a parlare, trottando a cavallo delle sue
associazioni che diventavano sempre più libere e disinvolte.
Mi venne in mente anche che mostrarmi
imbranato la facesse stare bene, perché si sentiva più sicura di se stessa, in
quel modo.
Magari lei pensava che lo facessi per una mia
efficace, personale e geniale tattica.
Secondo Freud tra l’analista e il paziente si
instaura una relazione affettiva chiamata transfert: sull’analista vengono
proiettati stati d’animo ambivalenti di amore e di odio provati dal paziente.
Grazie al transfert, il "nevrotico"
è indotto gradualmente ad abbandonare le sue resistenze, ossia tutto quello che
nei suoi discorsi e nei suoi atti gli impediva di accedere a quei conflitti
psichici di cui non era conscio ma che producevano la sua nevrosi.
Ci rimasi troppo di sasso, però, quando
disse, a commentare le mie parole pensate e mai dette:
“Non è malaccio il Suo Transfert, lo sa? Me
lo immagino con i baffi e il pizzetto, lo sento molto vicino a me, sia
fisicamente che spiritualmente.
Comunque non credo di essere nevrotica, per
quel che c’ho capito, poi io di resistenze non ne ho nessuna, mi pare... anzi:
questo è forse il mio problema più grande.”
Le sue rappresentazioni di astuzia ingenua e
di prepotenza gentile cominciavano a piacermi eccessivamente, anche per i miei
stessi gusti.
Sudavo e mi detergevo con una salvietta
speciale, di quelle che distribuiscono ai passeggeri sugli aerei, che
all’inizio era candida, umida e profumata.
Ora invece marroncina, fradicia e puzzolente.
Il sogno rappresenta la via regia che porta
alla conoscenza dell’inconscio nella vita psichica.
Durante il sonno la censura, che durante il
giorno era stata particolarmente attiva e non aveva permesso la manifestazione
di quei contenuti psichici ritenuti inaccettabili per motivi morali o
patologici, è indebolita: l’inconscio, con i suoi desideri rimossi, preme con
maggiore intensità e produce tensioni.
Continuavo a ripetere la vecchia lezione
dell’università dentro di me, come se fosse un’orazione, in maniera del tutto
automatica e mentre lo facevo pensavo anche altre cose limitrofe e non,
ascoltavo quel che mi diceva lei e bevevo bottigliette su bottigliette di
minerale gassata, cercando anche di ruttare più sommessamente possibile.
Mi era venuto fuori sempre più insistente,
pur senza uscirsene dal mio cervello, anche il pensiero “che le donne belle
come lei, avendo il potere di irretire gli uomini imbranati, (come stava
facendo con me, che da quando l’avevo vista non avevo capito più niente,) non
sentivano il bisogno di comprendere veramente il mondo, perché ottenevano tutto
quello che volevano senza sforzarsi di pensare troppo”.
Però questo suo venire da me, per curarsi la
mente ferita dalla droga e dall’insensibilità volgare del mondo occidentale,
era notevole ed interessante. Ragazzi: il suo voler capire il vero perché delle
cose, le faceva veramente onore.
Ma perché era venuta proprio da me?
Il sogno, presentando all’immaginazione come
realizzati quei desideri inconsci, rende possibile lo scaricarsi della
tensione.
In questo senso il sogno è definito
l’appagamento di un desiderio.
Tale realizzazione avviene attraverso
mascheramenti e deformazioni operati dalla censura (=meccanismo che blocca la
realizzazione dei desideri), la quale, si ricordi, pur affievolita, non è mai
del tutto scomparsa.
Lo scopo di queste deformazioni o stranezze è
quello di rendere accettabile alla coscienza i contenuti rimossi. In ciò consiste il lavoro onirico.
Ogni sogno ha un contenuto manifesto, che è
quello che viene ricordato al risveglio (il racconto che possiamo fare del
sogno); ed un contenuto latente, nascosto, che rappresenta il vero significato
del sogno.
La logica dei sogni è del tutto autonoma
rispetto alle solite categorie spazio-temporali della vita cosciente.
Per interpretare correttamente un sogno,
Freud ha scoperto cinque regole: la condensazione (cioè la tendenza ad
esprimere in un unico elemento più elementi collegati tra loro); lo spostamento
(che consiste nel trasferimento di interesse da una rappresentazione ad
un’altra); la drammatizzazione o alterazione di situazioni; la rappresentazione
per opposto, in cui un elemento può significare il suo opposto; la
simbolizzazione, in cui un elemento sta al posto di un altro.
Tenendo dunque conto di tutte queste regole,
l’analisi può arrivare a decifrare il sogno, e ciò è particolarmente utile nel
caso di pazienti nevrotici.
“Ho sognato di conoscerla fin dal momento in
cui una mia conoscente, della quale non posso proprio dirle il nome, perché
anche Lei la conosce, mi mostrò un filmato di un suo discorso all’università di
Heidelberg, in cui parlava del sonno e del sogno negli esseri umani della
società globalizzata del terzo millennio.”
Effettivamente con il vestito blu, la camicia
bianca e la cravatta bordeaux mi avevano detto tutti che facevo una certa
impressione, non necessariamente positiva, ma ragguardevole, in ogni maniera.
Forse il contrasto studiato tra la mia barba
incolta e i capelli a cespuglio, sopra, più sotto il completo scuro e sobrio,
chi lo sa, anche gli occhi spiritati...
Però a questo punto la mia mente uscì per un
attimo dalla salamoia e arguì al volo due cose ben distinte: primo che in
qualche modo leggeva il mio pensiero, giacché si agganciava a quel che pensavo
e commentava di conseguenza; secondo che la situazione stava precipitando
vorticosamente e dovevo assolutamente prenderne il controllo, per salvare me
stesso e la mia laterale reputazione di stimato professionista del lavaggio
legalizzato della psiche.
Ma non sapevo ancora come.
Alla base dei fenomeni psichici vi è il
principio del piacere che ha la funzione di evitare il dispiacere e la
sofferenza scaricando le varie tensioni e ristabilendo uno stato di equilibrio
mediante l’appagamento dei desideri, soprattutto grazie a soddisfazioni
sostitutive rispetto a quelle reali.
“Chi decide cosa è reale o no siamo noi e
solo noi, lo dice lo stesso Hubbard, se una cosa ci piace, dobbiamo prendercela
e alla svelta, sennò qualcuno lo farà al nostro posto, non è vero?”
Questa situazione genera inevitabilmente
disillusione; da ciò viene a costituirsi e ad operare un secondo principio, il
principio di realtà, che cerca il soddisfacimento in relazione alle condizioni
imposte dalla realtà anche se spiacevole.
Il principio del piacere tende ad ottenere
tutto immediatamente, mentre il principio di realtà può differire la soddisfazione
in vista di una meta possibile, ritenuta più sicura e meno illusoria.
La sublimazione consiste nel reagire
positivamente ad una situazione spiacevole, in modo da ottenere un
soddisfacimento anche se diverso da quello desiderato.
“Si fa presto a parlare di sublimazione, ma
vaffanculo alle teorie, bisognerebbe saper interpretare i fottutissimi fatti
correttamente, prima di tutto... e qui la gente ha molta più difficoltà. Si
figuri, mi succede spesso anche a me.”
A questo punto capii che non c’era alcun
bisogno che io parlassi, bastava che pensassi e lei ascoltava tutto quello che
non avevo detto e lo discutevamo insieme, per così dire.
Freud, accanto alle pulsioni sessuali,
chiamate Eros, riconosce l’esistenza di una pulsione di morte, Thanatos, ossia
di una tendenza distruttiva inerente alla vita stessa.
Quando le pulsioni distruttive o di morte
sono rivolte verso l'interno della persona, esse tendono all’autodistruzione,
quando sono rivolte verso l’esterno assumono la forma di pulsioni di aggressione
e di distruzione.
“Noi donne siamo tutte un po’ streghe, non se
ne sorprenda, è Lei che mi stupisce, a dir la verità, che col suo cazzo di
mestiere avrebbe dovuto già saperlo a memoria.”
Probabilmente qui diventai rosso e lei mi
sorrise alla sua maniera, senza troppa intenzione manifesta, ma con grazia.
Quelle sue parolacce appena dette invece di
offendermi mi eccitavano.
Sudavo come una porchetta allo spiedo sulla
brace rovente, in più dovevo anche far finta di niente, ma lei sapeva benissimo
cosa stava succedendo e mi stava cucinando a puntino.
Nella realtà psichica, le pulsioni si
presentano spesso come ambivalenti, caratterizzate cioè dalla compresenza dei
due principi di vita e di morte; anche la sessualità può presentare tale
ambivalenza sotto forma di amore e di aggressività.
“Lo so che tanta gente pensa che dentro la
mia spensierata gentilezza si celi una certa aggressività, che parlo in maniera
sboccata, a volte, ma io sono completamente naturale e la Scientologia non ha
fatto che confermare e giustificare tendenze che io avevo dentro di me da
sempre.”
Freud individua tre istanze dell’apparato
psichico che chiama Io, Es e Super Io.
L’Es è il serbatoio dell’energia psichica,
l’insieme delle espressioni dinamiche inconsce delle pulsioni, le quali sono in
parte ereditarie ed innate e in parte rimosse e acquisite.
L’Es è retto dal principio del piacere.
L'Io è retto dal principio di realtà e deve
mediare tra le richieste pressanti dell’Es e quelle del Super Io (la “coscienza
morale”, che si forma in seguito all’educazione e all’ambiente in cui si vive,
e nasce al termine del complesso edipico).
Il Super Io agisce come giudice e censore nei
confronti dell’Io (la percezione inconscia delle critiche del Super Io si
esprime nel senso di colpa).
“L’Es è la mia parte
preferita, inutile dirlo, quello che conta è il piacere e il resto è
conseguenza, se così posso esprimermi. Le altre parti, in me ci sono, ma non si
manifestano che piuttosto raramente, direi.”
E qui aveva maledettamente ragione.
Freud non restringe la sessualità alla
genitalità bensì la intende come la ricerca del piacere corporeo, che è
presente in tutte le età della vita.
La sessualità è finalizzata alla ricerca del
piacere.
Il bambino è un essere che vive una sua vita
sessuale completa; è definito un essere perverso polimorfo perché ricerca forme
di godimento indipendentemente dal fine riproduttivo della sessualità e ricerca
il piacere attraverso i vari organi corporei (polimorfismo), nelle diverse zone
erogene (parti del corpo che sono fonti di piacere).
L’entrata della parola sessualità, che tante
altre volte avevo non solo pensato, ma anche detto e senza problemi, in
presenza di pazienti di ogni tipo, provocò a sorpresa la mia erezione e lei se
ne accorse, perché sorrise e guardò lì in basso.
Freud distingue nello sviluppo della
sessualità delle fasi, ognuna delle quali è caratterizzata dall’organo che vi è
privilegiato nella ricerca del piacere.
Le fasi dello sviluppo psicosessuale sono
cinque:
La prima è la fase orale, che va dalla
nascita ai due anni circa ed in essa la libido (l’energia sessuale) si
concentra nella bocca (la bocca è la prima zona erogena): il bambino prova
piacere portando qualunque cosa alla bocca, dal seno della mamma agli oggetti
che trova a parti del proprio corpo (dito, piede ecc.).
Tale modo di fare è anche il suo primo modo
di conoscere il mondo: in altri termini, portando qualcosa alla bocca il
bambino comincia a capire che cos’è e lo distingue da altre cose.
La seconda fase è chiamata fase anale, va dai
due ai quattro anni circa, e durante essa il bambino prova piacere nel
trattenere e nel rilasciare gli sfinteri anali: è collegata agli inviti materni
o famigliari ad espellere o a ritenere le feci ("l’educazione al
vasino"), che assumono quindi carattere ambivalente, buono e cattivo al
tempo stesso.
È anche il periodo del no, in cui il bambino
inizia ad essere autonomo e vuole appropriarsi sempre di più della sua
raggiunta autonomia.
La terza fase è ancora più importante e viene
chiamata fase fallica (dai quattro ai sei anni circa) perché indica la scoperta
del proprio organo genitale e la sua diversità da quello dalla sorellina o dal
fratellino.
In questa fase vi è la paura da parte del
maschietto di perdere il proprio organo (complesso di castrazione: poiché il
maschietto ha qualcosa più visibile, crede che la bambina sia stata punita col
taglio del suo organo sessuale e teme anche lui di fare la stessa fine).
Ora Kerstin parlava tranquillamente e con
dovizia di particolari di quando era bambina e delle prime volte che aveva
sentito il cosiddetto richiamo della foresta.
Se per calmarmi la mia orazione
parlava delle stesse cose, per una fottuta coincidenza, certo in qualche modo
molto poco casuale, questa serie di termini sessuali e fottutamente sensuali mi
fece perdere ulteriormente il controllo delle cose, se ce ne fosse stato
bisogno e non ce n’era proprio nessuno.
Durante questa fase nasce il complesso
d’Edipo, che indica la normale crisi emotiva, a livello di fantasie più o meno
inconsce, provocata dai desideri sessuali del maschietto verso la madre e la
gelosia nei confronti del padre; analogamente succede nella bambina (il bambino
vuole sposare la mamma e la bambina vuole avere un figlio dal papà).
Questo periodo è superato in genere col
processo di identificazione nel genitore del proprio sesso, che è un processo
importantissimo: visto che il bambino si rende conto di non potere sposare la
mamma, allora impara ad assumere i vari atteggiamenti tipici del maschio adulto
nella società in cui vive, identificandosi nella figura del padre; analogamente
succede con la bambina, che imparerà a diventare una "piccola donna"
per far piacere al papà.
È in questa fase che si impara a diventare
maschi o femmine, ci si identifica il proprio sesso biologico con le tendenze
sessuali psicologiche e con le tendenze sessuali considerate
"normali", mentre prima si era ancora "bisessuali".
La fase fallica segna l’inizio della
socializzazione e della formazione della coscienza morale, con la graduale
introiezione delle norme morali (nasce il Super Io, cioè il bambino impara che
cos’è giusto e che cos’è sbagliato e lo interiorizza).
La fase di latenza (in cui la sessualità è
nascosta), corrisponde all’ingresso del bambino nel mondo della scuola (dai sei
agli undici anni). Il bambino entra nell’ordine sociale e culturale del suo
ambiente.
Infine vi è la fase genitale vera e propria,
l’ultima nello sviluppo della sessualità e corrisponde all’epoca della pubertà
e della adolescenza, durante la quale si forma in maniera definitiva la propria
personalità sessuale, che preluderà al "normale" rapporto adulto
eterosessuale.
Chissà perché, concentrato sulle sue poppe
generose, mi venne in mente Popper che diceva: « Dobbiamo distinguere
chiaramente tra verità e certezza. Aspiriamo alla verità, e spesso possiamo
raggiungerla, anche se accade raramente, o mai, che possiamo essere del tutto
certi di averla raggiunta [...]
La certezza non è un obiettivo degno di
essere perseguito dalla scienza.
La verità lo è. »
Forse non c’entrava niente, ma volendo si
poteva trovare una sottile, eppur profonda attinenza, con quello che stava
succedendo nel mio studio, quella mattina.
Certo Popper era un bel cognome tedesco, ma
le poppe di Kerstin allo stesso tempo gonfiavano con prepotenza ed estrema
naturalezza quel dannato vestitino a fiorellini.
Il lapsus è un errore linguistico, che
determina la pronunzia errata di una parola oppure il suo uso improprio.
Distinguiamo il lapsus verbale (al posto di
una parola se ne pronuncia una molto simile, oppure una di significato
contrario; in altri casi ancora si aggiunge un secondo senso a quello
intenzionale), il lapsus di scrittura (trascrizione di una parola al posto di
un’altra) e il lapsus di lettura (si sostituisce ad una parola un’altra simile
per significato o per assonanza , ossia similarità di suono).
Il mio pensiero si era sdoppiato e poi
triplicato, mentre recitavo a memoria la Teoria Pratica Freudiana, ascoltavo
rapito Kerstin che parlava della sua masturbazione come se si trattasse di
noccioline salate e vedevo davanti a me un marmoreo Immanuel Kant.
Quel geniale omettino, che quando usciva per
la sua passeggiata pomeridiana, la gente di Königsberg sapeva che erano le
tredici in punto e regolava gli orologi, quel cazzo di tedesco che con le sue
teorie aveva rivoluzionato la filosofia mondiale, che si era innamorato solo
due volte nella sua vita, ma le due femmine desiderate non lo avevano mai
saputo.
Secondo Freud il lapsus consiste in una
manifestazione involontaria dell’inconscio: al posto di ciò che è privo di
interesse, inconsciamente si sostituisce ciò che interessa.
Il lapsus, come la dimenticanza, lo
smarrimento e l’atto mancato, è rivelatore di un conflitto fra l’intenzione
cosciente e la tendenza repressa.
Quando il livello di controllo della
coscienza è ridotto, ad esempio in casi di stanchezza, quando si è preoccupati
e si è più tesi, gli impulsi inconsci emergono alla coscienza alterando il
comportamento.
A questo punto le saltai addosso, conscio che
questo poteva causare la fine della mia carriera, ma ormai chi se ne fregava.
Lei non aspettava altro.
Questa fu la nostra prima, ultima e unica
seduta, anche se terminò sdraiata, l’orario fu rispettato.
Ci sposammo dopo due mesi e poi, a poco a
poco, Kerstin è ingrassata un po’, forse non è più quella gran bellezza di
prima, ma non m’importa.
Non per questo la nostra felicità è
diminuita, perché è basata su una simpatia reciproca che è cresciuta nel tempo
e ci si schianta dal ridere tutti i giorni, ma soprattutto la mattina e la
sera, a letto.
Mi sono tagliato la barba e ho lasciato solo
i baffi e il pizzetto, come a Kerstin piaceva da tempo, in cambio lei ha
abbandonato la Scientologia, ma è rimasta un’affabile dittatrice, almeno fino a
oggi.
Ora faccio il barbiere e mi trovo assai
meglio, le poltrone sono più alte e girevoli, va bene, ma tanto io lavoro in
piedi, dispensando tagli alla moda e consigli utili alla sopravvivenza del
cliente nel mondo globalizzato.
Kerstin fa la manicure, qui con me, non
abbiamo figli ma un cane, una gatta e una tartarughina.
Dopo esserci sposati, durante il viaggio di
nozze in Sicilia, le ho chiesto come aveva fatto a leggere i miei pensieri,
quel giorno fatidico, nella mia sala purpurea.
Kerstin è diventata rossa e ha riso tanto,
prima di riuscire a dirmi, quasi a singhiozzi, che quando io chiudevo gli occhi
muovevo le labbra e scandivo in silenzio il vangelo delle teorie freudiane.
Che figura da imbecille!
Ingenuamente lei aveva pensato che quel mio
suggerirle gli argomenti per le sue libere associazioni, facesse parte della
terapia.
Jens
(3 pagine)
I fatti veri sono da filtrare attraverso la
nostra interpretazione, che comunque dovrà fare i conti con la nostra
situazione generale in quel momento, il nostro umore... e se abbiamo dormito
bene, mangiato troppo oppure non a sufficienza. Insomma, ci siamo capiti.
Quando dicono che un film, un libro, o un
racconto sia stato ispirato da fatti veramente accaduti, in pratica può essere
che il risultato sia completamente diverso, di solito lo è.
In più ci sono tanti bugiardi in giro e
stanno anche aumentando.
L’AMICO STOCASTICO
Sull’amicizia, Vinicius De Moraes diceva che
oltre ai noti vantaggi pratici e sentimentali, è un toccasana per la memoria.
Di amici ce ne ho anche di buoni, ma la memoria
inizia a farmi brutti scherzi, per questo prendo appunti su questo e altri
taccuini, che dopo perdo.
C’è Dieter, logico e deciso, di temperamento
bollente, colla barba, ma dentro di sé è un tenerone perfettamente rasato. C’è
Wolfgang, pasta d’uomo, prende ogni decisione solo dopo aver fatto un giro
completo dei meandri del suo cervello infreddolito e senza capelli sopra.
A volte, però, il tempo è troppo, fa
diventare inutile l’azione progettata, se non dannosa.
Ho provato a immaginarmi in maniera pratica
l’impianto delle decisioni dentro di Wolfgang.
Ci deve essere un ingranaggio che allontana e
uno che avvicina alla realtà, cioè uno, nello stesso momento dell’altro, pare
che faccia l’azione opposta.
Da non perdersi, parlando di amicizia, c’è il
dialogo tra Wolfgang e Dieter.
Quest’ultimo, quando si trova di fronte a
gente che gli propone solo mezze verità insistite e sistematiche, spesso non
riesce a reagire in maniera positiva.
I due sono praticamente cresciuti insieme,
vicini di casa, compagni di giochi e poi di scuola.
Non si sono mai persi di vista.
Eppure litigano sempre, cioè Dieter litiga
con Wolfgang, ma lui non se ne accorge nemmeno.
Mi chiedo: non è che la gente è un po’ troppo
fuori di testa?
Beh, è normale, quando uno è fuori di testa,
non si può certo pretendere che lo sia in maniera moderata.
Se poi l’intero sistema occidentale avesse la
tendenza a sfornare sempre più gente dal cervello fuso, man mano che gli anni
passano, allora sarebbe peggio ancora.
Spesso mi domando se qualcosa del genere
succede anche al sistema orientale.
In Giappone, per esempio, so che ci sono
agenzie che forniscono amici a pagamento, non è un buon segnale.
Wolfgang, io e Dieter lo chiamiamo L’Amico
Stocastico.
Forse perché Stocastico suona bene,
oltretutto è un aggettivo che abbiamo cercato cento volte nel dizionario, ma
non l’abbiamo capito ancora.
Un po’ come il nostro amico, per il quale
purtroppo non esistono dizionari, né enciclopedie, o libretti di istruzioni, ma
ci siamo sforzati assai di comprenderlo.
Poi, Stocastico ha qualcosa a che fare con il
caso, l’andare per tentativi, insomma, come fa lui, ma il suo segreto è non
ricordarsi di cosa era successo nella precedente, così ogni volta è come la
prima.
Wolfgang, per essere diventato così, ha le
sue radici che affondano nel terreno della sua storia personale, sul cammino
accidentato del mondo stesso, sotto ai suoi piedi misura 45.
Nella sua eterna polemica contro le imprese
telefoniche, per esempio, davanti a me impersona sé stesso nella sua scena
ideale di come avrebbe voluto e forse anche dovuto comportarsi.
Urlandomi contro, punta il suo più
implacabile dito accusatore, a pochi millimetri dal mio naso.
Wolfgang è troppo buono, invece e allora,
nella scena reale, lui è rimasto muto, mentre gli interlocutori della ditta lo
ingannavano con delle fiacche bugie di repertorio.
Io ci provo tutte le volte a interromperlo,
gli infilo delicatamente un cetriolino in un orecchio, gli metto in bocca una
sigaretta girata al contrario e faccio finta di accendergliela, ma lui niente.
Provo a lanciare altri argomenti, di vario
tipo, secondo la mia idea di quello che potrebbe essere interessante per lui.
È facile, perché è il contrario di quello che
lo è per me.
Ma lui niente.
Una volta, eravamo nel mio giardino, quando
ho avuto una pensata e mi sono nascosto dietro un cipresso.
Wolfgang magari ha considerato che lo potevo
sentire anche da lì, ha continuato come se niente fosse.
Allora ho deciso di allontanarmi dietro al
cipresso, rispetto alla sua posizione da seduto raccontante, in maniera da
rimanerne nascosto fino all’angolo della casa.
Là dentro poi ho iniziato a fare altre cose,
mi sono messo a guardare la tivù, con un panino e una birra.
Ogni tanto andavo a guardare dalla finestra,
era sempre là che si sbracciava, parlava con il cipresso, lo accusava con il
dito indice.
Il povero cipresso non riusciva a reagire,
rimaneva immobile, piantato davanti a lui, non muoveva foglia, esattamente come
avrei dovuto fare io.
Intanto Wolfgang si rifiutava di credere che
lo avevo abbandonato, preferiva pensare che io fossi ancora là dietro.
Una volta credevo che la gente volesse sapere
veramente la verità, magari non ci riusciva, ma che lo desiderasse con tutte le
proprie forze.
Non è vero, la gente preferisce la menzogna,
vuole solo credere a quello che gli fa comodo.
Wolfgang si è messo in testa di essere un
idraulico, invece non ci capisce niente, provoca inondazioni e catastrofi, poi
deve pagare i danni.
Suda come un maiale e quello che ci guadagna,
più che altro, sono i debiti.
Si è sposato con una specie di sergentessa
della Gestapo, che a un maschio qualsiasi, con un poco di sale in zucca,
potrebbe parere interessante solo a livello antropologico, a una debita
distanza di sicurezza.
Kornelia ha bandito il concetto di dubbio
dalla sua esistenza ed è ignara del principio per cui, se si parla con
qualcuno, si possa smettere di gridare, anche per più secondi di seguito.
Hanno una figlia di cinque anni che è capace
di smontare un supermercato in pochi minuti, se li trovi insieme per strada,
mentre i suoi genitori parlano con te, quella mette a ferro e fuoco i passanti.
Wolfgang sorride bonario e dice che
effettivamente è un po’ vivace, ma da adulta non diventerà né una serial
killer, né cancelliere della Bundes Republik.
Me ne sto zitto, Annelore in fondo è ancora
giovane ed io spero di non esserci più.
Omero 65
Se
c'è una cosa che mi disturba è se qualcuno vuole parlare con me quando mangio.
In realtà sono parecchie le cose che mi disturbano, ma questa magari più di
tutte le altre, già da me provate e catalogate.
Pranzando
e cenando, a volte anche facendo colazione, al ristorante di mia proprietà, il
Pellegrino sulla Duden Strasse, mi succede spesso che non possa rifiutare di
parlare o ricevere gente esterna al ristorante, perché chi ci lavora lo sa e mi
risparmia.
I
fornitori anche vengono avvisati dai miei collaboratori e ogni nuovo
consegnatore di merce debitamente anche.
Non
è che io pretenda dagli altri che si comportino come me, ma un poco di riguardo
per le altrui fissazioni secondo me è necessario e non costa nemmeno tanto.
È
una questione di rispetto, personalmente cerco di continuare la mia esistenza
senza interrompere quella altrui, se qualcosa non mi piace cerco di non
farglielo pesare a nessuno.
Capita
però che sempre arriva qualcuno che non lo sa, o anche che chi lo sa, o
dovrebbe saperlo, se ne frega e per un motivo o per l'altro non mi fanno mai
mangiare in pace.
Mia
moglie Maite per esempio mi dice sempre che a casa non ci sono mai e allora
quando sa che io sto mangiando o se solo lo suppone, perché in queste cose sono
piuttosto metodico, non perde occasione per venire ad assillarmi con problemi
anche validi, non dico di no, però se aspettasse quei venti minuti scarsi
gliene sarei grato, ma sembra che non le sia possibile. Succede anche nelle
rare volte in cui sono a casa, la colazione ce la faccio quasi sempre, ma se
sono al ristorante lei passa di lì per caso e viene a scassarmi i cabbasisi.
A
questo proposito mi viene in mente il commissario Montalbano che ogni qual
volta che a casa, in santa pace, sta alzando la forchetta sopra un piatto di
pasta fumante e odorosa, guardando le notizie alla TV, ecco che suona il
campanello o trilla il telefono.
IV
Usurpato e
massacrato, ripetutamente violentato sul suo stesso territorio, l’indio
brasiliano ha rifiutato di mischiarsi al popolo invasore e ultimamente - amara ironia della fine del nostro secondo
millennio - ci si è perfino stupiti se ha protestato per i festeggiamenti dei
500 anni della scoperta del Brasile, dichiarando che lui era qua da prima e che
è stato scoperto, sì, solo nel senso che gli hanno tolto la coperta.
In Amazzonia
l’indio continua a campare alla stessa maniera di migliaia di anni fa e questo
in generale viene detto con disprezzo, ma certo là in mezzo alla foresta, non
si sa nemmeno cosa è lo stress, come non si conoscono, parimenti, altre
malattie tutte moderne.
Nelle periferie delle grandi metropoli vive
in capanne di nylon nero (quello dei sacchi della spazzatura) e il suo stato è
di miseria e abbandono, ai margini più sporchi e insalubri, l’indio intreccia e
vende cestini di vimini.
Nelle loro
comunità, nelle foreste pluviali, l’indio pratica caccia e pesca, un po’ di
agricoltura e nel rapporto uomo e donna non prestabilisce limiti o canoni, di
nessun tipo: esistono nuclei di due uomini e una donna, come di tre donne e un
uomo, a differenza della maggior parte delle civiltà occidentali e orientali,
tranne poche eccezioni e tutte a vantaggio dei maschi.
Secondo i
concetti del mondo occidentale, gli indios sudamericani non sono affatto un
buon esempio di apertura mentale, né di cultura globalizzata, ma rappresentano,
un po’ per tutti, un ritardo incredibile sull’orologio della macchina del
tempo. C’è
da notare, altresì, che loro non hanno la pretesa di essere qualcosa di
somigliante ai nostri gusti.
Indio Velho, chiamava se stesso con la corta
e pratica sigla IV, insegnando il francese, io all’inizio pensavo che fosse
scritto Ives. Lui chiarì e poi si corresse subito, dichiarando che nessuno
avrebbe mai avuto motivo di scriverlo e qui si sbagliava, ma non poteva
saperlo.
Era uno che aveva viaggiato in diagonale per
i cinque continenti conosciuti, studiato da autodidatta un po’ di tutto e
vissuto con i bianchi e altri popoli di vario tipo e colore, prima di
ritirarsi, come diceva lui, a vita privata.
Lo conobbi lassù nel suo boschetto,
sulla collina più alta, di fronte alla
favela. Ero andato a fare un giro con il cane di un mio cliente e lui, Argo,
l’aveva scovato, seduto su un sasso, con gli occhi chiusi e le mani sulle
ginocchia.
Dopo avergli abbaiato per un po’, quando
IV lentamente aprì gli occhi, Argo si chetò miracolosamente, poi si lasciò accarezzare
da lui e io mi avvicinai, sembrava un rugoso indiano apache di un film
americano, aveva anche la regolamentare fascia sulla fronte.
Dopo, quando lo incontravo, pensavo alle
condizioni, spesso penose, in cui si trovava la sua gente. Eppure vedevo in lui
quasi l’opposto, c’era qualcosa che li univa e che li divideva, che mi
affascinava troppo: la ribellione tranquilla e pacifica a tutto ciò che gli
accadeva intorno, da secoli.
Insomma, essere un indio non è mai stato
facile, in Brasile come in tutta l’America Latina, ora coma prima.
Però IV aveva deciso di essere prima di
tutto un essere umano e una persona, vincendo la resistenza di secoli di
mentalità completamente estratta da quelle classiche occidentali o anche di
altri tipi di popoli. Secondo lui un indio era solo un indio ed era diverso da
tutto e da tutti, questo almeno nella gran maggior parte dei casi. IV
aveva
scelto la sua strada senza protestare, non avevo mai conosciuto nessuno più
soddisfatto di lui, eppure sapeva benissimo tutto ciò che era successo prima,
quello che stava succedendo in quel momento, anche meglio di me, quello che
sarebbe successo poi.
La logica per lui risolveva tutto, filtrata
dalla sua filosofia, certo, a sua volta derivante dalla sua esperienza di vita.
“Come va l’esistenza?” Mi disse con uno
sguardo indescrivibilmente pacifico e serio.
“Bene, bene… stavo facendo un giretto.”
“Bravo. Ti piace la natura, eh?”
“Mi piace sì, vivo in quella casa là
nella favela, sull’altra collina, vede?”
“Ah sì, ma non c’è bisogno di darmi del
Lei, uomo, non che me ne offenda, via… insomma fai come vuoi.”
“D’accordo.”
Indio Velho, autonominatosi senza
cerimonie Sceriffo della palude collinosa, viveva lì, in una baracchetta di
legno che aveva appena lo spazio per stare sdraiati su una brandina e per un
rudimentale fornello a legna che si era fatto con le pietre.
Quando potevo mi trasferivo volentieri
nello spazio e nel tempo, in quel luogo ideale e calmo, insieme al cane Argo o
da solo, verso quella piccola palude romantica, che era sulla collina di fronte
alla mia favela.
C’ero stato spesso, anche prima di
conoscere IV, ma ora avevo un motivo in più per andarci, almeno una volta alla
settimana, a fare un giro, era un boschetto incontaminato in mezzo a un
banhado, una specie di palude periodica del Brasile.
Lassù dove i tramonti mandavano una luce
primitiva e autentica, piena di bellezza incantatrice, i rumori delle
automobili e sirene della polizia e di ambulanze parevano lontani, il vento
fischiava un poco di più, insetti e uccelli dialogavano intrecciando i loro
rispettivi ronzii e cinguettii sotto il sole che andava e veniva, tra le nuvole
basse. Mai viste nuvole così basse come in Brasile.
Argo, il cane, si godeva la libertà
della natura e correva soddisfatto di qua e di là, con la lingua penzoloni.
Anche da prima che me ne andassi in Europa
avevo sempre sentito il bisogno di uno come lui, cioè mi mancava e non lo
sapevo, lo scoprii appena lo trovai.
Per esempio perché potevo chiedergli cose e
ricevere in cambio delle signore risposte articolate, IV addirittura mi
ascoltava quando parlavo e non m’interrompeva. Se gli chiedevo qualcosa pensava
bene alle parole che stava per dire, ci metteva un bel po’, a volte pareva che
non avesse nemmeno udito la mia domanda. Poi gli uscivano delle robe magari
utili e illuminanti, riguardo i miei recenti interrogativi, oppure anche
semplicemente per intavolare una conversazione interessante, o solo piacevole.
Era già difficile trovare qualcuno che avesse tempo, in più lui ci metteva una
serie di altre qualità entusiasmanti.
Indio Velho aveva una grande esperienza in
conversioni, si era sempre dato, anima e corpo, a quel che credeva. Quello che
aveva imparato, di conseguenza, era forse il contrario di quello che la gente
normalmente faceva. IV diceva che era bello capire e riconoscere di aver
sbagliato tutto fino a quel momento, perché ricominciare ci faceva sentire
vivi. L’umiltà di ammettere il proprio errore era fondamentale per riuscire a
imparare qualcosa di utile, per l’immediato futuro. Trincerarsi sulla propria
posizione era quanto di più idiota poteva esistere, era come tapparsi gli
occhi, infilare la testa in un buco, come gli struzzi, di fronte al pericolo.
Spesso la gente agiva così, per debolezza, per non affrontare la necessaria
rivoluzione che ne sarebbe sortita fuori.
Questo vecchio saggio rappresentava
un’essenza atavica e filosofica, per la cui esistenza nessuno avrebbe mosso un
dito, là in basso, dove io passavo le mie giornate di lavoro. Era un esperto
attraversatore del mondo, uno che poteva dare regole e mostrarne addirittura
l’applicazione, non c’erano in giro molti esseri umani del genere e,
disgraziatamente, non se ne sentiva affatto la mancanza, perché non si aveva
nemmeno il tempo di pensarci.
IV chiamava le persone che vivevano là sotto
i Valligiani, mentre io, che abitavo in collina, ma lavoravo soprattutto in
città, ero un Collinare, il mio vicino, di cui gli parlavo spesso, era un
Valligiano, perché abitava in collina, sì, ma gli sarebbe piaciuto abitare in
città. Lui, Indio Velho, era un Montanaro. Nessuno pensava alla saggezza, tra i
Valligiani, i Collinari forse ci riflettevano un poco di più, per motivi
puramente geografici e per certe necessarie conseguenze. In montagna ecco che
avevamo i pochi casi conosciuti di umani persi in un mondo in cui non si faceva
male a nessuno e si ragionava del più e del meno, senza pestare i piedi al
proprio prossimo, non perché ci piacesse, il prossimo, non necessariamente, ma
perché faceva parte di una certa maniera di essere.
Indio Velho parlava un portoghese perfetto,
con grande varietà di vocaboli, ma conservava un tipico accento indio. Aveva la
faccia liscia, senza rughe, gli occhi diagonali, non era un selvaggio, ma aveva
scelto di vivere nei boschi del Morro Teresinha, perché la sua idea di vita, in
progressivo cambiamento, glielo aveva suggerito e per questo era un esempio
refrigerante e rigenerante per me, che passavo le ore perso per le
rumorosissime vie della capitale, in mezzo a gente anche piacevole, simpatica e
tutto, ma un po’ troppo agitata e che faceva agitare anche me. IV diceva che in
genere, la gente non sceglieva, s’infilava in un tunnel di situazioni
concatenate e usciva, viva o più frequentemente morta, molto tempo dopo,
dall’altra parte.
Indio Velho era un indio vecchio, lo diceva
il suo nome stesso in portoghese, saggio come un diavolo di angelo bonario, che
viveva di non so quali alimenti, giacché non me ne voleva parlare mai, anche se glielo chiedevo sempre, su una
collina ai limiti della grande città.
Mi piaceva vederlo mentre si cibava di
valori veri e dimenticati nella corsa al denaro, nel giorno per giorno
dell’uomo comune che, secondo lui, era una specie in estinzione, che veniva
progressivamente sostituita dall’uomo banale, l’uomo che non sapeva quello che
voleva, ma lo voleva fino in fondo, perché credeva di non avere alternative.
Per IV, vivere male significava non concedere a se stessi più di una opzione
possibile.
Per andare a trovarlo dovevamo risalire
la collina a piedi, il cane ansava e bilanciava la lingua verso il basso, io
avevo una lingua più corta e i miei polmoni faticavano a mantenere il ritmo, ma
a differenza di Argo, potevo sudare e già che c’ero, sudavo a volontà.
Arrivati sul falso piano, usciti dal
bosco grande, dovevamo attraversare la palude, di acqua non ce n’era molta, ma
era seminascosta da questa specie di giunchi, era sufficiente per bagnarsi fino
ai ginocchi, se si incappava nella pozza giusta… o sbagliata. Ecco che dovevo
studiare meticolosamente ogni mio passo, Argo invece ci s’infilava dentro, per
lui pareva una goduria, che in un certo senso gli invidiavo. Lui superava le
punte vegetali di una testa, ma la sua era una testona triangolare e in più le
sue orecchie ritte sfidavano ancora di più il cielo. Entrati nel boschetto lui
sapeva già dove andare e lo seguivo, perché io invece mi sarei perso, non
c’erano viottoli, certo quell’uomo non amava fare due volte lo stesso percorso…
ma lui sentiva l’odore di Indio Velho, mentre io non lo distinguevo dall’odore
caratteristico che c’era in giro, di natura più meno selvaggia.
L’umidità era forte e odorosa di muschi e
acque ferme, c’erano degli avvoltoi che volteggiavano nel cielo, li vedevo
apparire e scomparire tra i rami, mi pareva di sentire dei tamburi, ma forse
era il mio cuore che batteva troppo forte. Mi fermai a
riposare un momento. Quando il mio respiro ritornò alla normalità, sentivo un
improbabile rumore alla mia sinistra e girandomi scoprii Indio Velho che stava
placidamente voltando la pagina di un libro, seduto su una pietra larga e piatta
e disegnata dai licheni di vari colori e consistenza, in una minuscola radura
dove il sole, fuggito per un attimo dalle nuvole, riusciva a battere su pochi
metri quadrati di terra erbosa, forse solo per qualche minuto.
Indio Velho mi guardava profondo e serio,
chiuse il libro lentamente, accarezzò il cane, i suoi occhi come due fessure,
c’era una pace liquida e sonnolenta, la luce era dorata, a fette, il verde
attorno vivissimo.
“Olà professore di lingua e cultura
francese.”
La sua voce pareva adattarsi bene alla natura
circostante, la mia invece era meno armonica, spezzava la qualità di quel
silenzio fatto di mille piccoli rumori, sarà stata colpa dei miei polmoni
stanchi:
“Olà Indio Velho, come va la vita in
mezzo alle frasche?” Gli dissi avvicinandomi.
“In mezzo alle frasche niente di nuovo,
perciò la vita va bene, si riesce a leggere e anche a meditare, a fare
un’osservazione minuziosa e piacevole della natura, la respirazione funziona a
dovere anche perché la facciamo quasi esclusivamente col naso, le orecchie
filtrano i sussurri della boscaglia e da lontano si sentono gli infernali
rumori che fate voi laggiù, scoreggioni, che dite di correre dietro alla
felicità…”
“Sì, lo so, siamo gente abituata non
solo ai rumori forti, vogliamo emozioni violente, la televisione sempre accesa
e a tutto volume, e se te li portassi qui, i Valligiani, il tuo silenzio li
farebbe impazzire…”
“Il silenzio non è mio, è alla portata
di tutti, almeno in teoria… anche se nessuno lo vuole, ma tu dici che non
resisterebbero, a questo fragoroso silenzio?”
“Non lo so, non ci sono abituati, di
sicuro non gli piacerebbe. Magari gli spaccherebbe i timpani…”
“Beh, allora è meglio che non ci vengano
qui, pazienza.”
“Pazienza, sì, sì, ci vuole pazienza, ma
tu di pazienza ne hai da vendere, mi pare…”
“Ma la pazienza nessuno la compra…”
“Hai provato a offrirne in giro?”
“Sì, ma per quanto sia preziosa, non è
quotata in mercato. Ne ho immagazzinata un bel po’, l’ho mostrata alla gente e
gliene ho decantato le proprietà miracolose, ma sembrano considerarla senza
valore, allora sono costretto a tenermela.”
“Per me ha un grande valore, invece,
potresti darmene un poco, te la pago, ne ho un gran bisogno io, con il mio
lavoro…”
“Prendine quanta ne vuoi, io ne ho di
avanzo, non voglio niente in cambio.”
Disse con aria solenne e poi sorrise.
Stavo pensando seriamente a come fare
per prendere e portarmi via un carico della preziosa pazienza di Indio Velho,
ma la soluzione si trovava già in questa pausa del dialogo, solo a vederlo mi
veniva naturale e automatico essere più paziente e tollerante, esattamente come
a vedere certe persone stressate mi stressavo anch’io, queste cose magari erano
trasmissibili o forse anche contagiose…
Quando mi sentii di aver immagazzinato
abbastanza pace e serenità, poi gli domandai:
“Ma tu, piuttosto, non ti senti solo, qui?”
“Mi sono già sentito solo, all’inizio, ma per
fortuna avevo avuto tanta compagnia, prima, ora è stivata in deposito, tu non
lo sai, ma io ho attraversato il mondo, in lungo e in largo, ne ho conosciuta
di gente, sono un po’ stanco di tutto quel parlare, sì… parlare è bene ma stare
zitti ha anche il suo fascino… quelli che parlano di più sono quelli che hanno
meno da dire, la conversazione è un’arte, ma la gente ha bisogno di fare tutto
alla svelta, non ha tempo e poi, quando ne ha, pensa ad altro… comunicare è
importante e necessario, ma dovrebbe essere anche un piacere. Invece è
diventata esclusivamente una necessità. Ed ecco che il suo fascino è diminuito,
almeno per me.”
Il sole stava scendendo e nella boscaglia
stava diventando sorprendentemente assai meno caldo, Indio Velho si alzò e io
lo seguii, camminammo insieme senza parlare.
La sua presenza era rassicurante, per me, non
come quella di una guardia del corpo, cosa da Valligiani, ma piuttosto come
quella di una guardia della mente, che era invece roba da Montanari.
Uno che sapeva attraversare ogni quesito con
il suo ragionamento, la sua filosofia personale, senza pretendere di
risolverlo, senza dover credere che tutto avesse necessariamente una risposta
urgente o definitiva.
Insieme a lui non mi sentivo in dovere di
parlare, riusciva a trasmettermi la sua energia quieta a sguardi, a gesti,
anche nella sua immobilità in mezzo al cinema esotico della natura circostante.
Usciti dal boschetto, attraversata la salita
coperta da erbe basse, certo spuntate da poco e di un verde chiaro vivissimo,
arrivammo su un altopiano più largo, vicini al crinale, il vento era aumentato.
Ci sedemmo su una pietra, dove il vento
sembrava più caldo, nella boscaglia invece l’aria era ferma e umida.
I suoi occhi si spostavano lentamente attorno
e il suo naso sembrava fiutare a lungo, come quello di un cane:
“Hai sentito qualche odore o qualche
variazione nello spazio e nel tempo?” Gli domandai ironicamente.
“Sì. Domani pioverà, o forse stasera, o
stanotte.”
“Come fai a saperlo?”
“Aria di pioggia, dal lato della laguna, di
là gli odori arrivano in anticipo.”
Non mi sorpresi, in città non ci riuscivamo
più a sentire gli odori della natura, ma una volta la gente era più legata a
queste cose. Indio Velho era come un vecchio cane selvatico della boscaglia,
sentiva tutto e tutto aveva il suo bravo significato, là in mezzo, per lui.
Là sotto, nella grande città, invece noi
barcollavamo nel buio, non capivamo la metà di quel che ci succedeva, eravamo
barchette in mezzo alla tempesta.
Indio Velho fiutava e vedeva e ascoltava, era
sempre padrone del suo presente e non pensava troppo al passato e al futuro.
“I cani lo fanno ancora. Fiutano. Loro non
perderanno mai il loro contatto con la campagna, il loro bagaglio di memoria
gli viene trasmesso, istintivamente e spontaneamente. Noi da piccoli dobbiamo
imparare tutto, gli animali invece hanno tante nozioni acquisite dai loro
predecessori, che sono praticamente autosufficienti da subito, noi invece,
senza i nostri genitori moriremmo, nei primi giorni.”
“E allora?”
“Allora la nostra scarsa attitudine
fisica, ai primordi, ci ha fatto sviluppare l’intelligenza.”
“Secondo te eravamo predestinati?”
“Non lo so, ma se fossimo stati ugualmente
abili a procacciarci il cibo, come gli altri animali, forse ora non saremmo
così complessi.”
“Questo sarebbe il famoso elogio
all’inferiorità?”
“Esatto, ma se ora abbiamo sviluppato tutto
questo progresso attorno a noi, ci siamo distanziati da loro, gli animali, e
dalla natura e siamo diventati di nuovo inferiori, è perché non stiamo bene…”
“In che senso?”’
“Non capiamo più qual è il senso della vita.”
“Ma come, non è il denaro?” Chiesi con uno
stupido sorriso indagatore.
Indio Velho sorrise, guardò lontano, dietro
alle mie spalle, diventò serio e pensieroso, forse perché laggiù il denaro
dettava la sua inesorabile legge. Era forse proprio per quello, per le sue
dannate e ramificate conseguenze, che lui aveva scelto di vivere lassù.
“Il denaro è il prezzo della vita, non mi
ricordo chi lo ha detto, ma credo che sia vero. Io però, credo che il senso
della vita sia da cercarsi nella natura, più ce ne allontaniamo e meno ci
sentiamo bene.”
“Allora tu cosa suggeriresti?”
“Di cambiare argomento.”
Tre giorni dopo, nella mia visita seguente,
iniziammo a parlare dei giovani. A proposito dei giovani, lui voleva che gli
raccontassi i dialoghi che sentivo in giro per la città, lo facevano ridere, si
divertiva e diceva che imparava tante cose nuove, specie quando riuscivo a trovargli
qualche storia inedita.
Quel giorno ne avevo una che forse gli
sarebbe piaciuta:
“L’altro giorno ho sentito una conversazione
interessante per strada.” Proposi, con sguardo intrigante.
“Tra giovani?” M’incalzò avido Indio Velho.
“Giovanissimi.” Dissi orgoglioso di me e del
mio ruolo di testimone della società moderna brasiliana.
“E com’è stata?”
“Rapida, ma simpatica e indicativa.”
“Sono pronto. Raccontamela allora. Che
diavolo aspetti?” Disse preparandosi seduto Indio Velho.
“Sì, va bene, ma non c’è bisogno di sedersi,
è velocissima.
Dunque: ieri pomeriggio c’erano due ragazzine
che passavano camminando davanti a me, avevano forse quattordici o quindici
anni, non lo so, siccome avevano quasi la mia stessa velocità di passi, prima
che attraversassero la strada, le ho sentite raccontarsi le loro cose… e qui
devo dirti che, per loro, quello che dicevi, qualche giorno fa, della necessità
del comunicare e dello scarso piacere nel farlo, non vale, sembravano veramente
contente di parlare tra di loro…”
“E che dicevano, che dicevano?” Domandò lui.
“Bene, una di loro, quella che parlava
di più, ha iniziato: ieri ho incontrato Mello, e lui mi ha detto: Perché non
facciamo non so cosa, non so quando, uno di questi giorni, magari, insieme? ”
“Ah, bello, e lei che cosa ha risposto?”
Chiese Indio Velho.
“ Ma quanto tempo ci vuole? Ha domandato. Già
che la seconda ragazzina glielo aveva chiesto immediatamente, come te."
“E l’altra, e l’altra?” Domandò IV.
“Ah, questo non lo so! Ha risposto la prima
ragazzina.”
IV rise, lo sguardo alto oltre di me, come se
si immaginasse la scena, per qualche secondo. Poi disse entusiasta:
“Meraviglioso, piccola-grande storia, sei un
grande osservatore. Questo è uno stupendo esempio di stringata banalizzazione
moderna, pieno di mancanza di significato e perciò autenticamente significativo
e significante, ma… a proposito: cosa diavolo significa?
Magari ti dico la mia interpretazione: i
giovani non specificano più le situazioni che già appartengono a schemi
standardizzati e conosciuti da tutti e si riferiscono a essi con parole e frasi
cortissime e convenzionali.
(Un po’ come la barzelletta del club dei
raccontatori di barzellette, che ormai le raccontavano citandole e ridendo
usando i loro relativi numeri di riferimento dopo averle catalogate…)
Insomma, le persone nel mondo globalizzato
pensano di non avere tempo per stare a conversare e allora usano i nomi per le
situazioni, avendole da tempo catalogate e divise in categorie… la totale
assenza di specificità appiattisce e semplifica tutto, senza doversi dilungare
in descrizioni noiose e fuori moda, dato che il tempo corre… Fenomenale.”
Aggiunse lui cercando forse in me una qualche reazione.
“Fantastico.” Dichiarai io, con un
malcelato poco entusiasmo.
“Incantevole.” Terminò Indio Velho con
autentica e grande gioia bambina.
“Ma questo non è anche un poco triste?”
Rincarai allora, da mezzo avvocato del diavolo, per capire meglio cosa ne
pensava Indio Velho e perché pensavo, in fondo in fondo, che fosse triste
veramente.
“Non lo so se è triste.” Disse lui. “Ma
la gente è così, specialmente quella giovane che studia e quella che lavora, mi
pare che veramente non abbia tempo, per conversare come vorrebbe e comunque non
ci è più abituata. Non si sente più quel piacere di una volta nella conversazione,
nella modernità tutto si frammenta, tutto diventa rapido e necessario, allora
si va al passo con i tempi, oppure si viene lasciati indietro e dimenticati.
Basta pensare ai computer, all’economia virtuale, ai dialoghi tra persone che
lavorano, ai cellulari e ai messaggi di testo o di voce, agli incontri rapidi e
in più interrotti da continue telefonate, la comunicazione sta correndo come
impazzita, per forza diventa uno stereotipo, perché la descrizione sarebbe
molto più lenta, no, no, si deve sintetizzare al massimo, per mantenere il
ritmo…” Aggiunse lui, con entusiasmo, come se fosse una catena di cose
positive.
“E questo non è malinconico?” Domandai
io.
“Forse sì o forse no, ma quello che noi
dobbiamo pensare è che la natura stessa non si fa questa domanda, va avanti e
non pensa alle soluzioni, ma vive la sua realtà dolorosa o meravigliosa che
sia, dipende dai punti di vista, la natura non ha punti di vista è qualcosa di
enorme e mischiato, e in movimento. Io cerco di ragionare in questa maniera,
essendo io stesso poco ragionevole ma assai pratico, le soluzioni per me sono
diventate automatiche, da qualche anno a questa parte non ne ho più, di
decisioni, tutto si muove da solo. Come la mia maniera di isolarmi, che non è
stata cosciente né improvvisa, ma il risultato di tutto quello che ho vissuto
prima, sommato al mio carattere, alle condizioni di vita che stavo
attraversando…”
“Ma per fare così bisogna un po’
disumanizzarsi…”
“Certo, ma non fa così male come si
pensa, animalizzarsi un poco, perché è il ritorno alle nostre origini, io sto
meglio ora di prima, certo non posso consigliarlo a tutti, ma chi se ne
importa?”
“E allora non ti rattrista per niente
questo processo di diminuzione del valore della cultura? L’appiattimento del
dialogo, la morte della piacevole conversazione?”
“Forse sì, ma solo se fossero cose prese
separatamente.”
“Che cosa vuoi dire?”
“Voglio dire che tutta questo
progressivo peggiorare è solo una sensazione di gente che è abituata a cercare
i difetti e non i pregi, a separare e non a associare, ma questa tristezza la
maggior parte della gente non la sente, secondo me, perché si è abituata a
vivere in questa maniera…”
“Certo che l’ignoranza e la povertà,
almeno qui, fanno parte della vita di tutti i giorni…”
“Non solo qui, la storia si ripete come
la geografia, la religione e la storia dell’arte, sì, sì, anche come la
matematica… ridi? Ma è la pura verità, amico caro, tutto è copia di tutto, io
non so immaginare un mondo differente, è sempre stato così e lo sarà ancora,
nei secoli dei secoli…”
“Ma noi, però, dovremmo sperare che il mondo
migliori, non è vero? Magari anche fare qualcosa affinché questo possa
succedere.”
“Certo sarebbe bene, ma non tutti lo possono
fare.”
“Non sono d’accordo. Secondo me tutti quelli
che se ne rendono conto dovrebbero fare qualcosa, attivamente, non solo
parlare.” Dissi io con una certa convinzione.
“Il difficile è non guastare la propria vita,
nella ricerca di un qualcosa del quale probabilmente non vedremo risultato.
Beh, il mondo è stato infelice sempre, più o
meno come ora, anche se in maniera differente, si può scegliere un’epoca
preferita del passato, ma non si sa se le persone erano più felici di ora. Si
potranno sempre migliorare alcune parti, ma allo stesso tempo altre
peggioreranno, almeno dal nostro punto di vista. Dal punto di vista di altre
persone, invece, proprio le cose che per noi saranno peggiorate, per loro
sembreranno migliorate e ogni cosa e il suo contrario si avvereranno
puntualmente, insieme alle mezze misure, nelle minuzie come nelle cose
importanti, ci sarà eternamente una mistura confusa, sarà sempre difficile
trovare la verità, ognuno ne avrà sempre un’idea differente, in un momento, e
in un altro sarà già cambiato.
Per esempio: siamo abituati a dire come
nostre le parole di un commentatore televisivo, a crederci veramente come se
fossero nostri pensieri, le frasi udite in giro e che ci sono piaciute, ma il
nostro pensiero sarebbe assai differente se veramente conoscessimo i fatti e
non le notizie… perché i fatti sono già stati presi e filtrati, mangiati e
digeriti da quel giornalista, che magari parla così per un suo interesse
personale, per proteggere o promuovere qualcosa o qualcuno. ”
Rimanemmo zitti per qualche attimo, gli
uccelli cantavano forte, erano in tanti, mi pareva che ci fosse in loro una
particolare agitazione. Me ne accorgo solo ora, che Indio Velho mi aveva aperto
una nuova porta, come sempre. Insistere nel mio punto di vista però mi portava
a capire meglio, a sviscerare più completamente possibile l’argomento, come se
immaginassi il punto di vista di chi sta di fronte a me e come se le parole di
IV fossero le mie. La pausa finì quando io gli dissi:
“Ma quella maniera di parlare, se ho ben
capito, non ti piace, così rapida, disturbata, frammentata, sintetizzata, senza
personalità. Se la gente vive in questa maniera, non
è peggio anche per noi?”
“No, o almeno solo in parte, quella è la
loro vita, come potremmo fare per uniformare il nostro pensiero a quello di
loro? E
anche se potessimo, non può essere che in alcune cose loro abbiamo ragione e
noi torto? E poi noi chi siamo? Tu sei diverso da me, siamo tutti diversi…
anche se ci sforziamo di apparire uguali.”
“Va bene, va bene, ma vedere gli altri che
stanno male non fa stare male anche noi?”
“Sì, in un certo senso, ma è la condizione
dell’uomo, se anche tutti gli uomini stessero bene, non sentiremmo pena per gli
animali? Se potessimo anche risolvere tutti i problemi animaleschi, poi le
piante e le pietre ci parrebbero sfruttate e mal retribuite della necessaria e
dovuta gratitudine… la pietà, insomma, nel senso classico, la compassione,
certo, è bene avercela… ma non dobbiamo esagerare, prima di tutto perché non
siamo per niente onnipotenti.
Come fanno gli stessi animali? Il tuo cane,
per esempio - sì, lo so che non è tuo - pensa a se stesso, o forse nemmeno a
quello: cammina, abbaia, mangia, poi dorme, se glielo lasci fare si procrea e
non pensa mai, tanto per dire, a come sta male il cane del vicino che invece è
legato e non può nemmeno farsi un giretto per il terreno recintato, e che
nessuno lo accarezza mai…
Ecco: la pluralità porta la diversità e la
diversità è più da accettare che da capire, il senso della vita è godersi la
bellezza che c’è in giro, approfittare di quello che abbiamo e non stare a
riflettere troppo su quello che non abbiamo noi o che gli altri non hanno. In
sintesi, se noi stiamo male per gli altri, è solo perché non sappiamo dare, a
loro o alla situazione, la opportuna collocazione nell’ordine delle cose.
Invece, se le dedichiamo un po’ del nostro prezioso tempo, formiamo la nostra
filosofia personale e solo allora possiamo accettare, perché allora non è più
una cosa passiva, ma attiva. Ecco che possiamo aiutare gli altri, non dico
materialmente, ma anche solo con la nostra presenza, una frase, una parola…
cosa che non possiamo certo fare se stiamo in pena, se soffriamo, se la vita ci
pare ingiusta e penosa, il bene che potremmo fare si tramuterà in dolore,
questo sarebbe ciò che doneremmo agli altri, solo che di questo nessuno ne ha
bisogno, però.”
Omero
66
Berlino
è una città affascinante, non solo per gli edifici, le statue e i parchi, ma
anche per la storia della Guerra Fredda, le spie, il Ponte Aereo e il
famigerato Muro.
La
collina di Kreuzberg, traduzione: la Montagna della Croce, è stata fatta con l'accumulo delle rovine
ammonticchiate della città distrutta dai bombardamenti.
La
strada dove c'è il ristorante, la Duden Strasse è un lato alla base della
collina, una parte della città delle comunità studentesche e popolata dai
turchi, quindi la più alternativa e vivace.
Berlino
può sembrare un città fredda, all'inizio non ti accoglie a braccia aperte, ma
ci si sta bene, funziona come deve funzionare una grande città, c'è tanto verde
e ci sono parecchie opzioni per tutto ciò che è importante.
Ute (10 pagine)
Questa testimonianza non l’ho scritta io, ma
il marito di un'amica della mia amica di Hannover che non vuole essere citato.
Qui i fatti dovrebbero essere tutti veritieri e comprovabili.
Nella mia routine di ogni giorno, cerco di
capire gli esseri umani e meno ci riesco e più mi appassiono all’argomento.
Leggo riviste specializzate e mi studio
persino i grafici, confronto me stesso e la mia esperienza attiva nel mondo
degli umani, pratiche e teorie, parole e omissioni: assordanti silenzi.
Ogni tanto mi chiedo come fanno le persone
senza scrupoli a dormire la notte.
La risposta è nel modo in cui certe cose
agiscono dentro la mente, quindi anche nel corpo del vivente, si capisce bene
che a loro non fanno male, ma non è affatto un calcolo o una scelta comportarsi
così.
In maniera retroattiva si riesce a
comprendere, eppure non a prevenire, i meccanismi non sono semplici e
soprattutto non agiscono alla stessa maniera sui differenti soggetti.
Sempre accanto a me, mia moglie non condivide
affatto la passione per l’antropologia maccheronica, spesso mi prende in giro e
confesso che mi ci diverto anch’io a discutere tesi che non riesco a dimostrare
nemmeno a me stesso.
Almeno abbiamo un argomento che ci tiene
impegnati, Lena è l’unica persona con cui parlo abbastanza, tutti i giorni,
specialmente durante i pasti, la mattina e la sera a letto.
Ci accomuna soprattutto un determinato senso
dell’humour, prendiamo sul serio tutto e niente.
Normalmente lei però tende a dimenticare
quello che ci siamo detti, e anche la mia memoria non è più quella di un tempo,
per cui registro di nascosto le nostre conversazioni.
Il fatto è che poi lei dice che mi sono
inventato quelle cose e poi mi vengono dei dubbi anche a me.
Non che m’interessi di aver ragione, fino a
poco tempo fa non le avevo nemmeno detto niente, ma grazie al mio trucchetto ho
potuto registrare il nostro dialogo, avvenuto a letto, la sera verso le 22,
mentre sorseggiavamo camomilla e ascoltavamo musica classica a basso volume.
Inutile dire che è diventato un documento
storico, per quello che si è saputo dopo.
Di solito sono io che lancio l’argomento,
Lena è più stanca, passa la sua giornata in mezzo alla gente e ha meno voglia
di parlare:
-Sai che cosa ho scoperto oggi?
-No.
-Indovina.
-Che ne so?
-Prova a indovinare.
-Vediamo: oggi sei uscito, quindi possono
essere successe tante cose, molte di più del normale, di quando stai a casa,
cioè nel 99% dei casi. Che non rispondi nemmeno al telefono…
-Non è vero, magari non mi scapicollo per
arrivare in tempo… e poi a volte non riesco proprio a comunicare con questi
forsennati che chiamano per vendere qualcosa.
Se ci metto un secondo per pensare, poi,
prima di rispondere, figurati che pensano che io abbia riattaccato…
-E a volte riattacchi veramente.
-Nooo, e chi te lo ha detto?
-La mia nuova amica Gudrun…
-È bavarese?
-Sì, sei per caso diventato razzista?
-No, figurati, solo che la maggior parte di
quelle che telefonano dai Call Center sono di München…
-Va bene, la prossima volta le dico di fare
un accento della Pomerania…
-Così avremo risolto anche questo caso.
Tornando a noi, non riesci proprio a
indovinare che cosa può essere successo oggi di sconvolgente?
-Non lo so, lasciamici pensare in maniera
logica, con calma. Oggi, io, per esempio, so che sei andato dal dentista, non è
che avevi appuntamento anche con Hieronimus?
-No, ma la mia scoperta riguarda tutti e due,
ma in maniera diversa, questi stimati professionisti.
Stimati da te, almeno, non da me.
-No, certo, quando mai? Allora che hai
scoperto? Che sei omosessuale e che da grande vuoi fare il dentista?
-Vabbè, vedo che stai pensando ad uno
scherzo, ma invece è serio, piuttosto drammatico direi…
-Come sei sempre esagerato… Allora, me lo
vuoi dire tu? Vedi che mi sto cominciando a preoccupare…
-Brava! Proprio preoccupata devi essere,
perché ce n’è motivo, te lo dico io…
-Mi vuoi dire finalmente di cosa stiamo
parlando?
-Sì, hai ragione, te lo dico subito:
Hieronimus è uno psicopatico.
-Come uno psicopatico? Ma se è uno
psichiatra…
-Infatti, questo è il tragico della commedia
della vita, della sua assurda ma a volte divertente mistura di tragedia e
commedia…
-Non dire cretinate. E poi, come è che tu hai
potuto fare una scoperta del genere? Perché proprio oggi?
-Beh, oggi dal dentista, ho dovuto aspettare
una mezzoretta, quindi come al solito mi sono attaccato alle riviste, ce ne
erano di nuovissime, ancora cellofanate ed allora ne ho scelta una
pseudo-scientifica… non mi ricordo come si chiama, ma è una nuova, non l’avevo
mai vista.
-Una rivista mai vista, interessante...
-SUPER-INTERESSANTE! Ecco come si chiama!
-Bel nome, veramente, originale e per niente
sensazionalista.
-Tutte lo sono, il mondo occidentale è
diventato così, le notizie sono merci da vendere e nient’altro.
-È vero. Quindi è stata questa rivista che ti
ha sussurrato in un orecchio che Hieronimus è psicopatico?
-Non direttamente, ma mi ha fornito un
identikit sorprendentemente perfetto, combacia troppo bene per non essere vero…
-Tu sei fuori di testa.
-No, NOI siamo fuori di testa, tu perché mi
obblighi a queste sedute con uno psicopatico con il codino e i capelli corvini
(così neri che sembrano tinti) ed io che so che non ne avrei bisogno, nemmeno
se fosse una persona degna, la qual cosa non è.
Solo perché, ora che sono in pensione, non esco
e me ne sto qui tranquillo tutto il giorno, allora per te è un motivo di
preoccupazione.
Se ti ho assecondato finora, lo ho fatto per
te, per farti stare tranquilla, magari anche perché ero curioso, ma ora non mi
chiedere di continuare.
-Il mondo è rimasto uguale a prima, come te
lo devo dire? Chi è diventato eccessivamente critico sei tu, uomo perennemente
in pantofole e vestaglia di raso.
-Questo lo dici tu, vedi che il mondo è
peggiorato forte, rifiutarsi di guardare le cose in faccia non serve.
-Sei tu che ti rifiuti di uscire, non io.
-Esco solo quando è necessario. A che serve
uscire se poi dopo ci si limita a fingere che tutto vada bene, che niente sia
cambiato?
-Quella che finge sarei io? No, caro, bisogna
cercare anche di essere positivi no? Chiudersi in un bunker non ha senso.
Ma, aspetta un po’, perché dicevi che SIAMO
fuori di testa? Pensavo che tu insinuassi che lo sarei stata solo io, da come
sei partito…
-Infatti, ma sono fuori di testa anch’io,
solo perché ti do retta e acconsento a farmi scandagliare il profondo del mio
essere da un pazzo che magari è pure pericoloso…
-Ma che pericoloso? Se me lo ha raccomandato
Karl! Eppoi è l’unico disposto a fare visite a domicilio...
-Che meraviglia! Due motivi più che validi:
ecco da chi è venuta la raccomandazione, da uno che ha passato la vita sdraiato
sul divanetto ed è diventato sempre più scemo… se tu me lo avessi detto prima
mi sarei rifiutato, stai sicura.
-Non ti è simpatico, lo so, ma Karl è una
persona intelligentissima…
-Su questo posso anche essere d'accordo, però
si comporta come un idiota, da chi ha imparato non lo so, certo che i suoi vari
terapeuti sono stati capaci solo di farlo diventare sempre più cretino.
Sembra quasi un finocchione.
Non ho niente contro i finocchioni autentici,
intendiamoci, ma quelli che lo sembrano e basta, per fuggire da
qualcos’altro... vabbè, ogni caso è a sé stante.
-Lo so, la vita ci delude spesso, non è quasi
mai come ce la eravamo immaginata…
-No, ma è inevitabile, guarda: in alcuni casi
sembra che ci si sforzi proprio perché le cose vadano male, la maniera di
cercare la felicità unilateralmente e in maniera ossessiva porta per forza ad
una profonda infelicità…
-Sì. Sì, me lo hai detto miliardi di volte.
Torniamo a noi: che diceva la rivista?
-Diceva che lo psicopatico non è sempre un
delinquente, come tutti pensano, anche se in prigione se ne trova la maggior
percentuale, cioè il 20%.
Può essere una persona gentilissima,
manipolatrice, arrivista, che non lega con nessuno e sa capire
meravigliosamente bene i sentimenti degli altri e come sfruttarli alla
perfezione, anche se lui, lo psicopatico, non ne ha.
Ma è proprio questo il suo trucco.
-E questo identikit sarebbe quello di
Hieronimus? Ma se è una persona stupenda, solare, sempre allegro, intelligente
e disponibile…
-Scusa, ma tu lo conosci? Mi avevi detto di
no...
-No, l’ho solo incrociato un paio di volte,
che però mi hanno confermato questa impressione, chi me ne ha parlato e in
termini entusiastici è stato proprio Karl…
-Ecco, come volevasi dimostrare.
-Cosa?
-Cencio ti dice che Straccio è una persona
eccezionalmente positiva e tu cosa fai? Gli credi? Sono due grandi falsi, te lo
dico io, solo che Karl è fondamentalmente buono, il suo problema è l’abbondanza
di sentimenti che gli provoca una turbolenza di confusione in testa… ma
Hieronimus no, è sottile e a volte perfino impercettibile, ma se solo si rende
necessario ecco che ti passa addosso come un caterpillar e ti schiaccia… e sai
perché? Non ha sentimenti, ha sempre ragione lui, perché è determinato e se si
fissa che qualcosa è come dice lui e non come dici te, è meglio che ti scansi,
sennò sono cazzi tuoi… a forza di frasi e insidie verbali ben mirate, ti mette
k.o.
-Non è che invece sei tu che esageri? Non
sarebbe la prima volta. Fammi qualche esempio pratico.
-Niente di trascendentale, sempre piccole
cose, infatti non ti ho mai detto niente, ho sempre saputo che gli
psicoterapeuti hanno un carattere forte…
Però certe robe sono indicative, lo avevo
sospettato, ma ora lo so di certo.
-Allora, questi esempi?
-Beh, come sai noi due fissiamo gli
appuntamenti di volta in volta, perché lui ha un’agenda molto movimentata,
quindi io devo stare a quello che vuole lui ed è anche giusto, perché da
pensionato posso fare quello che voglio e quando voglio, poi essendo lui
disposto a venire qui, dopo tutto, non posso avere pretese supplementari…
-Va bene, ne abbiamo già parlato più volte,
non c’è bisogno di spiegarmi…
-Sì, scusa, allora lui per esempio dice: ti
va bene martedì alle 19?
Io dico: sì va benissimo.
Poi lui ci ripensa, dice no, martedì no, va
bene giovedì alle 16?
Certo, sì, per me va bene, rispondo io.
Poi magari mi ritelefona e cambia di nuovo
l’orario.
In alcuni casi è riuscito a cambiare fino a
quattro volte, data e ora.
E sempre io gli rispondo di sì.
Bene, il giorno prestabilito poi non viene, o
viene un’ora prima, o mezz’ora dopo, o all’orario in cui l’ora doveva
terminare.
Spesso non è un problema, per me, tanto io di
fissato non c’ho niente.
Ma quello che mi manda in bestia è che lui
nega, dice che sono sempre e solo io a sbagliarmi…
-E non potrebbe essere?
-Guarda, la prima volta con tutta la
confusione che aveva fatto mi sono ricreduto anch’io, di quello che ne avevo
pensato, ma dopo, con metodo e diligenza mi sono messo a segnarmi tutte le
volte che aveva cambiato e l’ultimo appuntamento, quello valido…
-E allora?
-Tu lo sai che quando io mi metto a usare
metodi scientifici ho una certa capacità… non mi succede spesso, ma se mi sfidi
divento di un’esattezza millimetrica…
-Non sempre.
-Quando è che mi sono sbagliato?
-Quella volta che dovevi andare a prendere
Maren all’aeroporto, per esempio.
-Ma te l’ho detto che non trovavo la chiave
di casa, che potevo fare? Uscire e lasciare la porta aperta? O cercare
disperatamente di ritrovarla? O rimanere fuori fino al tuo ritorno?
-Va bè, sì, un fattore esterno era
intervenuto in questo caso.
-Che poi eri stata tu che avevi preso per
sbaglio la mia, quindi io ho dovuto cercare la tua…
-Vabbè, vabbè, ammetto che a volte faccio dei
pasticci, tu sei molto più ordinato; poi, quando ti convinci che vuoi essere
scientifico, sei veramente un mostro.
Ma tornando alla tua storia?
-Tornando alla mia storia, non mi ricordo
dove eravamo rimasti.
-Che ti segnavi tutti gli orari
metodicamente.
-Infatti, così ho fatto, ma lui ha continuato
a negare, poi ha iniziato a inventare altre scuse: che mi aveva mandato un
messaggio con il telefonino, per avvertirmi che non poteva venire, che aveva
avuto un imprevisto.
Messaggio che io puntualmente non avevo
ricevuto, o avevo ricevuto solo il giorno dopo, o solo qualche ora dopo…
-Ma tu perché non mi hai mai raccontato
niente?
-Bella domanda. All’inizio mi vergognavo io
per lui. Poi ho cercato di capire meglio cosa stava succedendo.
Confesso che all’inizio ho dubitato di me
stesso, da tanto che questa storia mi pareva paradossale.
Pensavo che magari ero io che ero impazzito,
o che Jonesco da morto mi aveva catturato e ficcato in una delle sue opere
teatrali…
-Certo che te sei esagerato sempre, nel bene
nel male…
-Questo è vero, la colpa diventa
indirettamente mia, a volte mi ci infilo tanto che ne soffro più del
necessario.
Certo molto di più di uno che non ha
sentimenti…
-Ma poi che è successo?
-Poi ci ha provato anche con gli e-mail: ma
il trucco era lo stesso, qui ho pensato che era solo un povero idiota, ma
ancora di più lo ero io che gli davo retta.
Finché gli ho detto che era inutile
continuare, che tutti e due sapevamo quale era la realtà, perché sforzarsi
tanto di negarla?
-E lui?
-Ha tirato fuori delle scuse così
stiracchiate che si schiantavano da sole, ha cominciato a dire che i suoi
pazienti in genere facevano di peggio… cose senza senso, almeno per me, ha
perso totalmente la logica… e senza mai ammettere che aveva mentito e pure
ripetutamente, solo per non fare brutta figura…
-Beh...
-Intendiamoci, non che siano cose di grande
importanza, ma quando siamo arrivati quasi a litigare, mi è sembrato così
assurdo, che io mi metta a nudo, che io mi apra nelle cose più intime con lui,
che mi faccia dire che cosa dovrei fare da uno che si comporta come un bambino,
che inventa ramificatissime scuse solo per evitare di ammettere di essersi
sbagliato…
-Beh, se è così hai ragione, però da questo a
dire che è uno psicopatico…
-Allora leggiti questo identikit. Secondo me
combina.
La donna coi bigodini si mette a leggere la
rivista che l’uomo in pantofole, uscito dal dentista, aveva comprato, per
guardarsela con calma.
L’articolo è di sei pagine, con varie
fotografie, grafici, composizioni di figure, il tutto abbastanza
sensazionalista.
“Nel 1876 Cesare Lombroso scrisse un trattato
nel quale dichiarava che i criminali hanno una corporatura particolare: braccia
lunghe, naso piatto e orecchie enormi. Con il tempo tutto questo si è rivelato
completamente infondato. La crudeltà non è dominio di psicopatici e criminali,
tutti sono capaci di crudeltà, ma non nella stessa misura. Persone con
emotività esagerata e sensibilità eccessiva, che non controllano lo stress e
che ritengono sempre di essere vittime di altre persone e delle circostanze,
hanno una propensione maggiore alla crudeltà.
Ci sono 69 milioni di psicopatici nel mondo,
l’1% della popolazione mondiale, 20% della gente che è in prigione, 86,5% dei
serial killer.
È 4 volte più comune trovare psicopatici
nelle imprese che nella popolazione in generale.
Lo psicopatico non ha sentimenti, ma sa
riconoscere, interpretare e poi usare, meravigliosamente bene, i sentimenti
degli altri.
Mostra ammirazione per il talento e per i
punti forti della vittima. Vuole essere visto come l’unico che veramente nota
il suo potenziale nascosto.
Identifica perfettamente le caratteristiche
della personalità della vittima e finge di condividere gusti ed interessi.
La vittima, pensando di aver trovato
finalmente un amico, gli confida i suoi segreti più intimi, apre il suo cuore
rivelando paure e speranze.
Ultimo stadio della manipolazione, lo
psicopatico crea un anello di congiunzione psicologico che promette una
relazione stabile.
È superficiale, non gli importa dei
contenuti, ma solo di come potrebbe venderli
È narcisista: si preoccupa solo di se stesso
È manipolatore: mente e usa le persone per
riuscire ad ottenere quello che vuole
È freddo, è razionale e calcolatore, perché
ha poca attività nel sistema limbico, centro di emozioni come paura, tristezza,
disgusto.
Senza rimorso: non sente colpa. La parte del
cervello responsabile ha bassa attività.
Senza empatia: non riesce a mettersi nei
panni degli altri.
Irresponsabile: si impegna solo in ciò che
gli può portare benefici.
Impulsivo: tenta di soddisfare le sue
necessità al momento
Incapace di pianificare: non stabilisce mai
una meta a lungo termine
Imprudente: corre rischi e prende decisioni
audaci”
(fonte: Without Conscience - Robert Hare)
Forse mia moglie non aveva tutti i torti,
sono sempre stato un po’ esagerato, sia nel correre troppo velocemente alle
conclusioni, che poi a fondarci sopra tutto il mio credo a venire.
Secondo lei non correvo alcun rischio, e alla
luce dei fatti a seguire aveva ragione lei, solo che nessuno di noi poteva
saperlo.
Intanto io non mi sentivo affatto tranquillo
e ho detto a Hieronimus che poteva bastare così, lui non ha protestato, credo
che abbia pensato che fosse per via dei nostri attriti.
Di questo con lui non ne ho parlato,
naturalmente, ma credevo che in questo caso fosse proprio lo psicoterapeuta che
avesse bisogno di una robusta cura, non io.
Per quanto misantropo, solitario e diffidente
sono una persona abbastanza equilibrata, almeno in vecchiaia, lo sono diventato
sempre di più e lo vedo soprattutto confrontandomi con gli altri.
Ma psicopatici si nasce o si diventa?
Non lo so, però tutto il mondo occidentale,
spinto dalla voglia di risultati, dall’assurdità di voler sempre crescere in
spazi e tempi limitati, si sta comportando alla stessa maniera, solo che
non se ne accorge.
Insomma: magari nessuno nasce cattivo, ma è
la società, quindi la vita stessa, che ti porta a delle distorsioni del tuo
carattere che a volte sono da te conosciute e persino bene, ma alle quali non
puoi sfuggire.
Che cosa era successo a Hieronimus
Klinkenhammer, per diventare quello che era, non poteva essere troppo
differente da quello che era accaduto a tanti altri, che però avevano sfogato
le loro magagne in modo diverso.
Alla luce di quello che venne fuori, solo un
anno dopo, certo si poteva dire che Hieronimus fosse uno psicopatico, ma di un
tipo abbastanza raffinato, perché non era uno che inseguiva solo il traguardo,
ma si godeva, in una certa qual maniera, anche il percorso.
Uno psicopatico in genere vede il suo lavoro
solo come mezzo per arrivare a risultati in denaro e/o potere.
Invece Hieronimus amava in qualche modo
distorto e abnorme il suo lavoro, tanto che lo proteggeva anche da sé stesso,
come si capirà in seguito.
Quando ho messo in dubbio la sua
professionalità, nel caso di orari e appuntamenti non rispettati, per la prima
volta ha perso la sua sicurezza, ha inventato scuse senza senso.
Forse non volendo lo avevo colto in un punto
debole.
Apparentemente era uno normale - se solo la
normalità esistesse - intelligente e tutto, arguto e affabile, forse un po’
troppo solitario, ma quello non è un crimine, sennò per primo arresterebbero
me.
Recitava a memoria, meravigliosamente bene e
senza ridere, le battute dette dagli altri, ma io l’avevo capito che era solo
un cliché, che non era tanto per divertirsi, le usava piuttosto per far credere
che lui fosse quello che voleva che gli altri credessero.
Magari il fatto che avesse un codice di
comportamento assai logico e pieno di buonsenso, nei limiti del possibile, gli
aveva permesso di agire indisturbato per anni.
La gente sarebbe voluta più volentieri
rimanere nella sua ignoranza, rispetto a questa sgradevole verità, a cominciare
da Lena.
Ho saputo che diceva sempre che la realtà non
aveva temperatura, Hieronimus, quando qualcuno lo accusava di interpretarla con
una certa freddezza.
Alla fine sono rimasto antropologicamente
impressionato, se così posso dire, oltre che da tanti particolari assurdi ma
anche logici, da altri dettagli per me ancora incomprensibili.
Delle sue venticinque vittime ora si sanno
vita morte e miracoli, compresa la tecnica usata con ognuna di esse, attraverso
giornali e programmi televisivi che si fanno grassi sulla morbosità della
situazione.
La sua etica professionale comunque è fuori
questione: si è scoperto che non ha ucciso nessuno dei suoi pazienti, nemmeno
un ex.
Del movente quindi nessuno ci capisce niente,
Hieronimus ha massacrato delle persone di tanti tipi differenti e che non si
conoscevano tra di loro, alcune lui le conosceva, altre no.
Un serial killer colpisce una determinata categoria,
qualcuno che fa parte di un folle disegno, spesso dalla logica complessa e
distorta, ma alla fine, col senno di poi, comprensibile.
Qui sembra che le vittime siano state scelte
a caso, oppure facevano parte di quella larghissima fascia dell’umanità che non
erano mai state, nemmeno per un secondo, in cura da lui.
Era questa la loro colpa?
Forse no, pare che anche chi dimostrasse un
qualcosa a lui simile all'amicizia veniva risparmiato.
Sparita nel nulla la donna bella e assai più
giovane di lui, che talvolta lo accompagnava, pare che non fosse affatto sua
figlia. Era una sua vittima o una complice?
E poi complice di cosa?
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