MENTE LOCALE (COME SI FA A FARCELA)

 



 

PRIMA PARTE

 

 

LA PANCHINA ELETTRONICA

 

 

 

Per alcuni anni sono andato spesso nel vicino parco, sulla collina di Kreuzberg, a rilassarmi un’oretta o due. A volte ci trovavo dei pensionati, alcuni di origine italiana, o turca e si parlava del più e del meno. Però le panchine tedesche sono fredde.

Il mio mal di schiena mi ha suggerito di continuare a passeggiare nel parco, ma per conversare con la gente, che è interessante e terapeutico, tipicamente umano (gli animali non chiacchierano) magari meglio al caldo. Va bene anche attraverso il computer e internet.

Chiamiamoli interlocutori i personaggi di una immaginaria panchina nel parco, veri eppure virtuali, nel senso che a sedere là non ci vanno più e quindi non danno nemmeno da mangiare ai piccioni.

Non s'incontrano che in internet e parlano piuttosto per email e neanche tanto frequentemente. Non hanno mai vissuto nella stessa città, sono entrambi italiani, ma si sono conosciuti e incontrati solo una volta, tanto tempo fa. Si sono fatti reciproca simpatia e tra le altre cose che fanno, attualmente hanno voglia di rompersi il capo a cimentarsi in qualcosa che la gente normalmente evita.

In immediata precedenza si è chiacchierato attraverso stereotipi introduttivi: differenze tra metereologia europea e brasiliana del sud, ma quasi in Argentina o Uruguay. Palesi o seminascoste discrepanze tra i parametri tedeschi e italiani, tra brasiliani e italiani, lucchesi e viareggini.

Cose che verranno fuori di nuovo e comunque, non possono certo tacere.

Si passa direttamente alla ciccia arrostita della discussione più concreta, che di cose da dire, cotte e crude, ce ne sono anche troppe. E se devono per forza essere scritte, qui e ora la calma c'è, pure per correggere ed eventualmente cambiare opinione.

Mi piacerebbe chiamare gente di altri paesi, anche fare delle videoconferenze, (che tanto sono gratis,) per sentire cosa ne pensano del consueto più o anche del meno, scriveremmo in italiano, ma solo per praticità.

Chiacchierare una volta era uno sport più diffuso, incontrarsi anche era giocoforza, invece ora le distanze, non solo geografiche, incombono tra gli esseri umani, sempre più disumani, alla frenetica ricerca di un qualcosa di cui hanno sempre meno idea, di una felicità che li porta sempre di più ad essere infelici, guarda che combinazione.

 

 

Omero Tucci 1

 

Caro Ugo

spero che tu stia bene, io me la cavo ancora abbastanza, nonostante l'età e le malattie avute, non ci lamentiamo e mentre lo diciamo ci stiamo implicitamente già lamentando.

Non ti parlo della mia famiglia, almeno per ora, per non dire cose già dette e riportarti noiosi stereotipi della vita dell'uomo sposato, caso abbastanza comune, ma con una persona femminile di nazionalità tedesca, con i figli grandi e scappati via appena hanno potuto e questa è una delle grandi differenze con la vita italiana, dove i figli rimangono in casa spesso fino alla morte dei genitori, e potendo anche dopo.

Le storie di amore non sono il mio forte, mi sono sembrate sempre cose che capitano agli altri, la felicità pure è uno degli argomenti che se si tratta di un film vanno anche bene, di un libro già meno, ma in una vita vera bisogna spesso prendere quello che c'è in giro e non sempre, o diciamo quasi mai, si tratta di rose e fiori, proprio mai quello che ci aspettavamo, o che auspicavamo, insomma che desideravamo.

Il mio ristorantino qui a Berlino però confesso che mi piace sempre di più, nel mio piccolo mi rallegra e mi da' anche soddisfazioni non indifferenti, come ti avevo già raccontato, ma anche tante gatte da pelare e da mettere in salamoia. Anche se in Italia so benissimo che sarebbe peggio e magari anche per questo sono qua.

La vita c'impone regole da dare a noi stessi, prima che ce le diano gli altri, se lo facciamo dopo pazienza, l'importante è che non ci nascondiamo e non fuggiamo da noi stessi, perché oltre che inutile sarebbe stupido. Eppure in tanti lo fanno, e sistematicamente.

Forse te l'avrò già raccontato, non mi ricordo bene, magari te lo avevo solo accennato, nel qual caso con ogni probabilità te lo sarai già dimenticato. Di mio padre Anselmo insomma, il quale con malcelato orgoglio  diceva che grazie alla sua filosofia era riuscito a superare le aspre difficoltà della vita. Quando lo diceva però le facce intorno parevano piuttosto perplesse, ma tacevano forse curiose di sentire quello che avrebbe dichiarato in seguito. Con il mio acquisito e mutante senno di poi, direi per tre motivi fondamentali:

uno) era l'incredulità che proprio lui avesse la faccia tosta di dire una cosa del genere,

due) era la scarsa comprensione del significato della sua affermazione,

tre) era l'opinione decisamente contraria sull'argomento in questione.

Per quanto mi riguardava io alternavo e condividevo le tre correnti di pensiero, con il passare degli anni e piuttosto a intermittenza, a due a uno, o le rifiutavo tutte e tre insieme. Ma una cosa fu proprio utile, devo ammetterlo: mio padre riuscì a stimolare la mia curiosità.

Anche se su di lui non aveva funzionato un granché, o forse proprio per questo, non volendo, mi spinse a informarmi, e a scoprire che il mondo ne era pieno e vuoto allo stesso tempo.

Che diavolo era questa filosofia?

Tanto per cominciare al liceo scientifico la professoressa di tale materia era una di quelle con la faccia inespressiva, sulla quale rimbalzavano invano le saette, che si metteva seduta e faceva la sua lezione fregandosene se qualcuno ascoltava, oppure no. Forse allora la filosofia era l'indifferenza, pensai, ma non mi garbava tanto, dal fuori era una noia mortale e poi non ero sicuro che fosse proprio quella, anzi ne dubitavo.

I vari filosofi dei testi si impegnavano nel cercare dei sofismi - secondo me - appena utili solo a sé stessi e a dichiarare cose rivoluzionarie e fondamentali, ma molto diverse tra di loro, sebbene all'epoca dell'effettivo ed eventuale significato o messaggio io ne avessi un'idea molto vaga. Mi parevano comunque persone che al mondo ci stavano male e trovavano alla loro afflizione delle opportune giustificazioni, un po' per scaricarsi il peso, indirettamente dare la colpa agli altri, alla situazione delle situazioni, all'esistenza in genere, a Dio o a chi per Lui.

Cominciai forse a capirne il senso, dell'utilità di una personale filosofia di vita, quando andai in India e conobbi, per sommi capi, la scuola che insegnava la non competitività. Per me era un concetto nuovo, tutto attorno a me, nella mia vita italiana, fino a quel momento, era basato su tale gara quotidiana, che effettivamente non mi era mai piaciuta. Però non sapevo perché, né avevo la minima alternativa a portata di mano.

Nel frattempo mi ero letto con passione i libri di Luciano De Crescenzo, che parlavano della filosofia greca e lì con Socrate mi sentii subito affine, per quanto non capissi tutto e forse meno della metà di quello che era piuttosto vago ancora, ma si delineava già meglio.

Perché poi aveva accettato di morire per le sue idee, bevendo la cicuta? Chi glielo aveva fatto fare?

Il senso della vita inoltre era un argomento sopraggiunto e pieno di interrogativi complementari e supplementari, e la fottuta filosofia c'aveva un aggancio non indifferente.

Avevo passato la trentina e vidi che tutto quello che avevo attorno, ridotto ai minimi termini, era il bisogno di una certa filosofia di vita ben calibrata, che determinava se un individuo poteva riuscire a stare bene o male al mondo, perché le difficoltà erano tante e di parecchi tipi differenti. Sapersi muovere là in mezzo, fuori dalla porta di casa, significava soprattutto conoscere sé stessi, la gente e di conseguenza il mondo. Dentro era una cosa e fuori un'altra, ma in entrambi i casi bisognava avere una efficace linea di manovra, sia teorica che pratica.

Il corpo era la prima cosa da conoscere però, a partire dall'alimentazione, uso di alcolici o droghe varie. Insomma non lo si poteva maltrattare, che il conto ci arrivava poi immancabile e salato, da pagare con il proprio sangue.

Quando sei giovane passare notti insonni, ore senza mangiare, bevendo tremendi miscugli di alcolici è normale e comune, anche per capire prima possibile come comportarsi per non risultare troppo insensibili nei confronti della nostra parte fisica, nel prossimo futuro, che anche quella ha la sua importanza e non la si può semplicemente ignorare.

Secondo un mio amico filosofo, il senso della vite è migliore e più interattivo del senso della vita, più alla nostra portata, che purtroppo siamo esseri limitati e sempliciotti. Insomma lui lo preferisce e mi ha spiegato anche perché. Forse significa  prendere tutto per gioco ma sul serio, sorprendersi a ogni momento dei miracoli del mondo che avvengono attorno a noi, insomma bisogna fare sì un po' di attenzione, ma non troppa.

A suo tempo io ho sposato una bella e bionda tedesca (Marie Therese, diminuitivo Maite) e i miei figli, bellocci ma un po' meno biondi, hanno sempre parlato in tedesco, non hanno imparato l'italiano. A casa ci stavo e ci sto poco, per via del mio lavoro, a volte al ristorante ci dormo anche, c'ho una cameretta piccola con la TV, il video e i libri eccetera.

Siamo gente che non possiede mai la necessaria calma per poter parlare con calma, oppure raramente. Fretta e interruzioni, nervosismo indotto e inconscio, cervelli che pensano sempre fuori dal presente indicativo, fate come volete voi, alla fine il risultato è quello, e non è bello.

Tante sono le cose da fare in una giornata di ordinaria e moderna esistenza, che ricordarsi di portare a termine le azioni e i propositi è difficile per tutti.

Caro Ugo, mi ricordo del nostro unico incontro di viaggio con la Mitfahrzentrale, bei tempi, ero ancora libero e sposarmi mi pareva impossibile. E i figli? Lasciamo perdere! Avere un ristorante mio, sembrava altamente improbabile e dormivo una notte sì e due no.

Mi hanno detto che in Brasile queste agenzie si chiamano Bla-bla-car, ma se uno non ha voglia di parlare?

 

 

 

 

Ugo Lai 2

 

Carissimo Omero,

tu mi parli di filosofia e devo intervenire. Sai che sono un tipo concreto, il mio lavoro di ingegnere navale mi porta a questo.  Beh, sono io che l’ho cercato – il lavoro, intendo – e quindi la concretezza in me c’era già.

Accetto di buon grado…. cioè, non è che l’accetto: l’assumo. Volevo dire: un bel sì alla filosofia di vita, cioè quello in cui uno crede e poi lo mette in pratica, perlomeno ci tenta.

Ma la filosofia da sola, questa affannosa ricerca dei significati della vita, mi sembra cosa di chi non ha niente da fare. Molto tempo libero, molto pensare. A volte lo sono anch’io un po’ filosofo, ma quando sono in ferie. Non so se è pura invidia: insomma, mi piacerebbe avere parecchio tempo per pensare.

Sta di fatto però che hai nominato De Crescenzo, da cui ascoltai le parole “sono un ottimista realista, quindi un pessimista” riprese da non so chi. Mi ci rispecchiai subito. Quindi, in definitiva, viva i filosofi che hanno tempo di pensare anche per me!

La mia filosofia di vita (legata al lavoro), riprendendo il discorso che non avevo ancora cominciato, mi ha portato in giro per il mondo, soprattutto in riva al Pacifico, in Cile, Messico, Giappone, per poi approdare – chissà se in maniera definitiva –  sull’Atlantico, in Brasile.

A pensarci bene, è stato l’Atlantico a scegliere me. Atterrato a Porto Alegre, prima di andare a Rio Grande per lavoro, decisi – su consiglio del mio collega Alberto – di andare in direzione opposta, verso nord, a Torres. Era l’unica spiaggia che si evidenziava nei circa 600 chilometri di costa del Rio Grande do Sul, secondo questo ingegnere. Infatti me ne innamorai subito.

È lì che avvenne il mio battesimo atlantico. Passato il ponticello di legno ai piedi di quello che è (anche) chiamato “Morro das Furnas” - lato nord, arrivai in un piccolo spiazzo elevato dove normalmente ci sono pescatori, che infatti erano là. Mi avvicino ai bordi di questo che in definitiva è un grande scoglio e sento un rumore sordo. Capisco cosa era quando davanti vedo una parete d’acqua avanzare verso di me. Troppo tardi per scappare, mi girai e aspettai l’onda per l’inevitabile bagno.

Meno male che, seppur fosse agosto, la temperatura era mite e quindi non ebbi conseguenze sulla salute. Ora a Torres ci abito, dato che lavoro a distanza e a Rio Grande devo andarci solo un paio di volte al mese.

Preferisco Torres, perché è meno caotica per buona parte dell’anno. Da poco prima di Natale a fine febbraio, come sai, me ne scappo in Toscana, a Toiano, paese con tre abitanti ufficiali che diventano quattro in quel periodo dell’anno. Sono gli unici mesi che vivo lontano dal mare: beh, lontano molto relativamente. Ma chi nasce davanti alle onde non può lasciarle per molto tempo e un viareggino come me non fa eccezione.

Andrei nella mia città natale, se non fosse per il Carnevale che vuol dire, per me, confusione. Più lontano dagli esseri umani, meglio è. In questa situazione, il mio soprannome, “Remoto”, appare azzeccato, anche se nato per un’altra ragione.

Mio padre si chiamava Pierferdinando e per via della lunghezza del suo nome, decise che il figlio, anzi, i figli, dovessero avere un nome corto .Così sono nato io, Ugo, e successivamente Ivo ed Eva.

Questo mi ha provocato il primo scontro con la razza umana: al momento dello studio dei verbi, a quelle che una volta si chiamavano scuole elementari, i miei compagni iniziarono a prendermi in giro, chiamandomi “Passato remoto”. Dicevano, infatti, che io ero il “passato remoto del verbo ugolare, io ugolai, tu ugolasti, egli ugolò….”: mi canzonavano giocando sul mettere insieme il mio nome e cognome, Ugo Lai. Inutile che io dicessi che “ugolare” non esiste, anzi: la mia arrabbiatura rendeva il tutto più divertente, chiaramente per loro.

Qualche anno più tardi, alle superiori, un altro compagno di classe decise che il mio soprannome aveva bisogno di un taglio, perché così com’era a chiamarmi si perdeva troppo tempo. Allora potevano chiamarmi semplicemente col mio nome, Ugo: mi era stato appioppato apposta! Ma niente, il soprannome rimase, dimezzato, ma rimase. E così per tutti sono diventato “Remoto”. Che come vedi, in definitiva mi si addice.

Ti rispondo sulle Bla-bla-car. Io ne ho presa una in tutta la mia vita, quella con te. Siccome ho avuto fortuna, nel senso che ho trovato una persona con cui effettivamente ci parlo bene, soprattutto quando abbiamo opinioni differenti, non ne ho presa più una. Così ho il 100% di gradimento. Poi sai che a me non piace molto parlare. Quella volta a Berlino fu un caso, una necessità improvvisa, come ti dissi subito.

Tu, invece, hai avuto successivamente altre esperienze, magari curiose?

 

 

Omero  3

Spero che tu stia bene, in forma sotto ogni punto di vista, nei limiti del possibile, considerando che anche lì in Brasile il mondo decadente starà facendo il possibile per portarti verso qualcosa di più vicino al contrario. Resisti!

Chi ama il mare e forse anche solo l'acqua, per me, ama la libertà. Nel mio ristorantino ho messo su diversi acquarietti pieni di pescetti colorati, più uno grande con i pesci da mangiare, che fa da parete divisoria e mi è costato una cifra quadrata più diverse tonde. La manutenzione anche è un lavoro a sé che mi sobbarco io, visto che manualmente non faccio altro. La gente ci viene anche per ammirarlo, che modestamente è una succursale dell'acquario di Genova, ma senza squali.

Con la Mitfahrzentrale ho avuto diverse altre esperienze, tutte buffe e/o didattiche in qualche maniera. Sai che a Berlino c'è quella per sole donne, o solo per omosessuali?

In particolare mi ricordo un viaggio con un abruzzese di Pacentro, cameriere di ristorante in loco, più due tedeschi simpatici, ma che parlavano meno assai. Quando ci lasciammo a Firenze lui ci dette l'indirizzo per scrivergli, magari. Poi non ha mai risposto alle mie due lettere, però durante il viaggio ci aveva raccontato tutta la sua vita, ideali, progetti, filosofia spicciola e quotidiana, che ci aveva annichilito tutti e tre. Doveva essere il 1984 o 85, mi pare.

Penso che il Brasile e Berlino abbiano qualcosa in comune: la mentalità aperta. Per il resto il tedesco e il brasiliano sono quasi opposti come maniera di vivere, e dal punto di vista filosofico. I tedeschi hanno avuto in passato un sacco di filosofi importanti, i brasiliani cominciano recentemente ad averne qualcuno attualmente, ma senza grosse pretese.

 Lungi da me il pensiero di scassarti i cabbasisi, ma per capire bene cosa io sento importante per la mia vita, ti devo mettere un minimo al corrente della storia che spesso racconto anche ai miei clienti, ma solo se me la chiedono e ti dirò che mi succede abbastanza spesso.

In tanti mi comunicano che la mia, secondo loro, è una creazione piuttosto originale, nell’ambito dell’enorme schiera di ristoranti che esistono qua a Berlino, solo di italiani ce ne sono 800.

Io gli rispondo che potrebbe essere perché non sono un ristoratore come gli altri, cioè a me 'sta passione mi è venuta solo in vecchiaia, anche perché prima non mi ero certo soffermato tanto a pensare a certe cose.

Da una decina di anni invece ho capito che noi italiani c’abbiamo un fottuto dono speciale per la gastronomia, una fortuna e un talento che non solo non dovremmo sprecare, ma che è anche una cosa assai romantica.

Quando ero bambino il primo negozio che mi è interessato, o che mi affascinava, era quello di giocattoli; in un secondo momento il negozio più bello per me era quello di caccia e pesca, dopo c'è stato il negozio di dischi, poi quasi alla stessa epoca quello di libri. La libreria e poi quello dove si affittavano o si compravano cassette video. Dopo, per una certa epoca, volente o nolente, nei bar e nei ristoranti, per quanto mi affascinassero poco, ci ho lavorato abbastanza. Tanto da capire che può essere bell'assai, ma che spesso o quasi sempre viene fatto senza entusiasmo, senza voglia di fare veramente qualcosa di gratificante per te e per i tuoi clienti, volenti o nolenti.

Lo so, i soldi avvelenano tutto. Specialmente se le cose non ti vanno bene, finisci per pensarci troppo, anche se non ci volevi pensare per niente, perché ti mancano, hai preso un prestito e potresti anche fallire, perdere tutto il lavoro e il capitale, insomma le prospettive di sopravvivenza. Ed è per questo che piuttosto frequentemente si ignora il punto di vista fondamentale, l'obbiettivo primario.

Vale a dire la qualità, non solo del mangiare, ma di una linea generale, di arredamento, decorazione e di servizio verso un cliente che prima si deve abituare a un qualcosa che di solito non gli viene dato.

Cioè sentirsi come a casa, ma non troppo.

Nella gastronomia c'ho visto tante persone intelligenti e ottimi cuochi riuscire a distruggere quanto di buono ci avevano messo, a volte quasi uscendone pazzi.

Male, anzi bene, diciamo così-così.

L'Artusi per molti è solo un famoso testo di culinaria, ma di lì mi è venuta l'ispirazione, perché è un librone che ti comunica un entusiasmo abbestia per una buona cucina, per una culinaria italiana e sana.

Per questo il ristorantino in questione l'ho chiamato il Pellegrino, che poi dell'Artusi è il nome proprio, in suo omaggio e anche perché prima di arrivare qui ho pellegrinato a sufficienza e ho una certa esperienza. Che sarebbe poi quella che mi ha fatto interpretare il ruolo del ristoratore e della buona gastronomia, dal punto di vista non patriottico, che quelle per me sono baggianate, ma certo pratico e sentimentale, cercando di non essere troppo nostalgico, perché l'Italia che mi garbava ormai quasi non esiste più.

A livello gastronomico noi e pochi altri dobbiamo lottare per mantenere quelle che sono tradizioni, ma non sono affatto cose obsolete, anche se il nuovo arriva e vuole scalzare tutto, se ne frega della bellezza, vuole solo la velocità e la modernità.

Il nostro piatto-tipo è eccellente, ma senza raffinatezze inutili, le porzioni non sono né scarse né abbondanti, c'ho un cuoco albanese, che lavora con me da sei anni. Zatti sa a memoria cosa deve fare e lo pago bene, la cucina la dirige lui, ma so che ha dei gusti simili ai miei e accetta suggerimenti e idee, sennò lo butto fuori.

Scherzo eh? Intendiamoci: se Zatti se ne andasse sarei messo male assai, ma credo che si trovi bene con me, che non gli rompo tanto le scatole come fanno gli altri padroni e oltretutto siamo pure quasi dei mezzi amici. Anche se non si parla tanto, le occhiate dicono abbastanza, se ci vuoi fare caso, durante il lavoro in lui io noto spesso orgoglio e giovialità.

La decorazione dei piatti c'è ma essenziale, l'occhio vuole la sua parte, siamo d'accordo, ma non deve scassare eccessivamente la minchia, se quelli vogliono delle cerimonie sanno che qui non ce ne sono proprio e non ce ne sono mai state.

Non so se l'avrai capito, ma io disprezzo certe ipocrisie. Quei ristoranti dove c'è una cortesia esagerata e leccapiedi io non li sopporto, dove il cameriere non ti lascia nemmeno riempire il bicchiere e ti fa sentire controllato in ogni tuo movimento. Così voglio che siano i miei due camerieri, non proprio al contrario, ma piuttosto trasparenti, gentili ma senza troppe smancerie e ruffianate, senza salamelecchi. Il cliente si saluta, certo, se non siamo troppo indaffarati, ma non come se fosse il nostro salvatore dalla miseria o la persona più simpatica del mondo.

Franz e Carlo non sono vecchi, ma nemmeno tanto giovani e sono vestiti in borghese. Le divise, le livree o i pantaloni neri e camicia bianca non mi sono mai garbati. Si lavora principalmente su prenotazione, si fanno cose da portare via, si fanno consegne a domicilio, ma di insalate miste, anche di pesce, carpacci e tartare, insomma solo piatti freddi, perché il tempo e lo spazio possono rovinare pietanze meravigliose e dopo non c'è nessuna scusante.

Non credo che esistano tanti ristoranti al mondo in cui si contempli il ruolo del jolly, ma secondo me è fondamentale, per questo noi abbiamo un calabrese quasi normale, a parte l'enorme massa corporea, Tino, diminuitivo di Giustino, che sa fare tutto e fa anche le consegne, ma dove c'è necessità arriva lui, non c'è bisogno neanche di chiamarlo.

A volte succede che non faccia in tempo a cambiarsi e arrivi ai tavoli con le pietanze calde, dentro una cerata gialla da marinaio, con il berretto gocciolante dello stesso colore, facendo però bene attenzione che il liquido indesiderato non cada nei piatti. La gente ride e crede che lo facciamo di proposito, ci vuole anche un po' di comicità in un ristorante, fa parte della nostra tradizione.

Tino aiuta dappertutto quindi pure in cucina, che per fortuna è spaziosa, inoltre è il nostro buttafuori, ma non ne abbiamo quasi mai avuto bisogno, la gente lo guarda e non chiede nemmeno chi mai sia, ma si comporta di conseguenza.

I prezzi non sono bassi, ma nemmeno alti, i clienti con pretese assurde vengono convinti a cambiare aria o atteggiamento da me in persona, sorridente ma non troppo, che sto in sala vestito come un cliente qualsiasi.

Uno con l'occhio clinico, però, uno non eccessivamente straccione, ma nemmeno troppo raffinato nei dettagli, che non sto a fare l'imbonitore per nessun motivo al mondo. Non vado nemmeno ai tavoli per chiedere se va tutto bene, ma se mi chiamano mi siedo e racconto aneddoti e bischerate varie, nel senso che voglio divertire loro, se mi apprezzano come persona, ma anche me stesso. Una cosa deve opportunamente alimentare l'altra, sennò siamo fritti e con l'olio di soia.

Come ti avevo più volte accennato stavolta introduco veramente quest'amica comune, di lei mi ero innamorato una trentina di anni fa, o erano quasi quaranta?

Questo non lo voglio sapere.

Per fortuna che a suo tempo mi ha snobbato, sennò a questo punto non saremmo certo amici come ora. Insomma Adalberta, detta Albertina, è un'italiana che, per fare un'eccezione, non ha seguito la fuga dei cervelli e ha mantenuto il suo, che è ragguardevole, insieme con il sistema gastrico, stoicamente a soffrire nella penisola, non nella città dove è nata, che è più un paese, Casale Marittimo, ma a Viareggio, dove sei nato te, forse per caso.

Nonostante la sua amarezza verso l'Italia, la quale però non accetta di lasciare che in vacanza, è una persona troppamente simpatica, una ex bella ragazza che mi manda spesso telematicamente affanculo, se non volentieri, come se fosse la prima epica volta, e di solito ha ragione lei.

Ultimamente Albertina mi ha detto che ti conosce, anche lei è di Viareggio, non so da quanto tu te ne sia andato ma la devi aver conosciuta lì, mi dimentico sempre di chiederglielo e poi è una che legge perfino dei libri e si diletta con la penna d'oca virtuale come noi.

Anche te mi avevi parlato di una mezza amica, recentemente conosciuta se non sbaglio, che voleva partecipare al nostro dibattito, poi ha cambiato idea?

 

 

Albertina Bombonato 4

 

Lo so perché mi avete invitato, per parlare male dell'Italia, ma visto che vi ho sgamato non lo farò.

Mandami foto del ristorante, Omero, ho detto al mio compagno che vorrei vederlo e mangiarci anche qualcosetta, ma quanto si spende al Pellegrino? Martino ha detto che mi ci vuole portare, ma se ho ben capito ci sono 1200 km di mezzo e ci vorrebbe una scusa plausibile per passare qualche giorno là. A quanto mi dicono è una bella città, turisticamente parlando, o no?

Voi siete scappati e forse avete avuto ragione, ma vigliaccamente ci avete lasciato nelle peste. Io vi perdono perché mi siete quasi simpatici, ma potrei sorprendervi e mi riconoscerete forse a stento, se prima ero una ragazza atipica ora lo sono anche di più e come italiana lasciamo perdere.

Qui una piccola fuga mentale, e spero quasi letteraria, che ho scritto ultimamente, fatemi sapere se vi piace.

 

 

Cognomi maledetti

 

"Ho passato diversi anni in una specie di bozzolo, dentro casa mia, vicino a Orte. Non ci si stava poi malaccio. Poi ci trasferimmo, ma non siamo andati tanto lontano, a Ronciglione, vicino al lago di Vico.

La parte seguente, quella di ora, è stata molto più fitta, dicono che sia principalmente una questione di età, più andiamo verso la vecchiaia e più il tempo passa in fretta.

Però io credo che i timidi come me, poi, possono pure rompersi le scatole, di sé stessi e del mondo attorno e scoppiare fuori e dentro, anche a più riprese. Botti di vino e botte in testa.

Insomma chi se ne frega dei cognomi? Direte piuttosto giustamente voi, ma io da un po' di tempo mi sono convinto che quello che sono io oggi è la mia storia personale, a cominciare da come mi chiamo e dai miei antenati, dai loro cazzi di nomi.

Sbaglio?

E chi se ne fregherebbe di chi sono io, oggi?

Bando al nichilismo moderno, la mia storia personale, dei miei stessi avi e il mio improbabile cognome, maledetto o benedetto da chi non si sa, se hanno anche un mezzo un significato, qualsiasi esso sia, io lo voglio scoprire.

Di che cosa vivo? Ma non devo lavorare, io come tutti?

Giusta domanda, ma il caso volle, o forse non fu il caso o la mia indotta ma assai dotta proiezione mentale, che io lavorassi in una casa araldica.

Che cazzo sarebbe 'sta casa araldica?

Niente parolacce, per favore, la casa araldica signori miei è dove in pompa magna si fa finta di studiare i cognomi, gli alberi genealogici insomma, per venderli ai primi o ai secondi allocchi che arrivano qui pieni di curiosità vuota, così come di ignoranza colma e straboccante."

 

(Difficile o persino improbabile capire quando si deve usare il corsivo, in questo testo, oppure no.)

A Sorano ce ne era una che faceva capo a quella più grande e centrale di Grosseto, sebbene fossimo in provincia di Viterbo, a Bagnaia c'ero io e Coluccini Adalberta era arrivata dopo, da poco, cioè quando il lavoro era aumentato insieme alla crisi, alla pandemia.

A volte, la gente meno soldi ha e più li vuole spendere in cose inutili, o abbaglianti di un contenuto che poi si rivela inesistente. Non che l'araldica faccia schifo in senso assoluto, ma ci sono tanti in mezzo che vogliono solo i soldi e se ne fregano del resto.

L'avevo richiesta io, un'assistente valida, insomma una segretaria jolly, possibilmente piena di entusiasmo e lei lo era, anche troppo. Non era qualificata per quel lavoro, ma nemmeno io lo ero e sicuramente nemmeno quelli della sede centrale, ma questo non importa proprio a nessuno. Sì, la gente fa finta di voler sapere la verità, ma ne ha un sacro terrore. È meglio la bugia, è più docile assai e segue i nostri desideri, anche se poi ci potrebbe pure scappare di mano, ma questo è un altro discorso.

A Grosseto erano contenti del mio lavoro, insomma e dell'aumento del fatturato, (del nero sottobanco non se ne parli nemmeno,) così me la mandarono subito.

 

“Personalmente ho conosciuto Krot a Costanza, sul Mar Nero, mi disse che i cognomi maledetti erano dodici, compreso il suo e il mio, ma erano magiari, cioè mezzi ungheresi.

(A dirla tutta venivano dalla Transilvania perché alcuni dicevano che erano i parenti di Vlad il vampiro e forse per questo erano maledetti e allora si trattava piuttosto di Romania, ma siamo sempre nel circolo delle ipotesi maleodoranti del lago Balaton, poi vi spiego).

Non mi ha saputo spiegare perché erano detti così male, i maledetti, ha parlato un bel po’ di questa storia, tra un bicchiere e l’altro. E sono anche andato a documentarmi su internet, che a quel tempo non esisteva ancora, cioè molti anni dopo, vale a dire l’anno scorso e comunque non c’era nulla di attendibile, o sono io che non ci ho capito troppo.

Come mi aveva detto Krot la base di tutto era che ogni notizia veniva sistematicamente cancellata, non si sapeva da chi, però si poteva intuire. E naturalmente il frutto di questa sua intuizione non me l'ha spiegata per niente.”

“Ma perché erano maledetti?”

“Non me l’ha detto.”

“E poi da chi?”

“Nemmeno, te l'ho appena accennato.”

“Scusa, ma quello che dici mi pare campato per aria. E cosa c’avevano a che fare con Sorano, poi?”

“Niente, o forse tutto, insomma io non lo so, ma tieni conto che tutte le domande che mi fai te, me le sono fatte anch’io all’epoca, ma una risposta fu che a Sorano c’è il cognome Corotti, Crotti o Corti, che lui mi aveva detto che erano la logica italianizzazione di Krot.”

“Non solo qui ci sono.”

“No, ma qui non c’è una concentrazione maggiore? Mi e ti chiedo di conseguenza logica?”

"Forse, ma chi ne sa di più non ci tiene a divulgare, mi sono spiegato?"

"No."

"Infatti. Vedo che hai capito. Sapere o avere fede, la seconda cosa non è facile, ma forse meno complicata, in qualche caso."

"Kierkegaard?"

"Bravo, ecco. Se la leggenda viene portata alla luce come verità finisce la sua aura romantica e diventa storia."

"Ma anche la storia viene mistificata e manipolata."

"Quindi la leggenda è più onesta e sincera."

Il notaio Zinn scolò l'ultimo bicchiere di bianco e mi portò a fare una meditazione o chissà che cos'altro, ma in religioso silenzio, in un antro buio e muschioso proprio nel centro di Sorano, che però io non seppi più ritrovare. Aveva una chiave nera gigantesca, minimo di mezzo chilo, che girò con un scricchiolio e poi una specie di schiocco finale. Era quasi giugno, ma là dentro gli aliti facevano nuvolette di vapore. Scendemmo sugli scalini irregolari scavati nel tufo.  Una specie di oltretomba, più oltre e sotto un puzzolente luogo chiuso e abbandonato da Dio e dagli uomini, o da chi per loro...

Sulle pietre irregolari e scure delle nicchie, con delle statue coperte di ruggine, ossidazioni, limo e sporcizia, alcuni simboli con delle croci che sembravano coperte da mezzi bubboni arrotondati, ma si vedeva da male a peggio e l'odore di terra era più forte che in ogni altro luogo da me mai visitato.

Ero così impressionato che la concezione del tempo e dello spazio là sotto mi svanì dalla memoria, non so quanto ci siamo stati e cosa abbiamo fatto. L'ultima cosa che ricordo è che ci siamo inginocchiati davanti a una specie di altarino, il notaio ha pronunciato alcune parole in una lingua sconosciuta... sembrava slavo, ma poteva essere anche una antica lingua indoeuropea, insomma... io mi sono ritrovato a casa, da solo, sdraiato sul divano, come se mi fossi svegliato da un profondo sonno e non so come ci ero arrivato. (Difficile o improbabile capire quando si deve usare il corsivo, in questo testo, oppure no.)

"Coluccini, che fa dorme? Ma riprenda a scrivere, per favore! Aspetti: cioè fino a qui ha scritto? Ah, sennò le ripeto tutto. Va bene, stia attenta ora:

Le nostre origini, per misteriose che appaiano, sotto sono sempre solide, nel mistero che le avvolge, prendete me, per esempio. A prima vista sembro mezzo matto. Dopo, con il tempo, l’idea iniziale rimane e si solidifica.

Mezzo scemo forse sarebbe l'espressione più consona. Ma l'altra metà potrebbe sorprendervi, non necessariamente in maniera positiva. Si aggiungono altri elementi di minore importanza, con lo scorrere degli anni, ma quello spezzatino d'uomo non risulta mai pronto e continua a bollire. Chi mi conosce forse non sa di non conoscermi veramente, come accade tra le persone, già conoscere sé stessi è piuttosto improbabile, dove andiamo e da dove veniamo, non necessariamente in quest'ordine.

Magari sono un pazzo atipico per tre quarti, le percentuali però oscillano. Un fuori di testa che si tiene le turbolenze dentro, insomma, senza lasciarle esplodere.

La spiegazione è che se i miei genitori fossero stati persone comuni forse lo sarei diventato di più anch'io. E poi ci sarebbe anche da dire che l'ambiente attorno non mi aiuta di sicuro. Magari è per questo che la normalità non mi piace, mi annoia, soprattutto la mia. Insomma la evito appena me ne accorgo."

"Non mi pare rilevante tutto questo, se così posso esprimermi, ai fini della nostra ricerca, signor Cotalini Diaz."

"Coluccini, si lasci servire da chi ha più qualifiche ed esperienze di lei (anche se non tutte necessariamente positive): il mio cognome, maledetto esso sia, è rilevante e benedetto non solo per la mia curiosità, ma anche per ricerche eventuali e future di un eventuale cliente, maschio o femmina esso sia, italiano o turca, che ne so io, ci si presenti qui anche in un potenziale venerdì mattina. Non mi sono spiegato? Scriva, per cortesia e taccia."

 

Il notaio Zinn forse era un imbroglione, come spesso succede in questo cazzo di mestiere, ma a pensarci bene anche negli altri, che se si impegnassero nel fare bene, tutto quel male che fanno si arricchirebbero. Ma no, quelli vogliono ingannare prima sé stessi e poi gli altri, sennò la vita sarebbe troppo noiosa, a pensarci bene hanno quasi ragione.

Insomma ci credevo e non ci credevo, ma lui aveva una faccia piena di rughe e di ragione, una specie di saggezza dello sguardo, e più che altro lo seguivo quasi con piacere finché non si volatilizzò con i miei soldi, o con quello che volevano realizzare, cioè le origini se non di tutti almeno del mio cognome maledetto.

Bartaleoni o Bartaleone?

Mi viene in mente qualcosa di incrociato tra il famoso ciclista, coniatore dell'espressione gliè tutto sbagliato gliè tutto da rifare e un animale fiero e re della foresta, non credo che potesse essere un'attendibile ipotesi, a quei tempi lontani in cui si formò il cognome in questione non potevano certo prevedere il futuro semplice, figuriamoci quello anteriore...

Oppure una forma contratta, invero molto contratta, di Bartolomeo o Bartalomeo Colleoni, il famoso condottiero...

 

"Certamente, il capitano di ventura. Mi scusi però, ma lei non si chiama Cotalini Diaz?"

"Coluccini, gliel'ho già detto e ridetto, io sono Manlio Enrico (o anche Manrico) Bartaleoni, o Bartaleone, all'anagrafe e fuori da questo Ufficio Araldico Valerio Appretini. Cotalini Diaz è solo una copertura. Se lo ricordi. E quello che lei scrive ora, un giorno sarà parte integrante di un librone di almeno una decina di chili, profumato di storia e di geografia antica, con mappe ingiallite e foto di manoscritti di pergamena... un testo assai competente sui cognomi maledetti in questione, insomma. Ci metteremo anche il suo nome e cognome, in sfolgoranti lettere dorate, se le farà piacere, quindi faccia attenzione e scriva."

(Difficile o improbabile capire quando si deve usare il corsivo, in questo testo, oppure anche in altri, non lo so.

Boh?)

 

Scoprii allora di avere una personalità doppia o tripla, insomma dentro di me c'era se non il diavolo, qualcosa di sulfureo e strano, che io stesso non controllavo, anzi io meno degli altri, che quelli a urli e schiaffoni mi mettevano in riga, ogni tanto, ma io non ce la facevo. Quasi più.

Ero stato lento mollusco in un bozzolo per anni, o conchiglia che sia... infanzia e adolescenza tutte intere, la vita da adulto poi spezzata in due parti ben distinte, una stava continuando ancora. Ma non sapevo dove sarebbe andata.

Zinn mi convinse facilmente che proprio in Ungheria mi avrebbero dato delle risposte non indifferenti, sul lago Balaton c'era un agenzia, la Cagliostro e Figli, (in ungherese si dice Cagliostro és fiai) che aiutava a trovare le origini dei cognomi maledetti, tra le altre loro specialità in occultismo, addirittura come occultare i soldi dei loro disgraziati clienti.

 

Non capii perché poi ci dovessi andare anch'io, ma il mio principale aveva dei piani ben precisi, almeno su di me e il mio ruolo nella sua agenzia, forse anche nella sua travagliata esistenza.

Così ho conosciuto mio marito, credo di essere stata l'unica donna per lui, delle mie storie precedenti quindi a lui non ho mai parlato.

                                                                                                                                                                                                                                    firmato

                                                                                                                                                   Adalberta Coluccini in Bartaleoni

 

 

La scrittura è stata la mia principale valvola di sfogo e fuga dalla realtà troppo asfittica e grigia, confesso, ma ho vinto anche dei premi e pubblicato, a mie spese, dei libretti carucci, a quanto mi dicono, non di prezzo, ma di moderata bellezza.

Della storia che avrete letto non c'è niente di vero, tranne che il lavoro in un istituto araldico. Mi hanno anche chiesto di diventare socia, ma mi dovrei stabilire a Firenze e le mie ragioni di sempre, le mie forti radici, non me lo permettono. Non mi sono sposata, ma ho un figlio grande e una figlia media, convivo con Martino, ma tecnicamente non è il loro padre, anche se lo sembra più di me come madre. Sono stata troppo di una cosa e poco di un'altra, ma non ve lo voglio anticipare. Sì, confesso che la filosofia di cui vi riempite la bocca voi due è stata magari la più grossa mancanza che ho avuto io , mi piace parlarne anche a me, ma poi la vita è tutta un'altra cosa.

Vi ho conosciuto separatamente, voi vi siete incontrati una volta sola e vi scrivete da anni, prima con la carta ora sugli e-mail. Ben strana la vita, più lontani ed estranei siamo e più abbiamo voglia di confidarci.

Ma dicevo che la filosofia è stata la mia più consistente mancanza, perché ora in vecchiaia mi rendo conto che ho perso il controllo della mia vita, proprio perché l'avevo voluta troppo indirizzare e dominare. A vent'anni credevo di aver capito tutto e ora a sessanta mi rendo conto che invece non avevo capito niente o giù di lì. Certo che attorno anche tutto è cambiato, ma forse l'errore mio è stato avere i piedi troppo per terra e troppo presto.

 Tutti e due avete rischiato e vi è andata bene, da quel che mi dite di voi e del vostro mondo per me straniero assai e in maniera diversa l'uno dall'altro.

Quando te ne sei andato te, Omero, le cose cominciavano a precipitare, te Ugo invece te la sei scappata quando si peggiorava già da tempo, io di occasioni ne ho anche avute, non dico di no, ma forse ho avuto solo paura.

Comunque sia credo che tutto sia degenerato dagli anni novanta, forse non solo in Italia, ma dappertutto, almeno per quello che leggo e sento dire dalla gente che se n'è andata via di qui o di là, a tempo debito.

Amarezza, dici Omero? Beh, un po' è così, ma poi anche altre cose di cui magari discuteremo più avanti.

 

 

                                                                                                                                                        Per ora un bacione anzi due

                                                                                                                                                            da Albertina vostra

 

 

 

 

Gualtiero Fambrini 5

 

Visto che l'amica di Ugo si è tirata indietro, il quarto pensionato a chiacchierare con estrema calma sulla panchina, (nel parco virtuale piuttosto primaverile e dotato di uccellini e piccioni svolazzanti sugli alberi e sui fiori,) è un uomo, si fa per dire. Diciamo piuttosto una specie di babbo natale con gli occhi storti e i lunghi capelli bianchi, la barba candida, insomma un fottuto pluri-strumentista di nicchia e toscano.

Come amico di Omero su certe cose mi troverei d'accordo con lui, su altre no, ma quando ci si incontra, io seduto comodamente al ristorante Pellegrino e lui che vaga trai tavoli, poi si siede a bere un bicchierotto con me, ci facciamo le nostre sguaiate risate e si voltano tutti.

Me lo ha detto lui, perché io non ci vedo.

Oltre a un poliedrico musicista sono anche un mezzo filosofo, nel senso che cerco sempre un significato, un senso anche dove non c'è, io ce lo metto. Se a volte non funziona e si scolla io tento di appiccicarcene un altro, diverso ma non troppo. Il mio proverbiale acume attaccato a una lunga e larga esperienza di vita, ma anche di morte, mi consente di vedere oltre, non sempre però, ma provare ci provo lo stesso.

Per esempio il racconto in questione, appena letto da Clara mi è garbato, ma non so che cosa significhi, o dove voglia andare a parare, non che questo sia necessario, ma se ci fosse un messaggio, uno qualsiasi lo vorrei sapere. Nemmeno la mia brava figliuola ne ha trovato uno di significato, ma tanti mischiati insieme, ci si è fatta delle risate che a me hanno fatto piacere, ma mi sono dovuto far ripetere più volte e ogni volta la frase in questione, non perché non l'avessi capita, ma lei ridendo non l'aveva pronunciata correttamente. 

Intanto qui ci si mangia bene assai e poi mi fanno cose anche fuori dal menù, a patto che siano sul libraccione dell'Artusi. Normalmente per queste richieste c'è da aspettare di più, ma è un servizio che fanno a tutti, se a disposizione ci sono gli ingredienti l'Artusi è il loro pantagruelico menù, sfido chiunque, non solo a Berlino, a poter fare lo stesso.

Da Omero ci si trovano dei vini toscani buoni e non troppo caricati di euri e alla fine se sono con Clara lasciamo la macchina qui e prendiamo un taxi. 

Mia figlia mi lascia uscire da solo, se volete saperlo si fida quasi ciecamente di me, anche se io sono sproporzionatamente orbo. Di giorno e di notte, per me non fa alcuna differenza, di rapinatori qua non ce ne sono tanti e poi se ne arriva uno gli sgancio subito il portafogli. L'orologio non ce l'ho e nemmeno il cellulare. Non è mai successo comunque.

E poi così in casa non la disturbo con i miei dannati strumenti musicali più o meno etnici, o chiamandola ogni minuto per farmi leggere un email o per farne scrivere uno di risposta.

Stiamo scrivendo anche un libro insieme, che spiega come e perché si deve suonare uno o più strumenti musicali, come si impara e così via. Non credo che lo termineremo mai, ci vengono in mente sempre un sacco di cose nuove, ma intanto ci si diverte.

Mia figlia suona il violino nella fisarmonica di Berlino e non ha suonato con Karajan per un pelo, c'è entrata quando lui ha smesso.

Quando vengo da Omero, se vado a visitare qualche amico o amica, prendo il taxi e loro sono assai gentili con me. Qui al Pellegrino suono anche il pianoforte, la domenica sera, ma in maniera discreta e se malauguratamente scopro che qualcuno mi ascolta attentamente faccio come faceva Erik Satie a Parigi, gli dico di continuare a fare come se non ci fossi, la mia è solo una musica di sottofondo. Di Satie suono spesso anche qualche Gnossienne o una Gymnopédie o due.

Il venerdì vado a suonare il piano in un bar, l'Untreu Cafè, in Bleibtreu strasse, in italiano Caffè Infedele sulla strada Rimani Fedele, vicino a piazza Savigny, in tedesco Platz. Mi esibisco ogni volta con pezzi vecchiotti o decrepiti a richiesta, e raramente me ne chiedono uno, non oltre gli anni ottanta, che io non conosca e non sappia suonare. All'occorrenza canto anche, la mia voce è simile a quella di uno che imita Toto Cotugno, che a sua volta imitava Adriano Celentano e mi dicono che dimeno opportunamente e graziosamente il capo e i capelli lunghi. Mi applaudono addirittura, a volte per cortesia, altre volte con entusiasmo, la differenza si vede, cioè io la sento senza difficoltà.

Insomma la mia personale filosofia me la sono costruita in tanti anni di vita, senza pensarci troppo, da pensionato ho cominciato a rifletterci meglio.

Mi faccio i fatti miei, ma non disturbo nessuno. Se qualcuno disturba me, prima vedo se si può ragionare, se non ce ne sono le condizioni, come a volte succede, allora m'incazzo come una bestia e mi dimentico anche che non posso più fare a cazzotti, di solito qualcuno interviene a salvarmi, ma una volta ho steso uno che per caso stava accanto ad un altro che mi aveva fatto irritare.

La domenica sera Omero mi paga, ma mi offre anche la cena e bere a volontà. Se Clara non c'è bevo meno, dipende, ma neanche tanto.

Una volta il tassista ha sbagliato casa, cioè io gli avevo dato l'indirizzo sbagliato, per colpa del vino e di qualche grappetta veneta, ma Kurfustenstrasse 12 era diventato Kurfustendamm 21. Stranamente la chiave entrava, ma non girava, nel portone di chissà chi e dopo un po' lui, che cortesemente mi stava controllando, si è accorto dell'errore evidente e del mio stato confusamente brillo, mi ha rifatto salire sul taxi, mi ha fatto un piccolo e comico interrogatorio, anche se non era colpa sua, lui si è scusato e mi ha portato dove era il portone giusto, poi ha aspettato finché non mi ha visto entrare.

Insomma un cieco tecnicamente non ci vede una mazza, d'accordo, ma scopre meglio degli altri se una persona occasionalmente vicino a lui è brava o no. Nel caso del tassista poteva essere uno che se ne fregava, ma anche dal punto di vista professionale ha fatto di più e mi è garbato assai. Ora quando ho bisogno chiamo sempre lui.

A Berlino gli ubriachi prendono sempre il taxi, mi ha raccontato un mio amico che lavorava in un ristorante dove la gente arrivava in macchina e se ne andava in taxi. Dopo avevano la scusa per tornare al ristorante. Fatto sta che purtroppo o per fortuna, immancabilmente si riubriacavano come se fosse la prima volta e le macchine rimanevano sempre lì.

Qui bevono tutti, d'inverno perché è freddo e d'estate perché è caldo, in compenso la polizia non vuole seghe, e se ti becca una volta brillo alla guida, tu perdi la patente.

 

 

Albertina 6

 

Sei un cittadino italiano Gualtiero? Parli il tedesco ovviamente, hai girato il mondo, almeno le terre emerse, insomma hai fatto anche il sub?

Mi scusino gli altri due cerasini ma prima rispondo a Gualtiero, e precisamente sul racconto, vedo che pur non vedente coglie subito il nesso delle cose, cioè il racconto in questione ha un senso, o nessuno, o centomila, forse qualcuno meno. È una specie di parabola, dipende dalla gente come lo vuol vedere, o sentire, ma non è una parabola, dal punto di vista cristiano io non ci sono, è solo uno spaccato di vita improbabile di qualcuno, esagerata forse per sensibilizzare qualcun altro.

Insomma viaggi nella maionese possiamo farne tutti, dipende da noi o dalle occasioni colte o perse, dalla nostra fantasia, dal nostro istinto di trasferirci o meno nelle situazioni.

Mi sembri un tipo simpatico, caro mio, non ti conosco ma è già come se ti conoscessi un po'.

Vabbè, sei uno stereotipo anche te, mi pare, di quel bene che si auspica e poi di solito non si applica, la chiusura dei tuoi occhi ti ha forse aperto l'anima.

Bisognava che ti conoscessi da prima.

D'accordo, vabbè, poi recupereremo.

 

 

 

Gualtiero 7

 

A me stereotipo non me l'ha detto mai nessuno! Come ti permetti? Non mi hanno mai offeso tanto in vita mia! Se mi dicevi figlio di puttana mi offendevi meno!

Scherzo, ma sotto-sotto c'è un robusto fondo di verità.

Intanto io non sono sempre stato cieco, ma quando lo sono diventato in un certo senso ho fatto il salto di qualità. C'è bisogno che te lo spieghi o no?

Parlo ragionevolmente male diverse lingue, tra cui l'italiano un po' meno peggio, il tedesco ad esempio lo brontolo un po' ciancicato, anzi assai, evito le terminazioni delle declinazioni, che sono troppo complicate, insomma come fanno a Düsseldorf, dove mi sento assai meno incompreso. Qui la gente non mi capisce proprio, ma non fa niente, nemmeno io capisco loro.

Il tuo racconto mi piace, e pure assai, ma la tua logica non mi ha soddisfatto, secondo me dietro il polverone di antichità che hai fatto, assai bene e senza dire niente di concreto. Sì, insomma, tutta quella nebbia umida e puzzolente di zolfo, c'è ben altro.

Per esempio che di normale non c'è nessuno, che dentro un essere umano ci possono essere varie personalità e correnti, che tra di noi ci sono intelligenti stupidi e stupidi intelligenti, che dipende anche dalle epoche e dai bioritmi... insomma la vita per un essere umano è tutt'altro che facile ed è inutile conformarsi e cercare di essere come gli altri, non è vero, e ogni tanto si viene smascherati dal nostro stesso comportamento e si cade in contraddizione continuamente. Magari invece sei una compatta, sotto-sotto, ma non lo sai.

 

 

Albertina 8

 

Colpita e affondata, hai centrato il bersaglio, anzi i vari e differenti bersagli, forse anche concentrici, ma a queste cose non ci avevo pensato prima che tu me le dicessi, lo giuro. Madonna mia, mi hai impressionato veramente. Meno male che non ci vedi sennò mi preoccuperei. Il tuo salto di qualità l'ho capito, una compensazione o giù di lì.

Ma come fai a scrivere e a leggere se non c'è tua figlia?

 

 

Gualtiero 9

 

Per scrivere c'è un programma di computer che è come un dettato, io parlo e lui scrive, non funziona perfettamente, fa degli errori, invece delle parolacce ci mette... quei puntini-puntini, ma dipende anche da come pronuncia le parole chi detta. Nel mio caso male assai. Allora devo parlare più lentamente scandendo bene ogni sillaba.

E poi ci sono i computer per ciechi, ma io l'ho comprato da poco, non so ancora usarlo bene, anche perché la simbiosi con mia figlia mi garbava, ma ora si vorrebbe sposare... già da mezza vecchietta, chi glielo fa fare?

Mah?




Albertina 10

 

Ah, figurati. Ma io non sapevo nemmeno che si poteva fare il dettato al computer. Non farla sentire in colpa te, tua figlia Clara, forse prima non se la sentiva, non aveva trovato l'uomo giusto, come si suol dire.

E questi computer per ciechi come funzionano?

 

Omero 11

 

Ragazzi calma, non si fa in tempo a seguirvi, vi ho presentato quasi timoroso, ma non credevo che nascesse subito il grande amore!

 

 

Gualtiero 12

 

Carissimo il nostro è solo amore-odio, non ti preoccupare.

Clara ha ragione ma io non ho torto, non perché io abbia paura di rimanere solo, ma che dopo un po' torni scornata e delusa dal mondo. E te non fare la mamma apprensiva e protettiva all'italiana, già che ci siamo appena conosciuti e mia figlia non hai idea che peste sia, anche lei come sua madre, senza parlare del padre. Ma lasciamo perdere.

Come funziona BrailleNote Touch?

BrailleNote Touch ti permette di scrivere le tue frasi in classe o in ufficio, senza far nessun rumore, scaricare e leggere i tuoi libri preferiti durante il tempo libero, inviare email ai tuoi amici e addirittura condividere dei contenuti sui cloud più famosi come Dropbox o Google Drive. BrailleNote Touch è fornito con diverse app educational pre-installate, ma grazie all'accesso completo al Play Store di Android è possibile installare praticamente qualsiasi app si desideri utilizzare.

Questo è un classico copia-incolla, l'avrai capito. Te l'ho detto che non lo so usare, ma ci sto studiando tutti i giorni.

 

 

 

Ugo 13

 

C’è una data dalla quale il mondo è iniziato a decadere?

Oppure siamo noi che, col passare degli anni, rimpiangiamo tutto quello che c’era prima, come nostalgia dei tempi che furono? Indipendentemente da questo, io un anno ce l’ho, o perlomeno il periodo: quello dell’esplosione – mondiale –  di un tipo di programma televisivo in cui i telespettatori erano,  e sono, chiamati ad eliminare i concorrenti chiusi in una casa (da qui poi ne sono nati tanti altri sulla stessa falsariga). Insomma, molti si sono trasformati in una massa di guardoni importandosene più della vita altrui che della propria. Oddio, questo c’è sempre stato, ma non credo in questa quantità.

A veder bene, è stata probabilmente la nascita di quelli che oggi chiamiamo “influenzatori” e “seguaci”, mi piace dirlo in italiano. In altri modi, in altri stili rispetto ad oggi, per via delle diavolerie informatiche che ogni giorno nascono. Riassumendo: il decadimento è iniziato quando le persone si sono fatte “seguaci”. Quando il popolo si fa seguace di qualcuno la storia ci insegna che prima o poi sorgono grossi problemi. La storia ci insegna? Beh, sì, lei insegna: se poi chi di dovere non impara, non è colpa sua.

Ma anche in un mondo che non piace, bisogna adattarsi carissimo Omero. Adattamento a persone, luoghi e situazioni: questa è la carta vincente per sopravvivere.

Nei primi venti anni circa della mia vita, ho abitato accanto allo storico bar “Machiavelli” ed era lì che andavo da piccolo a vedere le partite di calcio. Mi divertivo a vedere come reagivano alcuni dei clienti-telespettatori (solitamente un gruppetto di giovani) a ciò che succedeva in campo. Quando erano impegnate due squadre per cui loro non avevano nessun interesse, ne sceglievano una ed iniziavano a tifarla. Ma se questa aveva un’occasione da goal e magari il portiere dell’altra squadra ne impediva la rete, immediatamente tutti esultavano perché in quella frazione di secondo avevano cambiato la direzione del prorpio tifo ed erano contenti per il goal evitato.

Era tutto un continuo gridare di gioia, visto che tutti appoggiavano la squadra che in quel momento se la cavava bene. In pratica, non perdevano mai. Senza saperlo (né loro, né io), mi insegnarono lo spirito di adattamento. Se riesci ad averlo, qualsiasi situazione la vita ti presenti, avrai una possibilità maggiore di venirne fuori bene. Certo, era anche una dimostrazione di come essere voltafaccia. Purtroppo è utile anche quello, ma fortunatamente non lo pratico. L’adattamento, invece, mi è servito – e molto – visti i miei vari cambi non solo di città, ma anche di Paesi.

L’opposizione tra tedesco e brasiliano, come hai accennato, è forte. Credo che i tantissimi tedeschi del sud del Brasile si siano adattati perché, senti che contraddizione, si sono chiusi: hanno formato delle comunità quasi – o senza quasi – a sé stanti, quando sono arrivati. Poi piano piano si sono mischiati agli altri, ma ancora oggi abbiamo la “tipica cittadina tedesca” in pieno Rio Grande do Sul (lo Stato dove vivo). Tipica urbanisticamente parlando e anche culturalmente. Sono le città dove si rispettano di più i pedoni, per esempio.

Con la descrizione del tuo lavoro, mi hai fatto veramente entrare nel tuo ristorante. Non posso ricambiare questa esperienza , dato che non c’è modo di entrare nei progetti. Tu hai un lavoro aperto alle persone, io ai numeri, alle regole matematiche, fisiche e pure chimiche.

La passione delle barche deriva dal posto dove sono nato e quando da piccolo, con mio padre andavamo in darsena a vedere questi oggetti galleggianti, da quelli piccoli che c’era d’aver paura a montarci, ai lussuosissimi yacht.

Mi incuriosiva lo scafo, la parte che l’acqua nasconde, il come faceva a galleggiare una cosa così grande e sproporzionata tra lunghezza e larghezza e spesso anche altezza. Guardarli in costruzione nei cantieri era assistere ad un miracolo dal quale fui fulminato.

Se non avessi lavorato “nelle barche”, avrei lavorato “nei treni”. Infatti l’altra mia passione erano i treni: sempre quando ero bambino ed il tempo non prometteva niente di buono, andavo, ancora col mio babbo, alla stazione oppure ai piedi di una passarella poco più a sud. Mi piacevano i treni in movimento, quelli che non si fermavano: giocavo anche a contarne i vagoni.

Purtroppo oggi quella passerella non c’è più, cancellata da quella tremenda notte del 2009. Oggi la stazione di Viareggio mi trasmette questa doppia sensazione: il ricordo positivo delle ore passate lì, e quello negativo di questo avvenimento di cui ebbi notizia tramite una delle mie nipoti quando lavoravo in Cile.

Rallegriamoci un po’: Albertina! Un bel pezzo di figliola: era un mito per noi ragazzi! Non ci siamo frequentati molto – sicuramente meno di quanto io desiderassi – ma ricordo, sì, la sua simpatia. Che sorpresa averla qui tra noi, a discutere sul tutto e sul niente.

Sapevo del suo amore per la scrittura, ma non che fosse arrivata a tanto: complimenti! Così dici, e mi rivolgo direttamente a te, nervosetta che non sei altro, che ti abbiamo lasciato nella merda? No, è che l’Italia ha più bisogno di gente come te. Omero ed io eravamo un peso per il Belpaese. Il nostro, o perlomeno il mio, è un auto esilio semi volontario.

Beh, do anche il benvenuto a Gualtiero: se Albertina scrive anche poesie, forse saranno più lungimiranti di noi, Omero, dato che sia i ciechi sia i poeti possono vedere nell’oscurità. Ma cieco si può dire? Sapete, con questo politicamente corretto non so che parole usare: meno male che il mio lavoro si basa su calcoli e disegni.

La mia amica Chiara Landucci vorrebbe far parte della nostra comunità di e-mail, ma mi dice sempre che è troppo impegnata. Impegnata a far soldi, le rispondo. E mi manda candidamente affanculo, parlando politicamente corretto.

Via, devo far soldi anch’io e quindi vi lascio, Alla prossima!!

 

 

 

Chiara Landucci 14

 

Bada, Remoto, intervengo solo per sbugiardarti un po’. Saluti tutti gli altri che non conosco, eccetto un po’ Omero per sentito dire.

Basta, ho già finito. Non so se interverrò ancora, ma perlomeno voglio che si metta agli atti che perlomeno una mail l’ho scritta. Alla faccia di quello che guadagna in Euro e spende in Reali. Facile la vita, vero Remoto?

Bacissimi.

 

 

Gualtiero 15

 

Saluto voi, partecipanti a questo dibattito intrigante, ultimamente sto imparando anche a usare il mio computer per orbi e tutto scorre bene, mi pare, qualche bestemmia ogni tanto, ma è normale. Insomma questo è un documento storico, il primo che scrivo da cieco senza aiuto di mia figlia Clara che è andata a suonare il violino altrove, mi pare a Bologna, se non erro, o a Boulogne, probabilmente senza uscire dall'Europa, insomma.

Interessante questa cosa del Grande Fratello che dice Ugo, nel mondo attuale è difficile assai non essere influenzati e proprio per questo bisogna fare attenzione agli incompetenti, ai disonesti e ai prezzolati, che non di rado possono anche risiedere nella stessa persona, influencer, sito di internet.

Ho sentito dire che nella modernità la maggior parte delle nostre energie psichiche viene usata per distinguere e accantonare tutto quello che non ci interessa e in un certo senso è un assurdo, farebbe anche incazzare, ma è piuttosto logico.

Omero può capire meglio il mio punto di vista sulla vita, mi pare anche Albertina sia un tipo da non farsi certo mettere i piedi in testa, ma anche la mia filosofia di vita non prevede falsità, nel dubbio rifiuta a priori.

Non ci conosciamo ancora, Remoto, amico mio futuro, posso anche soccombere, ma diventare ipocrita e voltafaccia mai.

Su certe piccole cose e in determinati periodi sono riuscito anche a fingere, ma a lungo andare mai potrei sostenere certi comportamenti o adattarmi a farmi piacere certe cose. Quello che tu dici, riporto la tua affermazione qui, è in fondo un pensiero abbastanza comune, che diversi miei amici o conoscenti mi hanno rivolto a suo tempo e al quale non ho mai saputo rispondere come avrei voluto, forse perché prima non capivo bene, ma ora credo di sì, per lo meno intendo molto meglio me stesso e il mondo, sebbene mai completamente, ma a grandi linee invece sì.

Forse è anche un pensiero di sinistra, ma non certo della sinistra di ora, che in questo è diventata proprio il contrario, una  bella falsità istituzionalizzata. Questa immagine io la riporto alla piccola città di provincia. Lucca, un ricco microcosmo che conosco abbastanza, eppure mi sorprende sempre, per quanto la gente là si comporti prendendo alla lettera questa tua definizione.

Ma anche in un mondo che non piace, bisogna adattarsi carissimo Omero. Adattamento a persone, luoghi e situazioni: questa è la carta vincente per sopravvivere.

Certo, la vita è soprattutto adattarsi, lo ha detto Darwin e l'evoluzione ne è testimone e prova costante, ma non bisogna farne lo schema di comportamento assoluto. Ci sono da fare delle distinzioni e non si può prendere quello che la società ci passa come inevitabile o fisiologico, sennò ci trasformiamo in creature senza capacità critica e come la famosa e disgraziata rana nell'acqua che si scalda lentamente, ma progressivamente sempre più, bolliremo senza accorgerci e saremo portati sui vassoi per essere mangiati.

Il fenomeno è largo purtroppo e si allarga sempre di più, parole non mie quelle che seguono sono di un professore italiano che vive negli Stati Uniti. Parte da un discorso più ampio, ma finisce, secondo me, nel descrivere bene questa specie di comportamento.

 

"Adeguarsi non per necessità ma per potersi considerare vincenti; è diventare servi per godere vicariamente dei successi dei padroni — come insegna lo sport, non a caso diventato un rito essenziale del neoliberismo, con decine di milioni di italiani che si esaltano per le vittorie di squadre per l’80% costituite da mercenari stranieri o di tennisti che parlano malamente l’italiano e per non pagare le tasse hanno preso la residenza a Montecarlo, ma siccome gli uni e gli altri sono multimilionari e famosi è bello sognare di essere come loro.

Gli stronzi e gli avidi non mi interessano; quando sono più forti mi piego ma con la consapevolezza che lo faccio a causa della mia debolezza, non perché loro siano migliori. È importante. Se lo facessero in tanti esisterebbe, come in tutte le epoche precedenti, una forza controegemonica che, sia pure in posizione subalterna, conserverebbe una propria identità, una propria dignità, una propria cultura. Invece incontro tante persone che amano, per esempio, i libri, ma se ne vergognano, anche coi propri figli, perché convinti da ricchi cialtroni (spesso definiti «influencer» o «celebrity» in quanto gli anglicismi confermano la loro appartenenza al ceto dominante) che siano (i libri e i loro lettori) anacronistici, come se non lo fossero sempre stati per il semplice motivo che ogni società prima del trionfo del modello americano era diacronica, ossia includeva in sé qualità, memorie, esperienze, oggetti di media e lunga durata e non solo quelli di moda in quel preciso momento. Ho menzionato i libri ma lo stesso vale per l’educazione e le buone maniere, per il senso di appartenenza, per le tradizioni, per la religione, per le ideologie, per la morale.

Lo ripeto: chi davvero sia convinto che ciò che piace agli adolescenti (ossia elle multinazionali che li manipolano) sia meglio, chi abbia sviluppato una dipendenza dal proprio iPhone d’ordinanza e viva di «breaking news» o «gossip» (ovviamente anglicismi), chi creda che la mitica mobilità dia la felicità mentre restare nella propria comunità per migliorarla sia perdente se non reazionario, chi arrivi a rifiutare la nozione di collettività per esaltare il presunto diritto individuale e individualistico di essere, sentirsi, fare quello che gli piace, vada per la sua strada. Mi basterebbe che i tanti che non si riconoscono in questo stile di vita, pur subendolo non diventassero però suoi sostenitori e complici solo per il timore di venire marginalizzati o derisi.

È in atto una guerra culturale e chi la sta vincendo sta facendo terra bruciata (i liberisti con le nuove tecnologie fini a sé stesse, i liberal con la cancellazione del passato) in modo che un’alternativa non sia mai più possibile. Non li si può sconfiggere in questa fase storica ma restare fedeli a sé stessi e ai propri ideali renderà possibile a una futura generazione di recuperarli e usarli. Ma spetta a noi darne e lasciarne testimonianza."

 

Francesco Erspamer

 

Un commento sotto questo stesso post di Facebook è stato piuttosto interessante e ce lo metto per intero.

 

Dado Derrick

 

Confesso che, pur essendo del tutto d'accordo col post, mi pare che manchi un elemento fondamentale: le classi subalterne. Certo, siamo un po' tutti subalterni. Ma c'è subalternità e subalternità. I settori sociali che stanno davvero in basso, che fanno i salti mortali per sopravvivere, che si vedono ogni giorno più poveri e costretti continuamente a inseguire padroni e padroncini per mendicare un salario da fame per dieci ore al giorno e più di lavoro; che non possono più farsi curare perché costa troppo, che non rientrano nelle statistiche del consumo, che spesso non vanno più a votare perché non hanno più speranze, sono in realtà una parte notevole del "popolo". Che però NON esiste, neppure nei post di chi si oppone radicalmente al potere attuale. E questo è sintomatico della "vocazione alla sconfitta" di quella che ancora si definisce sinistra nel nostro paese.

 

 

Per terminare direi che anche Dado ha ragione, ma Francesco non ha per niente torto: è vero che tanta gente non ha alcuna scelta, essendo quotidianamente presa per il collo, ma questo non ci impedisce di capire che noi invece questa scelta ce l'abbiamo, non siamo così ridotti male, grazie a Dio o a chi per lui ne fa le veci, proprio per questo bisogna fare la nostra piccola lotta quotidiana per la giustizia, o se vogliamo per la non totale insensibilità.

D'accordo: chi se ne frega della attuale sinistra? Anche quella di prima ormai è lontana, inutile fare i nostalgici  e idolatrare un Berlinguer, per esempio.

Diciamocelo chiaramente, il pensiero è largo, lungo e ramificato, forse anche complicato, ma non incomprensibile: nella vita il libero arbitrio non è favorito dall'ambiente, dai vantaggi personali, (nostri o altrui, che però possono anche essere solo apparenti, già a medio termine,) ma esiste ancora ed è un atteggiamento possibile. Almeno da chi non deve lottare ogni giorno per la sopravvivenza, che poi è il nostro caso, mi pare.

Il consenso non esiste da tanto tempo e sarebbe un passo avanti, ma naturalmente gonfia ogni ipocrisia e falsità, dove prima non esistevano, poiché chi comandava non aveva bisogno di arrufianarsi le masse sottoposte e sottomesse.

Forse è esagerato questo documento-fiume ma è stato dettato anche dal fatto di poter finalmente e di nuovo disporre della mia libertà e di non dover dettare, insomma di poter scrivere per i cazzi miei. Per leggere è già un altro discorso, documenti in braille in giro ce ne sono pochi, insomma bisogna accontentarsi, che ci vuoi fare.

 

 

Omero 16

 

Anche io sono fisicamente entrato nelle barche e nelle navi, con le tue immagini fatte di parole, caro Ugo, devo dire che mi hanno sempre affascinato anche a me, i treni pure, ma un po' meno.

Mi felicito per te Gualtiero, orbo sì, ma non troppo babbo natale tuo malgrado. Parlare il tedesco da alticcio è una cosa, ma  a cose normali il tedesco di Gualtiero è perfetto non dategli retta.  Per quanto riguarda il torrenziale intervento ultimo, mi hai shoccato, almeno inizialmente, ma le tue parole non mi suonano male, capisco e condivido la maggior parte. Però Ugo non voleva intendere tutto quello che hai sottinteso tu, magari parlava un po' meno in generale o più in particolare, insomma il vecchio Darwin non era un fesso qualsiasi, ma discutendo più in particolare di uomini e di società moderna, di adattamento ed evoluzione ce ne sono tanti tipi e di diversa intensità.

Insomma il paragone dei ragazzi che guardano la partita è un esempio di voltafaccia, va bene, una falsità non ideologica, in questo caso innocente, solo per fare il tifo o no per qualcuno e cambiare idea facilmente, fare il tifo per l'avversario.

Mi piacerebbe sentire però cosa ne pensano l'incazzereccia ma acuta Albertina e anche Chiara, se non l'abbiamo spaventata troppo.

 

 

 

Albertina 17

 

Buonaserina a tutti i soci, insomma i partecipanti in questione, se non erro ora siamo in cinque. Penso che Ugo non volesse dire che per forza bisogna essere falsi per non soccombere, ma si poteva intuire anche così. Ci sono vari livelli e interpretazioni possibili. Gualtiero è un intellettuale, forse anche suo malgrado, che però non volendo ormai si sente fuori dal gioco, dal mondo del lavoro, dall'ipocrisia tutta italiana e moderna, vivendo in Germania, essendo cieco, vivendo da pensionato o giù di lì.

Diverso sarebbe se lavorasse otto ore, più gli straordinari non pagati tutti i giorni, se dovesse farsi il culo e doverlo pure distinguere dalle quarant'ore proverbiali e lucchesi. Se lavorasse in un ristorante e venisse pagato male, o se dovesse andare a fare le vendemmie, o a raccogliere le mele, i pomodori o altro.

Però lo dice anche, che la nostra situazione è privilegiata e quindi si può distinguere, visto che gli altri non possono, qualcuno deve pur resistere al dannato mainstream.

Incazzereccia sono io, è vero, sì, ma solo quando è necessario, come diceva Carlos Castaneda, appena una follia controllata quindi.

Dicono che i cognomi non passano di trecento generazioni di storia, ma ci sono tante e variegate controversie. Con solo tre generazioni al secolo andiamo indietro di mille anni.

Il lavoro in un istituto araldico serio, quale il nostro dovrebbe essere, è un giornaliero scavare nella storia, a partire da documenti veri che non sono tanto facili da trovarsi, a me piace proprio questo uscire e andare - anche sotto la pioggia - a spulciare nelle parrocchie di campagna, tra polvere e ragnatele, più che stare seduti a rappezzare i risultati di queste ricerche sul campo. Di solito invece gli altri preferiscono il contrario, stare al caldo e cucire i rapporti che io gli metto sul tavolo o direttamente nel computer di bordo. Si tratta di navigare nello spazio e nel tempo, come capirete. Chi ha immaginazione si trova a scendere romanticamente nella scala a ritroso di centinaia di anni fa e a dover cercare, ragionare e scartare, immagini e suoni, anche odori, di una bella fetta di storia, di come la gente viveva, quando, dove, perché eccetera.

Certo che ci sono anche tanti imbroglioni, a Silvester Stallone, notizia che corre tra lavoranti e colleghi di araldica, gli hanno fatto un bel pacco, visto che lui c'aveva origini pugliesi e un bel po' di soldi, gli hanno inventato al volo una famiglia nobile, stemma e albero genealogico ad personam e ad hoc. Lui ha fatto fare scudi di vario materiale da attaccare dentro e fuori dalle sue ville un po' pacchiane, poi quadri, tovaglie, asciugamani, piatti, posate e bicchieri con sopra il suo bel blasone, prima di scoprire che era tutta una carissima fake new.

Non so se la casa araldica in questione ha dovuto chiudere, in ogni caso se lo sarebbe meritato, magari Stallone ne è diventato socio, o se l'è comprata lui con una manciata di dobloni falsi.

 

 

Gualtiero 18

 

Ho avuto modo di farmi rileggere quello che aveva scritto Ugo e ammetto di aver sbagliato, sono partito per la tangente, è vero che la mia risposta è stata eccessiva e fuori luogo, quindi me ne scuso. A una certa età e con i problemi che ho avuto la mia mente comincia a perdere l'opportuna e originale geometria dei fatti.

Non solo per questo, ma anche per questo, più motivi familiari gravi, almeno per me, più un trasloco verso Hamburg o Amburgo, se vogliamo, città piovosa e portuale, mi impediscono di continuare in questa sede e al Pellegrino mi vedrete solo tra qualche tempo, e se tutto va bene.

Un abbraccio a tutti.

 

 

Omero 19

 

Ho parlato per telefono con Gualtiero, me lo aspettavo che fosse diventato improvvisamente schivo ed evasivo, non mi ha voluto spiegare niente, ho cercato di fargli capire che magari più avanti, in un momento più propizio, potrà di nuovo unirsi a noi, ha detto di sì, ma sembrava solo ansioso di chiudere la nostra conversazione.

Sono rimasto perplesso, ma in fondo questo nostro contatto per email è una cosa fluttuante, era partito per essere solo di due persone, ma vedo che potrebbe essere un forum interessante per un numero imprecisato, senza esagerare.

Tutto quello che chiedo e glielo avevo detto anche a Gualtiero, è che siano individui che vogliano condividere esperienze e pensieri, ma che non creino problemi, non litighino. Mi ci metto anch'io in mezzo, insomma è auspicabile che non siamo polemici e forse questa frase gli è rimasta impressa e ha agito di conseguenza, dopo il suo intervento fuori luogo con Ugo si è sentito in colpa, non lo so.

Il mondo, almeno quello che io conoscevo, o forse m'illudevo appena e di sicuro non conosco più tanto, si è diviso in due gruppi. Quelli anche troppo sensibili, che basta una parola storta o un'occhiata per farli stare male e anche qui mi ci sento dentro pure io, ma in modo imprevedibile e discontinuo. Poi quelli invece che hanno perso, o forse mai avuto, ogni vergogna e dignità, li puoi prendere a cannonate che pensano sempre che a sbagliare sei te e quindi se ne fregano, problema nostro.

 

 

Albertina 20

 

Dicono che io sono una specie di caterpillar, che vado per la mia strada senza curarmi se schiaccio qualcosa o qualcuno, non è vero, ma so riconoscerne uno quando lo incontro e mi pareva il caso di Gualtiero.

E se ha deciso di ritirarsi deve avere dei motivi personali validi, quali per esempio non possono essere quelli di essere troppo sensibile, o di esserci rimasto male perché aveva mal giudicato Ugo e la sua mentalità.

Approfitto per farvi conoscere lo studio del mio cognome:

 

BOMBONATO

A questo cognome sono legati: BONATO, BOMBONATI, BOMBONATTO, BOMBONATTI. Un tempo capitava spesso che, nella registrazione all’anagrafe dei nati, si commettessero errori nello scrivere i nomi e i cognomi.

Questo cognome è molto interessante, perché il significato etimologico è decisamente incerto e varie sono le ipotesi delineate dagli storici e dai ricercatori araldici. Il filo che unisce tutti è l’antichità del cognome che si perde nei meandri dei secoli. È un cognome poco comune, dalla ricca e complessa storia, che si intreccia con quella dell’Italia nelle trasformazioni della lingua e dei dialetti influenzati dalle parlate europee e del Mediterraneo, grazie ai commerci. Ecco le varie teorie e la storia da cui nascono, partendo dalla più ovvia a quella più suggestiva.

· Bombonato, dal latino “bonum nati” e poi dal medioevale “bonattus” : nato bene, ben nato, buon acquisto. Questa è l’ipotesi più accreditata. Facilmente si può individuare il cognome in una famiglia nobile del 1500. Siamo tra Milano e Bergamo, ma anche a Verona dove un Bombonato era Capitano di Giustizia. Quindi, essere nato in una famiglia nobile e ricca ha creato il cognome.

· Bombonato dal francese antico "bombon", che significa dolcetto. Durante i matrimoni nobiliari nel XV secolo in Europa le bomboniere erano delle piccole scatole contenenti dolcetti o confetti che venivano regalate agli ospiti come segno di gratitudine per aver partecipato all'evento. Bombonato forse era colui che fabbricava i bombom.

Nel romanzo “I Finzi Contini” lo scrittore Giorgio Bassani inserisce un amico della famiglia con il cognome Bombonato e lo caratterizza come una persona elegante e raffinata.

· Troviamo il cognome Bombonato in documenti antichi relativi alla famiglia nobile “Bolongaro” a Stresa. Siamo vicino a Milano e ancora la ricerca ci porta al francese antico “Boulonais, boulanger, bolongaro”.

Boulonais, nella regione Nord-Pas-de-Calais, costituiva la Piccardia, un dipartimento che entrò a far parte della Francia nell’843 con il trattato di Verdun. “Boulanger” (Panettiere) è un termine proprio di origine “piccardiana”: la Piccardia è una regione storica, nel nord della Francia, che si estende a nord, dai sobborghi di Parigi e dai vigneti della Regione Champagne fino alle spiagge della Baia della Somme sul Canale della Manica. Siamo nel regno dei Franchi che dominarono la Pianura Padana proprio tra l’VIII e il IX sec.d.C. costituendo il Sacro Romano Impero. La voce antichissima “boulange” (panettiere, colui che fa il pane rotondo) si trasformò gradualmente fino a diventare Bolongaro (cognome di una nobile famiglia a Stresa) e a fine ‘800, nei documenti, si trova un Bolongaro detto Bombonato, un probabile commerciante di caramelle o dolci. Ecco che i due termini si fondono.

· Una ricerca molto particolare ci porta al linguaggio marinaresco antico (di cui si sa poco), ai naviganti e commercianti veneziani; i fenomeni di contatto linguistico sono, in età medievale, particolarmente intensi, e quasi sollecitati dalla poderosa frizione culturale che si determina nell’antico mare nostrum. Il ruolo del veneziano è preponderante per via dei rapporti privilegiati della Serenissima con l’Impero bizantino, con il mondo arabo e con le altre città di mare come Genova. Nei diari di bordo di Pigafetta, Colombo e Giovanni da Empoli si trova il termine, di origine iberica, “bomba” inteso come una specie di vela quadrata. Nel periodo tardomedievale e rinascimentale l’apporto del veneziano cambia il significato del termine che entra nel linguaggio militare; così “Bombonato” rientra tra i naviganti, ammiragli o marinai.

Tra le carte antiche si è trovato un Bombonato da Ramo di Palo di cui non si sa nulla.

Il cognome Bombonato, e sue variazioni, oggi, è presente tra Milano e Bergamo e nel Polesine; non più di 500 famiglie, di cui una ottantina in provincia di Rovigo, soprattutto a Pontecchio Polesine. Il fenomeno della migrazione ha portato in Brasile anche dei Bombonato.

Che ve ne pare?

 

 

Omero 21

 

Interessante lo studio dei cognomi, a quanto ho capito la gente si interessa più a questo che alla parte degli stemmi, vuole sapere la storia della sua famiglia, o no?

Questa parte che vi metto qui ora non la leggerà, perché sono io che ricevo le varie email del nostro gruppo improvvisato, le attacco per farle leggere a tutti e poi le mando ai vari indirizzi.

Il personaggio in questione è piuttosto misterioso, sia perché ha insistito per partecipare a queso epistolario e perché è voluto diventare mio amico anche piuttosto... direi in maniera forzata, mi è sembrato. Essendo molto simpatico non gli è stato difficile, ha una personalità molto forte e non ama essere contraddetto. Direi che è un manipolatore, intelligentissimo e colto, simpatico e affabile, ma anche piuttosto irascibile.

Una signora italo-tedesca poi mi ha detto di averlo riconosciuto, che era, o è ancora, lo psicoterapeuta di sua sorella e che non è per niente cieco!

D'accordo, mettiamo nell'inventario un'ipotesi normale e classica: che la signora si sbagli cioè, che sia solo una somiglianza, ma la signora Soverato, che è una nostra cliente fissa, e non pare assolutamente una visionaria, dice che lui usa legarsi i lunghi capelli bianchi in un codino per le sue sedute, invece qui si presenta con quegli occhialini scuri dei ciechi, che altrimenti non userebbe e la candida chioma al vento.

La signora Ute Soverato e sua sorella Gundel, sono di madre tedesca e padre italiano, ma hanno sempre vissuto a Berlino. Loro due più una decina di altre persone, vengono qui di lunedì, tutte le settimane e parlano solo in italiano, che tutti stanno studiando e sono appassionati della nostra penisola, ridono come matti e si scolano diverse bottiglie di vino bianco: Vernaccia, Pitigliano, Gewürztraminer, Müller Thurgau e Chardonnay. Vengono e se ne vanno in taxi, per non correre rischi inutili. Gundel, la sorella suddetta vorrebbe far parte del nostro gruppo, il suo italiano è quasi perfetto, anche se la sua pronuncia è piuttosto legnosa, come di solito succede ai tedeschi, ma per email non si sente tanto.

Ora che Gualtiero non c'è più la potremmo anche accettare. Lo chiedo a voi, anche perché il nostro babbo natale potrebbe anche cambiare idea e se fosse vero quello che dicono le sorelle Soverato sarebbe una cosa imbarazzante. Propongo di far passare qualche settimana, per vedere cosa succede.

Le due sorelle sono affabili e simpatiche, ma tra di loro quanto di più differente si possa trovare al mondo. Ute è una che prima di fare le cose le pensa e le classifica in un estremo ordine nel cervello, poi ci pensa assai e non le mette in pratica, nella maggior parte dei casi. Gundel invece è anche troppo spontanea e a volte diventa... diciamo così: sconveniente. Ute forse vuole proteggere Gundel dal mondo, sorella maggiore che si sente quasi una mamma della minore.

Questo fatto di Gualtiero sono sicuro che la piccola alla grande glielo aveva detto da tempo, ma Ute ci pensava da settimane se era il caso di rivelarmelo o no, diverse volte ho avuto la sensazione che stesse per dirmi qualcosa. Pensavo a una magagna del mangiare o del servizio, il loro gruppo è molto importante per l'economia del ristorante, mi portano un sacco di soldi e non mancano mai all'appello.

Ute però poi decideva di tacere, alla fine ce l'ha fatta a vincere i suoi stessi ostacoli e quando me lo ha detto, mi ha sorpreso assai.

Tutt'e due sono laureate: Gundel professoressa di lingue straniere (italiano e spagnolo) e Ute ginecologa.

 

 

 

 

Chiara 22

 

Anche io sono appena arrivata, ma se mi chiedete cosa ne penso di ammettere anche queste due signore la mia risposta è sì.

Mi è stato chiesto altresì di formulare la mia opinione su quello che ha detto Gualtiero, in base a ciò che avrebbe sottinteso Ugo. Ho difficoltà perfino a capire cosa dicono, lo confesso. Naturalmente conoscendo Ugo tenderei a dare ragione a lui.

Dal punto di vista filosofico, se mi chiedessero la mia personale teoria di comportamento, mi chiedo se saprei rispondere. La gente attorno a me non ci pensa a queste cose, io mi sorprendo solo ora a dire che non lo so, ci dovrei pensare. Non è un tipo di ragionamento che sono abituata a fare, forse se dico come vivo lo capirete da voi.

Certo che il mio punto di vista sulla mia vita sarebbe influenzato da quello che io vorrei che fosse e a nascondere quello che invece è, che vorrei anche cambiarlo, ma non ci riesco. Non riesco ad ammettere che non ci riesco, forse perché non dipende solo da me.

Va bene, una donna seguendo quello che ha intorno e il suo istinto, tenderebbe a comportarsi in un'ottica di mamma, cioè interpreta la sua vita non tanto pensando a sé stessa, o a suo marito, ma ai suoi figli per i quali darebbe tutto, non solo in teoria, ma succede concretamente e quotidianamente che annulla la propria in funzione della loro. Non si tratta di eroismo, è un meccanismo che se ci si rende conto mette un po' paura, ma fregarsene e pensare solo a sé stessi e ancora più spaventoso. Le mezze misure significherebbero un'armonia che nella vita è difficile ottenere, si tende sempre ad esagerare da una parte o dall'altra.

Anche in politica, se la donna comincia ad avere il suo ruolo in crescita di importanza, poi finisce per comportarsi come un uomo.

E allora siamo sempre più lontani da una integrazione. Mio marito è rimasto deluso dal governo attuale, per esempio, povero illuso, figurarsi che aveva scritto, da maschio femminista, questo dialogo al quale però crede sempre meno.

 

 

“Ha! Mi fanno ridere quelli che dicono che l’uomo è l’animale più intelligente.”

“L’uomo inteso come umanità?”

“No, l’uomo inteso come maschio della donna.”

“Ah. E secondo te chi è allora,  il più intelligente: il delfino?”

“No, per me è proprio la donna.”

“La donna intesa come femmina di uomo?”

“Questa è la mia opinione.”

Pausa, soffio di vento all’esterno, un clacson lontano.

“Tu non ci crederai, ma io ho sempre avuto l’impressione che tu mi considerassi un po’ in ritardo, anche sulle tue teorie più semplici.”

“Beh, tu sei più essenziale, la donna non ne ha bisogno di certe cose, a meno che non sia per arrivare alla conservazione della specie, per quello la cultura ampia non serve.”

“Per esempio per simulare e dissimulare, sono sempre stata meglio di te.”

“Esattamente.”

“Eh sì.”

“In più non ti disperdi nei meandri dei pensieri, sei essenziale e badi al sodo, io, a volte, per capire se voglio prendere un caffè o no, ci metto una mezz’ora.”

“Comunque sia, la tua nuova teoria m’interessa.”

“Non è nuova, come teoria, da giovane non te la potevo dire, ora che siamo più attempati…”

“Insomma: hai sempre pensato che le donne sono meglio degli uomini?”

“Leggendo Bukowski, confesso, mi ero convinto del contrario, ma proprio allora ho iniziato a pormi il problema. Eravamo alla fine degli anni 70...”

“Perché poi, da giovane, non me lo potevi dire?”

“Perché avevo paura che ti saresti montata la testa, chi lo sa, in un secondo momento di perderti.”

“Ed ora non ce l’hai più ‘sta paura?”

“Ora ho capito che passate le pulsioni più prepotenti del sesso, saputo anche che l’orgasmo è un trucco unicamente inventato per stimolare la procreazione, noi ci sentiamo più liberi e tranquilli, non abbiamo voglia di infilarci in avventure, abbiamo una certa età, perciò…”

“Ho capito, vado a prendere una birretta. Preparati perché stavolta voglio sapere fino in fondo tutto quello che hai da dire. Spero solo che non sia una delle tue solite tattiche.”

L’uomo con le pantofole sorride, arrossisce un po’, la donna coi bigodini va e torna in un minuto.

“Io sarei pronta, vuoi un sottofondo di musica?

“Sì, ma non saprei cosa scegliere…”

“Ti va bene Keith Jarrett?”

“Kölln Konzert?”

“Fatto.”

I due sono di nuovo seduti e sorseggiano le rispettive birre, un pianoforte suona già, le sue note lente echeggiano piuttosto ipnotiche, si potrebbe dire.

“Tutto è iniziato quando in Africa certe foreste si trasformarono in savana, le scimmie dovettero scendere, per andare da un albero all’altro…”

“Scusa, ma non l’hai presa un po’ troppo da sotto?”

“Sì, ma è necessaria un po’ di ambientazione, sai, per capire meglio come era la vita dell’epoca…”

“Guarda: sono le undici e mezzo, domattina devo uscire presto. Sai com’è, la gente esce di casa, a volte. Quanto tempo è che non provi anche tu quest’emozione?”

“Ora non mi ricordo. Però prima mi sembravi entusiasta.”

“Lo sono, ma sbrigati che è tardi.”

“Va bene, taglierò i dettagli.”

“Vai.”

“Dunque, allora quello che poi sarebbe diventato l’uomo, iniziò a camminare eretto, a muoversi in cerca di cibo, era nomade, si spostava ain piccoli gruppi. Quando dal cosiddetto uomo di Heidelberg uscirono fuori, non si sa come, due gruppi separati e ben distinti: uno più forte e abituato allo sforzo fisico, alle temperature più basse, l’uomo di Neanderthal; l’altro, l’Homo Sapiens, veniva da zone più calde, era meno forte, fisicamente, ma sapeva lavorare meglio i suoi utensili,  era più intelligente.

Per motivi che non sappiamo e poi stasera è anche tardi per affrontarli, l’Homo Sapiens salì verso nord e si trovò a disputare il terreno dove i Neanderthal vivevano già.”

“E le donne dov’erano?”

“Le donne entrano quando la concorrenza trai due diventa gioco di vita o morte, ma perché i Neanderthal avrebbero dovuto soccombere?

Perché la donna scelse chi era più adatto a fare quello che aveva scoperto, cioè il modo migliore per sconfiggere la fame e il problema della sopravvivenza, l’Homo Sapiens era più intelligente e meno adatto alla caccia, cioè alla sopravvivenza di quel vecchio tipo…”

“Ma che cosa aveva scoperto la donna?”

“L’agricoltura.”

“Ma chi te lo ha detto? A me non risulta proprio.”

“Beh, l’uomo era cacciatore e pescatore, stava fuori tutto il giorno per procacciare cibo, la donna no, stava ad aspettare, sorvegliava il territorio, sicuramente aveva la pazienza necessaria, più l’occasione di vedere cosa succedeva coi semi nella terra, che poi era la stessa cosa che succedeva a lei. Procreavano, continuavano la vita.”

“Forse hai ragione.”

“Direi che tutto combina abbastanza. Per via della riproduzione, l’istinto più forte della donna, chiave di volta della natura stessa, si decide che l’agricoltura è il modo migliore anche per allevare i figli, stare tutti più vicini, insomma.

Ecco che nasce anche l’idea della famiglia, la donna convince l’uomo che deve mettere la testa a posto, basta coi divertimenti senza regole.

Non è che glielo spiega, ma lo mette in pratica coi fatti.”

“E come riesce a farcela?”

“Attraverso il sesso, è chiaro, l’uomo ha sempre avuto la debolezza di credere che è lui il dominatore del mondo, anche nel sesso, poverino, ma invece l’ultima parola è sempre della donna, è lei che sceglie.

Il suo segreto è che per lei il piacere del sesso è una roba di secondaria importanza, lo controlla assai meglio dell’uomo.

Dopo aver scelto l’Homo Sapiens, fatto estinguere il rozzo e ormai superato Neanderthal, sceglie la monogamia e la fa diventare tacita legge nel mondo, perché così il nucleo familiare si sviluppa con meno problemi, per allevare i figli funziona meglio e così via.

Ecco che l’uomo dà l’addio al suo passato di nomade, mentre le avventure extraconiugali diventano fuorilegge, con effetto pressoché immediato.

Insomma la civilizzazione iniziò così, anche se l’uomo non ne era proprio felice, almeno salvava le apparenze.

La donna prese ad addomesticare gli animali, non si sa se fu per primo il cane, o la capra o la gallina, ma subito dopo è toccato all’uomo.”

“E allora perché l’uomo ora controlla tutto il mondo, la donna ha una posizione di comprimaria, esclusa dagli incarichi importanti e così via?”

“No, non è così, la donna ha lasciato all’uomo il ruolo di capofamiglia e poi di capotribù e di sindaco, o capo di stato, o quello che può essere, non per generosità, ma per calcolo.

Tutti questi ruoli di amministrazione del potere sono secondari, lei non lo dice, ma lo sa e lo sa per via delle mestruazioni.”

“Che? Le mestruazioni? Ma che c’entra?”

“La donna  alla porta di uscita dell’infanzia scopre le mestruazioni, diventa adulta molto prima dell’uomo, in più in una società come quella italiana, l’uomo non diventa mai adulto, ma questo è un altro discorso e manca già un quarto a mezzanotte.

Tornando alle mestruazioni, la donna scopre prestissimo che la vita ha inizio e fine, questo forma il suo carattere, avrà sempre i piedi per terra, lascerà i sogni di gloria all’uomo, che invece deve dare un senso alla sua vita, occupando quei vari ruoli di preminenza della società a cui la donna non aspira, perché ha altro da fare, deve continuare la specie, lei.”

“Allora perché, se la donna non da’ importanza al potere e al denaro, secondo te, cerca sempre uomini che hanno denaro e potere?”

“Non sempre, tu hai scelto me, non certo per il mio potere o per il mio denaro…”

“Beh, tu mi hai sempre rassicurato con delle teorie simpatiche , a volte astruse, ma che mi facevano vedere la vita in un altro modo…”

“Può essere, ma io credo che tu vedessi in me, soprattutto, un potenziale buon padre per i tuoi figli, come infatti è stato…”

“Probabilmente è così.”

“La donna, comunque, cerca un ambiente che gli permetta di allevare i figli senza eccessivi problemi e quindi spesso è vero che cerca uomini con denaro e potere, ma li vuole non per quello che rappresentano, ma solo per il futuro di una famiglia più sicura.

“Beh, non sempre è così.”

“No, ma ci sono più probabilità, se c’è denaro e potere, i figli crescono più sani e più forti, più protetti, secondo un ragionamento semplicistico ma assai seguito, almeno sulla terra.”

“Infatti.”

“Ecco, l’uomo non ha la risposta alla domanda fondamentale sulla vita e non la cerca nemmeno. Fa finta e basta. In compenso cerca di sfuggire alla responsabilità, inventa gli sport, va al club, al casinó, si fa l’amante, tutto quello che lo allontana dal punto focale della civilizzazione lo affascina.”

“Ma allora perché la donna, se è così intelligente, determinata e motivata, ha lasciato portare il mondo al punto in cui sta adesso, con distruzioni ambientali, fame, povertà, le multinazionali, le banche, il WTO e la distribuzione dei capitali in mano a pochi e senza scrupoli?”

“Beh, la donna ora si rende conto di essersi fidata troppo dell’uomo e vede i danni che lui ha recato al mondo, ecco perché ha dovuto cambiare piano, da qualche anno la tendenza si sta invertendo, lo avrai notato.

Lei deve, suo malgrado, prendere il potere dalla parte del manico, sennò tutto va a ramengo e chi ne farà le spese presto o tardi sarà la continuazione della specie, la sua sfida sarà continuare ad essere madre e allo stesso tempo incollare i cocci del mondo mezzo rotto...”

“Mi pare spaventoso.”

“Spaventoso è quello che l’uomo ha fatto del mondo finora, ci ha giocato come se fosse una partita a Monopoli, senza mai pensare al dopo, alle conseguenze delle sue stronzate, l’uomo non pensa mai alla continuazione della specie, che gliene frega a lui? Ma la donna ora prenderà le redini ed ha tutto quello che le serve per riuscire a salvarci, anche se non ce lo meritiamo, anche se noi faremo di tutto per non lasciarvi gli incarichi che pensiamo che ci appartengano da sempre, non ci credi?”

“Vorrei crederci, o forse no, forse ho paura di crederci.”

“Beh, non c’è bisogno di cominciare subito.”

“Si può rimandare a domani?”

“C’è una certa urgenza, è inutile negarlo, ma avete aspettato migliaia di anni, otto ore in più o in meno non saranno determinanti.”

“Si va a letto?”

“Sì, certo, ma a che ora ti volevi alzare domattina?”

 

Io gli ho detto che secondo me non si può fare nemmeno una specie di rivoluzione con i tempi attuali di pensiero unico dominante, partendo da una sola persona. Se anche fosse Vangelo e perfino se fosse Cristo in persona si metterebbero tutti contro. L'umanità ha complicato la sua esistenza tanto che è sempre più difficile capire chi ha ragione e chi ha torto. Il consenso sarebbe una bella cosa, se non obbligasse la distorta mentalità umana a fingere, invece che a essere, ad andare sempre più dietro alle apparenze e sempre meno i contenuti.

Marco dice che è solo un'epoca di transizione e io gli rispondo che in fondo tutte le epoche sono di passaggio, per arrivare ad altre. Purtroppo sì, dice lui, o per fortuna dico io.

 

 

Albertina 23

 

Sì, facciamo entrare queste signore che vogliono imparare l'italiano, io non ho mai conosciuto una tedesca, insomma sono curiosa e disponibile a collaborare, per una buona causa anche a sforzarmi, voglio dire a chiudere un occhio. In più possono aiutarci a capire questa storia di Gualtiero, che mi pare misteriosa e intrigante, non lo so.

Martino ha detto che Berlino è a un tiro di schioppo, basta avere le ferie e veniamo lì, a mangiare anche, ma non solo.

Sono comunque 1300 km di distanza e il vero problema è che lui le ferie non le ha praticamente mai fatte, ha una ditta in proprio con un socio, e si fanno il cosiddetto culo da una vita. In compenso ci tirano fuori pochi soldi e sono sempre preoccupati, per le nuove leggi e le tasse, per le bollette sempre più care, lavorare sempre di più per guadagnare sempre meno, insomma come tutti vengono strangolati dal sistema, questa è la normalità, credo che lo sia ovunque, non solo in Italia.

Rispondendo a Omero, l'araldica infatti, come tu suggerisci, è diventata più lo studio dei cognomi, anche se è nata come uno studio degli stemmi. Insomma la storia della famiglia attualmente acchiappa di più e un cognome uguale non significa affatto che siamo della stessa famiglia.

 

 

Chiara 24

 

Ragazze e ragazzi, scusatemi.

Ho fatto già due interventi, di cui uno lunghissimo e non mi sono neanche presentata. Beh, il nome lo sapete, l’età non importa. Sono nata a Pontito, una delle dieci “castella”, cioè paesi, che compongono la “Svizzera Pesciatina”. Nome che sembra altisonante per questa parte montagnosa del comune di Pescia, provincia di Pistoia, ma che le è stato dato proprio da uno svizzero, l’economista nonché storico e letterato Jean Charles Léonard Simonde de Sismond che a Pescia ha vissuto una parte della sua vita. In queste lande sono gli stranieri a valorizzarci un po’: noi indigeni siamo buoni solo a buttarci fango – sentite come sono fine – addosso.

Poi ho abitato a Borgo a Buggiano, sempre in zona, e ora a Lucca. Conosco Remoto perché i miei andavano a Viareggio un mesetto all’anno in villeggiatura d’estate e ci si conobbe sulla spiaggia. Ero ferma davanti al mare e mi preparavo per tuffarmici quando quel… quel… definiamolo babbeo, mi venne addosso e mi buttò in terra. “Scusa, stavo guardando quella nave che sta entrando in porto e non ti ho vista”, fu la giustificativa. Poi, per farla breve, si fece conoscenza e si amoreggiò pure, nel nostro periodo universitario a Pisa. Ma eravamo molto differenti: io solare, lui un po’ orso e amante della solitudine. Quando per lavoro ebbe la possibilità di lasciare l’Italia, non se lo fece dire due volte e ciao! Fine dell’amore, ma non dell’amicizia.

Ah, io ho poco tempo perché a differenza dell’orso solitario, io sono sposata con quattro figli. E di bimbetti me ne intendo, dato che insegno italiano, storia e geografia in una scuola secondaria di primo grado, le vecchie scuole medie.

Oltre a lui, di questo gruppo conosco – ma solo per nome – Albertina, un altro mito sessuale (oltre a me, chiaramente) del Remoto giovane. Il quale, tante chiacchiere ma… lasciamo perdere, via che è meglio.

Lascio a voi le discussioni, che ho già scritto troppo!

Landucci, il mio cognome, è tipicamente toscano credo, Albertina potresti dirmi da cosa viene?

 

 

 Albertina  25

 

Rapidamente e sinteticamente ti rispondo, Chiara, perché queste notizie sono il nostro business e non lo possiamo divulgare così pubblicamente o quasi.

Potrebbe derivare da una variante dialettale di nomi medioevali come Orlando o Rolando (significa "gloria nella sua terra"). Il cognome Landucci è toscano, della provincia di Lucca in particolare.

 

 

Ugo 26

 

Interessante questo studio dei cognomi, per esempio il mio da cosa viene? Ultimamente sono un po’ indaffarato, poi vi spiego, anche se so di essere praticamente insostituibile, le due signore tedesche potranno attenuare la sensazione di vuoto della mia mancanza, pur se provvisoria. Sicuramente hanno tante cose da raccontarci, ma speriamo che sia in italiano! A presto, o quasi!

 

 

Albertina 27

 

Il cognome Lai ha origini molto antiche e in Italia è generalmente associato alle regioni della Sardegna e della Toscana. Esso è un toponimo, ovvero un cognome derivante da un nome geografico, specificatamente dal latino Lacus che significa 'lago', 'pianura alluvionale' o 'bacino idrico'. Si ritiene che indicasse in origine quelle famiglie che abitavano in prossimità di una formazione lacustre o un insediamento adiacente a un bacino d'acqua.

 

 

Ute  e Gundel Soverato 28

 

Non preoccupatevi, ci siamo imposte di scrivere solo in italiano, in fondo è per questo che siamo qui, per perfezionare la nostra lingua.

Il cognome Soverato è un toponimo, ci hanno spiegato che viene dalla Calabria, si tratta di un paese sul litorale del mar Ionio, lo abbiamo anche visitato e c'è perfino un peperoncino piccante che reca lo stesso nome.

Sebbene di padre italiano, siamo due berlinesi autentiche, di solito invece i tedeschi che vivono a Berlino vengono da altre città, non che essere nate qui significhi qualcosa di bello o invidiabile, ma solo piuttosto raro.

La guerra forse ha lasciato tracce nelle nostre case e famiglie, anzi sicuramente. Berlino ha sofferto più di altre, ci sono stati i bombardamenti, il Muro, il Ponte Aereo,  la divisione in quattro parti simboliche, ma neanche tanto e altri episodi determinanti per chi viveva qua. Per molti anni non è stata più la capitale della Germania, Berlino, piuttosto recentemente è tornata ad esserlo.

I tedeschi hanno sofferto per i loro gravi errori e sono spesso malvisti anche oggi, per il loro atteggiamento prepotente, secondo noi anche giustamente.

Una società saggia, se potesse esistere, sarebbe poco numerosa e separata dalle altre società, ma è solo una teoria, perché se solo esistesse non potrebbe non essere assai influenzata e contagiata dalle altre.

Per esempio gli indios dell'Amazzonia, vivono una vita migliore della nostra, a contatto con la natura e producendo solo quello che gli serve per vivere. Ma vengono schiacciati e massacrati regolarmente per prendere le loro terre. Se hanno avuto la foresta e le acque a proteggerli, questo sarà sempre più difficile e improbabile.

La società, in senso generale, è malata, non dovremmo proprio farcene una ragione, perché basta una minima percentuale dei suoi facenti parte per far ammalare anche gli altri.

Una società saggia guarderebbe lontano. Invece ognuna di quelle che conosciamo non riesce nemmeno a vedere l'immediato. Nel suo rapporto con l'ambiente, ad esempio, una cultura brillante potrebbe interrogarsi su quali conseguenze porterebbero, tra mille anni, le alterazioni nelle sequenze genetiche di organismi selvatici o addomesticati e di altre specie introdotte.

Fra 1.000 anni, cosa accadrà del combustibile nucleare esaurito? Ma 1.000 anni sono uno spazio di tempo troppo distante per essere preso in considerazione, tanto più da gente indaffarata come noi che ha problemi a pianificare le prossime vacanze estive. Dieci secoli oltrepassano a tal punto la durata della nostra vita e l'orizzonte della nostra immaginazione che vogliamo solo liquidarli come estranei e inavvicinabili, non vale la pena pensarci?

Questo l'abbiamo scritto insieme, naturalmente per grammatica e sintassi ci aiutiamo a vicenda. Ute mastica meno l'italiano di Gundel che è professoressa, ma Gundel la aiuterà per correggere i testi.

 

 

Omero 29

 

E Tucci da cosa proviene?

Non sono proprio sicuro di capire cosa volete dire, sorelle Soverato, vi vorreste spiegare meglio? Intanto il vostro italiano è perfetto, congratulazioni, non si sente nemmeno l'accento tedesco.

 

 

Albertina 30

 

Tucci dovrebbe derivare dal nome medioevale Tuccio, di cui si trovano varie tracce, ad esempio nel grossetano. A Montieri ad esempio appare un Ser Tuccio in qualità di vicario vescovile nel 1300 e a Firenze, sempre nello stesso periodo, si trova un fra Giovanni di Tuccio degl'Infangati.

Una seconda ipotesi lo lega ai vezzeggiativi di nomi come Alberto, Roberto, Santo o Vito.

Un altro esempio di questa cognomizzazione si trova nella seconda metà del 1500 a Narni (TR), dove si legge di un magistrato: "...Illustri et excellenti domino Eugenio Tuccio...".
Il cognome Tucci è molto diffuso in tutta l'Italia peninsulare.

 

 

Gundel 31

 

Ora ci provo io a spiegare più diffusamente quello che abbiamo scritto, che poi è stato un parto di qualche opportuno copia-incolla, per questo senza errori.

Oltre a questa discendenza padre-figlio, esiste anche un'altra definizione di generazione che potrebbe essere utile. Potremmo contare come generazione la durata di una vita. Una generazione andrebbe quindi dalla nascita alla morte, quella successiva dalla nascita alla morte e così via, ogni volta per 72 anni di media circa. Immaginiamo di tramandare un tesoro: basterebbe che una persona sia presente nella vita di un'altra, anche per un solo giorno, per il passaggio di consegna. Il tesoro potrebbe essere un oggetto, ad esempio una biblioteca in formato tascabile, oppure un'entità astratta, come la conoscenza o la saggezza, da passare di persona in persona come in una catena. Finché c'è una persona che nasce prima che il possessore precedente muoia, la catena generazionale non s'interrompe. Ci siamo evoluti per concepire mentalmente le generazioni. Quante generazioni attraversano mille anni?

Ho costruito una catena generazionale virtuale cercando su Wikipedia una persona importante morta poco dopo la mia nascita. Qualche minuto di ricerca ed ecco comparire l'esploratore Sven Hedin. Poi scopro un'altra persona assurta agli onori di Wikipedia nata poco prima che Hedin morisse. Poi un'altra nata prima della morte del predecessore e così via di seguito. Con poco sforzo, ho formato una catena di 13 persone che risale nel tempo di 1.000 anni:


1952 # Io
1865 # Sven Hedin, esploratore
1785 # William Hooker, botanico
1696 # James Oglethorpe, fondatore dello stato della Georgia
1629 # Papa Giovanni III di Polonia
1560 # Hieronymus Praetorius, compositore tedesco
1466 # Andrea Doria, ammiraglio italiano
1386 # Donatello, artista italiano
1319 # Pietro IV d'Aragona
1255 # Duccio, pittore italiano
1173 # Tankei, scultore giapponese
1116 # Roger de Clare, conte di Hertford
1070 # Colomano di Ungheria
1011 # Roberto I, duca di Borgogna

 

 

La "singolarità", concetto nato come sinonimo di "punto di discontinuità" in matematica, è oggi usato dai futurologi e dai sostenitori del "singolaritanismo" (una nuova teoria e filosofia morale), per indicare un punto, nello sviluppo di una civiltà, in cui il processo tecnologico accelera oltre le capacità di comprendere e prevedere di coloro che vivono nell'epoca precedente. Secondo alcuni studiosi il progresso tecnologico, essendo una conseguenza delle capacità di calcolo che hanno avuto negli ultimi decenni una crescita esponenziale (cioè che raddoppia la velocità ogni 18 mesi) accelererà altrettanto esponenzialmente, grazie soprattutto alle nanotecnologie. Sarà possibile, molto prima del previsto, il superamento dell'invecchiamento, il collegamento tra mente umana e artificiale e la creazione di menti "miste" molto più intelligenti delle umane.

Acceleriamo! Tutti risultati che saranno alla base della "singolarità" che favorirà un enorme balzo in avanti dell'intelligenza sulla Terra. Sulla base di teorie come questa è nato anche un movimento, il "singolaritanismo", che sostiene la necessità di accelerarne la realizzazione.

In questa catena virtuale, il duca di Borgogna, nato nel 1011, potrebbe aver consegnato personalmente la sua formula del successo a Colomano d'Ungheria, che a sua volta avrebbe potuto passarla a Roger de Clare e così via fino ad arrivare a Sven Hedin, che avrebbe potuto trasferirla a me. Sono stato costretto a scegliere personaggi famosi, le cui strade avevano ben poche probabilità di incrociarsi, perché esistono scarse testimonianze storiche della nascita di persone comuni: gli unici che hanno date di nascita note sono i personaggi famosi. Ma anche le persone comuni di qualsiasi famiglia potrebbero formare una catena di relazioni che copre lo stesso arco di tempo, con un pronipote che nasce prima della morte del proprio bisnonno. Potremmo immaginare il bisnonno che prende in braccio il piccolo e in qualche modo gli trasmette la saggezza del suo bisnonno.

Continuando a immaginare, potremmo visualizzare una persona di 70 anni con le braccia distese in direzioni diverse, dal passato della nascita al futuro della morte, con le dita che toccano la generazione precedente e successiva. In una catena di braccia tese, ciascuna delle quali rappresenta 70 anni, avremmo bisogno di allineare solo 13 persone per attraversare con le loro vite un arco di tempo lungo 1.000 anni. Se faccio il gioco della campana saltando su 13 caselle che rappresentano altrettante generazioni del passato, arrivo all'anno 1000 d.C. Perché fermarsi qui? Posso continuare per altre 13 generazioni di persone-nate-prima-della-morte-del-rispettivo-predecessore e risalire fino all'anno 10 d.C., all'epoca di Gesù:



950 # Reizei, imperatore del Giappone
870 # Al-Farabi, filosofo islamico
792 # Papa Adriano II
715 # Malik ibn Anas, studioso islamico
640 # Musa ibn Nusair, governatore del Nord Africa
593 # Jomei, imperatore del Giappone
538 # Gregorio di Tour, storico romano
512 # Severo, patriarca di Antiochia
441 # Shen Yue, poeta cinese
390 # Bleda, re degli Unni
313 # Didimo il Cieco, teologo
270 # Massimo, imperatore romano
213 # Claudio II, imperatore romano
178 # Pang Tong, consigliere di corte
121 # Marco Aurelio, imperatore romano
70 # Marino di Tiro, matematico fenicio
10 # Erone di Alessandria, ingegnere greco

 

 

 Albertina 32

 

Se si accellera, come suggerite voi care sorelle Soverato, se malauguratamente si accellerasse ancora di più, penso che si scoppierebbe, tra l'altro mi pare che stia già succedendo. Non capisco comunque che cosa volete intendere con questa affermazione, lo confesso.

Non abbiamo intanto una data precisa per la nascita della prima civiltà propriamente detta (quella sumera), e non abbiamo un numero di anni esatto e costante per definire una generazione.

In termini legali credo si utilizzino 25 anni, molti biologi molecolari nelle ricostruzioni della storia evolutiva usano 27 anni, in alcuni libri di antropologia ho letto che fino al XIX secolo la durata delle generazioni variava in base all’ aspettativa di vita del periodo, per esempio nel XII e XIII secolo una generazione veniva contata in 18–20 anni.

Se usiamo come media i 25 anni per generazione, e supponendo la nascita della civiltà sumera il 1° gennaio 3800 a.C., si tratta di 5819 anni e quindi 232 generazioni. Se usiamo i 27 anni per generazione il totale scende a 215, mentre se usiamo 20 anni come media il totale sale a 290 generazioni.

Per nascere abbiamo bisogno di:

2 Genitori

4 nonni

8 bisnonni

16 trisnonni

32 tetra- nonni

64 penta - nonni

128 esa-nonni

256 etta-nonni

512 Otta-nonni

1024 Enna-nonni

2048 Deca-nonni

Solo il totale delle ultime 11 generazioni, sono stati necessari 4.094 ancestrali, tutto questo in circa 300 anni prima che noi nascessimo.

 

 

 

Ute 33

 

L'accellerazione che suggerisce tale movimento non è nel ritmo di vita, già arrivata ai limiti di sopportazione, ma solo nella ricerca scientifica e sociologica.

In sociologia, una generazione è un insieme di persone che è vissuto nello stesso periodo ed è stato esposto a eventi che l'hanno caratterizzato. Una generazione raggruppa, cioè, tutti quegli individui segnati dagli stessi eventi, ed è distinta dal concetto statistico di coorte dal fatto di condividere un comune sistema valoriale e una comune prospettiva sul futuro.

Definibile solo a posteriori, cioè quando la sua influenza sulla storia e nella società è terminata, una generazione è spesso in almeno una forma di conflitto con la precedente, qualità che contribuisce a caratterizzarla. Gli eventi influiscono sulla generazione che li ha vissuti, determinandone dunque un mantenimento di caratteristiche proprie di quel momento storico, culturale e sociale.

Fin dall'antichità si è posto il problema del concetto di generazione, che può essere inteso come gruppo di individui della stessa età e di conseguenza nella stessa fase della loro esistenza, che condividono una serie di eventi e una serie di prospettive:

lignaggio

discendenza familiare

ascendenza familiare

La sociologia si è interrogata su questo concetto da un punto di vista quantitativo, al fine di determinare la durata di una generazione e utilizzarla come unità di misura per la storia della società. Bastava un battito di ciglia a determinare il passaggio da una generazione alla successiva. Fin dall'antichità si intendeva una generazione anche come unità di misura  temporale non-standard per indicare la durata media di tempo tra la nascita dei genitori e la nascita dei loro figli. In questo senso la durata di una generazione era calcolata intorno ai 30 anni e successivamente si è affermata una quantificazione intorno ai 20-25 anni. I limiti dell'approccio quantitativo sono però evidenti e sono stati ben presto messi in dubbio con diversi elementi alla definizione delle caratteristiche principali del concetto di generazione:

·l'appartenenza ad una stessa fase della vita (la contemporaneità)

·eventi, cause, punti in comune caratterizzanti

·orizzonte comune di esperienze

In questo contesto la presenza di incastri temporali tra le varie generazioni non si configura più come un problema ed esse possono avere durate diverse ed essere compresenti allo stesso tempo.

Una generazione ha solitamente anche un'identità collettiva riconoscibile, sempre a posteriori.

La durata di una generazione umana conta una distanza temporale di ogni 70 anni.

 

 

(Le notizie qui riportate sono interessanti, anche a livello filosofico, ma vorrei suggerire - come membro fondatore di questo forum - di focalizzarsi di più su questo tema. Vorrei suggerire di formulare la propria personale filosofia di vita, che è un po' anche per questa curiosità che ho intrapreso questo cammino, insieme a Ugo che per cause di lavoro, suppongo, si è messo un po' da parte, spero provvisoriamente.

 La nostra filosofia di vita si esprime anche con la completa mancanza di filosofia, anche quella è già una scelta, cosciente o meno, ma un codice personale, un tipo di comportamento, anche solo auspicato, è necessario per capire un po' chi siamo e dove ci troviamo, che cosa vogliamo eccetera.

Ho ricevuto diverse pressioni a riguardo e mi fa piacere, quindi da questo momento in poi possono partecipare persone introdotte dai già partecipanti, basta presentarsi sinteticamente con email esterni a questo testo, ovviamente garantendo la propria capacità ed efficienza in lingua italiana... e poi comportarsi da galantuomini e gentildonne, pena espulsione immediata, o quasi)

 

tutto questo approssimativamente

Omero Tucci, fondatore capo, si fa per dire

 

 

Jens Kristensen 34

 

Presentato da Omero, sono danese, professore all'università di Kiel. Ho avuto un'esperienza di vita interessante e interattiva, forse perché ho studiato il comportamento umano, di diverse materie legate tra di loro, come storia, filosofia e sociologia. Sono un falso magro leggermente sovrappeso, ma non mi si potrebbe chiamare ciccione. Almeno questo lo spero. Brizzolato, sale e pepe, attualmente con più sale e meno pepe.

Avendo una cultura abbastanza larga e variegata ho insegnato un po' di tutto, dipendendo dalla richiesta del mercato, a bassi livelli anche l'italiano, che è sempre stato una delle mie passioni, anche per via delle vacanze sulle colline toscane e certi romanticissimi borghi medioevali della Maremma.

Nonostante questo, quando lavoravo come professore di materie umanistiche mi sorpresi di quanti soffrissero della strana Sindrome del Bastiancontrario.

Se in una classe mi azzardavo a dire una cosa di cui ero obbligato a citare l’esistenza, ma di cui ero anche certo dell’inutilità, ecco che per loro, automaticamente, diventava la più importante e unica questione, almeno fino alla fine della lezione.

Molti di loro se la ricordavano anche nelle seguenti e insistevano nello spiegare per forza, a tutti, nuove e interessanti sfaccettature sulle quali si erano esaustivamente documentati. Non valeva la pena di dargli eccessiva soddisfazione, perché allora si convincevano ancora di più dell’importanza nascosta dell’argomento in questione.

Con il tempo imparai a mettermi un po’ da parte e a considerare questi soggetti soprattutto a livello antropologico e sociologico insomma. Dopo un po’ quelli si stancavano, soprattutto se nessuno li contrastava.

Ho notato che ci sono anche persone che se tu dici che i peperoni ti hanno fatto male, per esempio quelli che erano sulla pizza, vogliono convincerti che era un’altra cosa, ma non i peperoni.

Se dici che bere il caffè non ti fa dormire, per loro diventerà un punto d’onore dimostrarti che non è vero, è solo una questione psicologica, esattamente uguale per tutti.

La mia filosofia è vivere e lasciar vivere, cercare di imparare costantemente e divertirsi un po' almeno, tutti i giorni.

 

 

Paride Persico  35

 

Contadino e sedicente cervello fino, presentato da Ugo Lai, italiano in Argentina, città di Rosario. Un passato di ragioniere e perfino di politico, ma per poco tempo, ho capito subito che lì non c'era niente da fare. Ora faccio l'orto e studio varie materie, tra cui la diffusa stupidità umana per capirne l'intelligenza, certo meno frequente, ma indubbiamente esistente. Il mio cognome deriva dal famoso pesce un po' spinoso, a livello gastronomico piuttosto gustoso, ma va saputo cucinare.

La mia filosofia è un misto: calma, il mondo è nostro (proverbio brasiliano-bahiano) più se ce lo levano magari potrebbe essere anche meglio (opportunismo internazionale).

Un mio conoscente è convinto di essere bravo a fare i  discorsi, cosa dalla quale invece io mi sento terrorizzato.

Ne è proprio orgoglioso e quando ce n’è bisogno lo chiamano immancabilmente. Se qualcuno gli chiede qual è il suo segreto, dice che sono tre:

1)Prima dico quello che sto per dire

2)Poi lo dico

3)Dopo ripeto quello che ho detto.

Naturalmente, poi, finita la lista dei ringraziamenti e delle ruffianate, lo scheletro del discorso vero e proprio sono dei luoghi comuni triti e detti mille volte da altri in occasioni del genere o anche completamente differenti, durante conferenze o celebrazioni di qualsiasi tipo.

La maggior parte della gente che mi piace, non a caso, la pensa come me, a riguardo: i discorsi sono cose che nessuno ha voglia di fare e nemmeno di ascoltare.

Proprio ieri ho visto un documentario sull’archeologia e anche sulla scienza in generale, in cui gli intervistati dicevano che teorie nuove, o prove importanti che cozzavano con tutto il precedente di quella materia, venivano accantonate e nascoste, semplicemente perché scomode, si sarebbe dovuto mettere tutto di nuovo in discussione.

Sono arrivato alla conclusione che gli umani amano ingannarsi sistematicamente: prima lo fanno con se stessi, poi con gli altri, gli altri lo fanno con loro e la verità rimane perlopiù intoccata.

Tutto questo non gl’impedisce certo di sventolarla come una bandiera sacra e inviolabile, ma ne parlano come una cosa astratta, che naturalmente non conoscono e nella pratica non vogliono nemmeno conoscere, anzi: ci stanno attentissimi a non venirne nemmeno sfiorati.

Se si tratta di una facciata piace a tutti, però nella sua applicazione pratica non gl’interessa, perché è una cosa scomoda.

La verità è troppo rigida, si capisce, invece la bugia apre un ventaglio enorme di possibilità, si può scegliere quella che ci piace di più, quella che ci avvantaggia maggiormente, se ne avessimo bisogno, se ne possono cambiare anche delle parti, strada facendo.

Si sfocia di nuovo inevitabilmente nell’antropologia, una scienza molto vasta che io posso dire d’ignorare profondamente, ma che parimenti mi affascina.

 

 

Omero 36

 

Che gli esseri umani amino ingannarsi non è una novità, ma secondo me la maggior parte non si rende conto di tante cose, anche più importanti, del fatto che insegue la propria coda.

Bisogna parlare per forza dell'ansia, perché segna le nostre giornate e senza di quella si vivrebbe meglio. Non da oggi ho cercato invano di sconfiggerla, di ignorarla, insomma di snobbarla e mi piacerebbe sentire cosa ne pensate, se siete ansiosi o se invece non lo siete: come, quando e perché.

Credo che sia un nostro limite, degli esseri umani voglio dire, gli animali non ce l'hanno per quel che mi risulta, se non sono gli stessi padroni che gliela fanno venire.

Forse per via della morte, che sappiamo arriverà un giorno o l'altro, gli animali non lo sanno e stanno meglio.

Se la vita abbia un senso non lo so, ma sembra che vogliamo essere sempre da un'altra parte, abbiamo la sensazione che stiamo perdendo tempo.

Insomma che ci facciamo qui?

A questo proposito ero con il mio amico Jens, che ora fa parte del nostro forum, parlavamo con le gambe nell'acqua, eravamo con le rispettive consorti alla spiaggia dei nudisti di Teufelssee (Lago del Diavolo), a Berlino ce ne sono diverse e io ero l'unico tra centinaia di persone nude con addosso dei pantaloncini corti gialli a righine blu.

Era estate ed era caldo, una cosa che succede anche in Germania. La gente completamente nuda prendeva il sole  si comportava esattamente come se fosse vestita. Nessuno mi guardava, non me lo facevano pesare, ma si vedeva che m'ignoravano in maniera differente dagli altri.

Jens nemmeno da vestito era un granché, non era certo un bello spettacolo da nudo, ma non gliene importava niente, d'altronde attorno a noi non era il peggiore. Il mio amico, professore di lingue e suo malgrado filosofo contemporaneo, uomo che per un bel po' invano ho cercato di convincere a partecipare al nostro forum, mi ha sorpreso, non del tutto positivamente, quando gli ho chiesto quale fosse - secondo lui che era un addetto ai lavori - il senso della vita. Alla quale mia domanda ha placidamente risposto:

- No, il senso della vita io non lo so, ma conosco il senso della vite, se ti accontenti se non ti fissi troppo sul significato delle parole e sulle preposizioni articolate.

Te lo posso anche sommariamente spiegare: la vita può avere tanti sensi e ognuno inventa il suo, se può, o sennò segue la corrente, è una roba complicata assai e troppo soggettiva per avere delle regole, che sono inevitabilmente altalenanti e ingannevoli.

Personalmente io preferisco la vite. La vite ha due sensi: avanti e indietro, nel senso che si può andare avanti e non si può tornare indietro, questo implica che bisogna dare importanza a tutto, riflettere, ponderare... ma senza esagerare, sennò ci si blocca. Per avere un senso la vite deve andare avanti e non può andare indietro, è una condanna degli esseri umani, ma è anche una specie di metaforico suggerimento. Fin qui ci siamo?

- Tutto qui?  Ho domandato io deluso.

- No, ci sarebbe anche un altro senso, di un'altra vite. Quella anche ha due sensi: produrre e portare a maturazione l'uva che può essere usata come una normale uva da tavola, oppure per produrre il vino. Quindi ha due sensi.

Ti pare una stronzata?

- No, due. Anzi quattro.

 

 

Luiz Santillana 37

Mi ha presentato Ugo Lai, mi chiamo Luiz e sono spagnolo di origine, psichiatra, sono quindi preposto a seguire ed amenizzare, quando ci riesco, certi comportamenti estremi e dannosi.

La mia filosofia è vivere il momento, quindi è abbastanza varia e cangiante, forse anche fluttuante. A me piace così. Oppure non saprei proprio come cambiarla, fate voi.

L'ansia mi renderebbe ansioso o anziano, scelgo di debellarla in una maniera mia personale che è capire quando si presenta e agire al contrario, con una calma artefatta sì, ma funzionante, almeno al mio caso.

Credo che capire nel momento in cui certi problemi ci capitano, ci possa aiutare a prenderli per le corna e quindi ad amenizzarli, ma non certo a dimenticarli, come il coraggio può venire fuori dal momento in cui uno riconosce di aver paura.

 

 

Ugo 38

 

Tranquillo, Gualtiero. A volte sono io che posso non esprimermi bene. D’altra parte non sono un professore come la Chiara (da notare come ci punzecchiamo: è lampante che ci amiamo sempre). Io lavoro di numeri e di formule ed in più, nello scritto non si capiscono le sfaccettature e le intonazioni delle frasi, per cui è difficile a volte interpretarlo. Per esempio, qui nel Rio Grande do Sul c’è una piccola parola, anzi, un’espressione, “bah”, che ha significati plurimi a seconda della cadenza con cui è pronunciata e nello scriverla non si capirebbe qual è quello che vorremmo utilizzare.

Proprio in questi giorni mi è successo qualcosa di simile col mio amico Giovanni. Più o meno come con Gualtiero: anzi, un po’ peggio, se si può dire così, perché avevo scritto una frase secca (e con il punto esclamativo, odiato dai grandi scrittori) che poteva essere mal interpretata. Non c’è stato nessun litigio, parlando ci siamo intesi subito.

Ecco una cosa che manca al mondo moderno, soprattutto quello social: la calma, l’analisi, il discernimento di ciò che l’altro scrive. Si legge, si parte subito in tromba e poi fatichiamo per rimettere insieme gli eventuali cocci. Tempo fa lessi, su uno dei più famosi di questi social, una persona che criticava un parcheggio di un camion a una certa ora che metteva in difficoltà il passaggio degli autobus. Subito gli fu risposto, in maniera scorbutica, che tanto in quel momento della giornata le corse dei mezzi pubblici erano terminate. A sua volta, la prima persona replicò che invece gli autobus a quell’ora c’erano, essendo proprio lui un autista di quelle linee.

Sembra che le persone diano tutto per scontato, padroni della verità assoluta, conoscitori di tutte le situazione. E dicono, anzi, affermano tutto con arroganza. E guardate che di arroganza me ne intendo, visto che molti di coloro per cui indirettamente lavoro, si presentano come Dio in terra.

Insomma, come capite io non sono alla vostra altezza per riflessioni filosofiche. Io guardo al sodo. E, devo ammettere, guardo a me. Sono un egoista, un orso come dice Chiara. Quello che mi domando è, visto che ne faccio pubblica ammenda, sono almeno parzialmente perdonato?

Scorrendo rapidamente i vostri interessantissimi discorsi, ho notato che le nuove amiche tedesche parlano di separazione delle società. Ne parlò, anzi, ne scrisse, il botanico francese Auguste di Saint-Hilaire nel suo “Viaggio al Rio Grande do Sul”, Stato che visitò nel 1822, lasciandoci quasi le penne avendo mangiato un miele che evidentemente non era commestibile. Ebbene, studiando la società degli indios locali (non mi domandate quali, non ho tempo di prendere il libro e cercare) e la società che si stava insediando in questa terra di confine luso-spagnola, affermò che le due etnie non dovevano affatto mischiarsi.

Il motivo era semplice: gli indigeni vivevano per il presente, gli invasori (possiamo tranquillamente chiamarli così) per il futuro. Per cui, se un indio andava a caccia e incontrava due cinghiali, ne ammazzava solo uno, perché era quello che serviva per l’immediato. La fame del giorno successivo si sarebbe placata andando di nuovo a caccia di quel cinghiale sopravvissuto, sempre nella speranza di trovarlo.

La nostra società, no. Noi li avremmo uccisi entrambi, uno per il presente, l’altro per il futuro. Saint-Hilaire affermava che l’unione dei due gruppi si sarebbe rivelata una merda, scusate il francesismo. Infatti non sarebbe stato possibile inculcare nelle teste degli europei il bisogno di vivere solo per il presente oppure convincere gli indigeni che esiste un tempo chiamato futuro. Infatti cacca è stata (da notare come ho cambiato il sostantivo, rendendo accettabile lo stesso prodotto; la forza delle parole!), soprattutto per i poveri abitanti locali.

Riallacciandomi al discorso, chiudo con una domanda ai filosofi del gruppo, ripresa da De Crescenzo a sua volta ripresa da non so chi. Il passato non esiste, perché non c’è più; il futuro non esiste (avevano ragione gli indios?) perché deve ancora arrivare. Il presente, come momento divisore di due tempi che non esistono, come fa ad esistere?

 

 

Chiara 39

 

Venendo da Ugo il discorso sul presente, che secondo De Crescenzo non esiste, è intrigante. Ti ringrazio per avermi dato occasione di ricordarmi che cosa non mi è mai interessato della filosofia, cioè i sofismi, quelli che anche una volta risolti, nella pratica non ti cambiano niente. Naturalmente è una cosa giusta ed efficace considerare la filosofia da vari punti di osservazione. 

Ma è un mare senza vento, completa bonaccia, che improvvisamente diventa in tempesta.

No, non lo so, la filosofia mi affascina e mi spaventa, sarebbe come dire che noi potessimo condurre la nostra vita sulla base del ragionamento, eppur tenendo conto del cuore, sarebbe bello ma non mi pare possibile.

 

 

 

Albertina 40

 

La vita è una disciplina e il cuore decide quanto il cervello, se possibile discutendo su ogni scelta, ma senza perdersi   in inutili sofismi; ti piace di più così?

Andando per esclusione, perché mi dovrei interessare alla filosofia? Che cosa mi importa di capire o di sapere?

Solo la parte pratica, comprendere prima di tutto cosa voglio, come sono fatto io e la gente e poi, non necessariamente in questo ordine: com'è il mondo attorno.

E ce n'è già abbastanza per potersi perdere.

Luciano De Crescenzo mi garba assai, anche come persona, e poi è stato lui che mi ha portato, a pezzi e bocconi, sulla strada della filosofia, mi sono persa quasi subito, ma ogni tanto mi ci ritrovo.

 

 

Luiz 41

 

Qui sta piovendo ininterrottamente da giorni. Lo stato del Rio Grande do Sul è allagato e scivola neanche tanto lentamente verso il mare. Dicono che è colpa del fenomeno atmosferico del Ninõ o forse della Ninã, non mi ricordo, ma una è conseguenza dell'altro, il quale è provocato da un ciclico ma irregolare e discontinuo surriscaldamento dell'Oceano Pacifico.

Essere metereopatico è una delle caratteristiche brasiliane più comuni, vedi che chi mette la musica alta non lo fa mai quando è nuvoloso o piove, appena spunta il sole ecco che siamo automaticamente condannati ad ascoltare le peggiori versioni di samba e pagode, chi alza assai il volume raramente ascolta bella musica, fose cercano di compensare con il cursore alla bassezza delle canzoni.

 

 

Gundel 42

 

A Berlino sboccia la primavera, forse perché siamo aldisopra dell'equatore. Il tempo atmosferico ha a che fare con quello dell'orologio e del calendario, non a caso si chiamano con lo stesso nome in italiano, spesso nelle altre lingue invece sono parole diverse, come in tedesco e in inglese.

Il presente è detto indicativo proprio perché - al momento giusto -  separa le acque per noi e ci indica da una parte un passato e dall’altra un futuro.

Ci dice che il passato - per quanto romantico - non è più; che il futuro - anche se radioso -non è ancora.

Invece il passato, anche se non sempre imperfetto, che sia prossimo o anche remoto, non ha più energia, ma sulle sue macerie, magari ancora fumanti, saltella proprio il presente, a indicarci la strada da scegliere.

Il futuro, non importa se sarà semplice o anteriore, certo avverrà o sarà avvenuto, ma purtroppo c’è ancora da aspettare.

Anche se a volte ci viene il dubbio, siamo piantati qua in mezzo e pure se condizionali e congiuntivi vari ci punzecchiano con ipotesi non sempre realizzabili, pare proprio che esistiamo, effettivamente, in qualche misteriosa maniera.

Dimentichiamoci quindi, almeno per un po’, di essere chi siamo, perché il presente non aspetta, è proprio oggi, ora, in questo momento. Se ci facciamo prendere dall’ansia, il tempo perde il suo valore, anzi sciupa anche tutto il resto.

 

 

 

 

CONTRIBUTI LETTERARI

 

Mi è venuto in mente di fare un libro con questi contributi a loro modo letterari, allora ho invitato i partecipanti a scrivere qualcosa di artistico, si fa per dire, a partire dagli argomenti trattati. Se non hanno niente allora qualcosa di amici e conoscenti, meglio se inedito. Mi hanno già mandato diverse cose, sto selezionando le cose secondo me migliori. Man mano le metterò giù.

 

 

Luiz (19 pagine)

 

 

FUORI DALL'AMBULATORIO

 

Lavoro per diverse ditte di Porto Alegre, Rio Grande do Sul, Brasile, dove cerco di armonizzare il tempo e lo spazio, i caratteri delle persone, per migliorare poi di conseguenza l’ambiente e finalmente il relativo lucro di queste imprese… che poi è quello che conta, almeno per loro. 

Ho un paziente-impaziente e datore di lavoro, tra gli altri, che sa benissimo cosa fare, il che è cosa rara, ma che si guarda bene dal farlo, cosa assai comune.

Paulo Sergio è anche un caso antropologico degno di menzione, è un grande osservatore e ha un cervello notevole, anche se lo usa a senso unico, cioè solo per far soldi.

È un uomo di età indefinibile, la sua faccia a volte sembra vecchia ed altre più giovane, ma la sua carta d’identità dice che ha quarant’anni.

È una specie di imprenditore genialoide, che dà ogni tanto segni di squilibrio, come qualche improvvisa risata satanica o attacchi di ira ingiustificata e distruttiva, a volte si sfoga sui mobili.

Va bene, sono suoi, ma per pagarli poi si deve stressare anche di più.

È un tecnico, nel suo campo, un manager creativo che ha inventato e sviluppato macchine con sistemi di conteggio dei passeggeri per i minibus di Porto Alegre, che qua si chiamano Lotação e rappresentano un mezzo di trasporto migliore dell’autobus e perciò fonte di grandi guadagni per le relative imprese.

Un nuovo sistema di porta a cellule che non permette all’unico uomo di equipaggio, allo stesso tempo autista e controllore, di rubare sul denaro incassato.

Uno schema complesso ma efficace, che oltre a garantire a Paulo Sergio un futuro di successo finanziario, gli ha annullato ogni ombra restante di tempo libero e in famiglia lo conoscono per sentito dire, attraverso ricordi lontani, fotografie, cassette video e lo incontrano, di persona, solo nei rarissimi fine-settimana in cui lui riesce a liberarsi, cioè nei rari natali, pasque e carnevali.

Per lui le vacanze sono i viaggi di lavoro, che fa per ricerca o per allargare il suo raggio d’azione.

Durante il nostro quasi un anno e mezzo insieme, visto che è un grafomane incallito, ha scritto una specie di opera buffa, addirittura corredata da disegnini astratti e non, che non mi avrebbe mai lasciato leggere, se io non fossi andato a frugarci dentro, in sua assenza, visto che non sapevo più come aiutarlo.

Mi è servito abbastanza, leggerla, di nascosto, la maggior parte di quel contenuto non sarebbe stato accessibile, altrimenti.

Tra le altre cose, parla anche male di me.

La sua è una malattia fin troppo comune, tanto che in genere si crede che i malati siano gli altri, quelli che non ce l’hanno.

Non che ora io sappia cosa fare, con lui e per lui, il suo è un carattere forte, non accetta che nessuno gli dica cosa fare, ma non posso più stare a guardare e ci sto riflettendo su.

Il suo è un caso complesso, perché Paulo Sergio conosce sempre i due lati della medaglia, ma sceglie invariabilmente quello che gli è più comodo, che poi, spesso, non è affatto il migliore.

Riporto qui la stesura completa, ma senza i disegnini, perché spesso sono osceni e mi ritraggono in varii aspetti, dei quali, personalmente, non sono orgoglioso.

 

 

Ore 23 e 15.

Seduto in ufficio, non riesco fare quello che dovrei, cioè terminare una specie di relazione per un discorso che farò domani in una riunione generale.

Per distrarmi un poco, inizio a fare disegnetti astratti e idioti, un po’ schifosi, che però non m’impegnano per niente la mente, anzi mi fanno continuare a pensare, allora inizio a scrivere.

Tra le altre malattie mentali, si può dire che ci sia in me una certa grafomania, poi ho anche la mania di leggere tutto, ma non so come si chiama.

Non è che non mi piaccia la realtà di tutti i giorni, ma ho bisogno di qualcosa che mi faccia evadere, anche per pochi minuti alla volta, da questo tipo di situazione a tema fisso, allora leggo un po’ di tutto.

Diciamo che quando non leggo, o scribacchio o disegno, tutto quello che faccio è parte di riflessi condizionati e spinti da uno stato di stress altalenante, anche se, ultimamente, proprio leggendo, ho imparato che lo stress è necessario, ma è il distress invece, che non lo è.

Normalmente con il nome di stress si intende il distress, nella lingua di tutti i giorni, erroneamente si chiama stress quello stato patologico di incapacità di reagire positivamente agli ostacoli e alle traversie del nostro quotidiano, che invece, per definizione, è il distress.

Lo stress non è altro che una ‘sindrome da adattamento’ , purtroppo o per fortuna, veramente necessaria, nella vita di tutti i giorni, per mantenere lo stato di tensione indispensabile per concentrarsi nel superamento degli ostacoli quotidiani.

Il distress, invece, è l’eccesso di stress, se una persona è sempre tesa, non riesce a rilassarsi in nessuna delle fasi di routine giornaliera, o comunque in maniera insufficiente per ricaricare le proprie pile stanche, entra in uno stato di vera e propria malattia, allora sì, veramente  negativo, questo è il distress.

 

Ore 10 e 16 minuti.

Di nuovo in ufficio, guardo dalla finestra, in un buco tra una riunione e l’altra e da qualche minuto, incredibilmente, nessuno entra e nessuno mi telefona, ne approfitto prima che si accorgano che non ho niente da fare.

La mia mente è sempre da un’altra parte, difficilmente accompagna quello che sto facendo, se non in parte, una frazione scomposta di tante, che allo stesso tempo tentano, senza riuscirci, di fare il punto di una situazione in costante fuga dal presente.

La realtà è alienante, perché si tratta sempre di lavoro e la quantità di lavoro non è mai quella ideale… o è troppo o troppo poco, le dosi non sono mai controllate e distribuite, chi ne ha troppo e chi ne ha troppo poco, un giorno si lavora eccessivamente, un altro i clienti non arrivano.

Intendiamoci,  il mio lavoro mi piace, ma non sempre si può fare come voglio io, perché gli altri non me lo permettono, anche se sono il capo e padrone della mia impresa e qui comando io.

La pressione che sopporto tutti i giorni, pur essendo proprietario, non è poca, riunioni su riunioni e clienti insoddisfatti, dipendenti incompetenti, poco tempo o niente e i soldi potrebbero essere di più, visto e considerato che non ho più una vita personale da almeno dieci anni.

Se non fosse tragico sarebbe comico, o forse è già tutte e due le cose, come dicono alcuni teorici saputelli che conosco, come il nostro psichiatra Zè Mario, al quale non farei mai leggere queste pagine, nemmeno se mi supplicasse in ginocchio.

Quasi mai mi trovo in condizioni ideali per godere del piacere di quello che sto facendo, prima di tutto perché non posso mai terminare qualcosa che vengo puntualmente interrotto da qualcuno, o da una telefonata, o perché mi viene in mente cosa avrei dovuto fare e ora non posso più… e invece, testa di cazzo, mi sono dimenticato.

Il mio cervello è sempre immobilizzato e tremante sotto una cascata di cose da fare e spesso non so da che parte cominciare, inizio allora a caso, per non rimanere lì un sacco di tempo a cercare di decidermi: di tempo non ne ho e non ne posso perdere.

Però mi pare di essere in ritardo su tutto, alcuni dicono che è mancanza di ‘opportuna sequenza e progettazione del futuro immediato’, ma sono solo frasi ad effetto, perché per me non esistono più il passato ed il futuro… e intanto, forse di conseguenza, anche il presente non lo controllo più.

Mia moglie non la vedo quasi mai e questo potrebbe essere anche un lato positivo, perché è capace solo di lamentarsi, i miei figli mi salutano distrattamente come farebbero con il postino, ma forse il postino lo vedono più spesso, o magari l’internet ha reso la vita impossibile anche a lui.

Ho iniziato a leggere un libro che lei, Ana Clara, mi ha fatto trovare accanto alla tazza del caffè, e mi ha subito incuriosito, lei lo sapeva, perché qua in Brasile funzionano molto questi testi di training autogeno.

Anche se non ci credo molto, a volte dicono cose utili, ma il fatto è che io non ci capisco quasi niente, o meglio: capisco cosa dicono, nel senso stretto del significato, ma non capisco come si fa a comportarsi come dicono loro, l’uomo non è una macchina… e se lo fosse magari sarebbe meglio, allora io avrei bisogno solo di una revisione totale.

Ho viaggiato assai, sempre per lavoro, e ho visto che in Europa, per esempio, questi libri non vendono per niente, forse la gente di là sa vivere in maniera migliore o forse, invece, siamo noi che siamo all’avanguardia perché, almeno, ci rendiamo conto che il problema esiste.

L’uomo, se non sa disciplinarsi, è alla mercè delle onde in un mare in tempesta, va alla deriva senza minimamente rendersene conto.

Mi hanno detto che questo tipo di letteratura proviene dalla cultura americana e noi brasiliani siamo direttamente legati a loro, almeno dal punto di vista di mercato, quello che loro vendono là, lo vendono anche anche qui e altrove, se ci riescono, ma in Europa ci mordono meno.

 

Ore 12 e 4 minuti.

Mangiando un panino con una durissima suola di scarpa, maionese acida, pomodoro transgenico e insalata di plastica, che la segretaria Aline è andata a prendermi giù al bar, (e poi mi ha ingannato, fors’anche in buonafede, dicendomi che c’era della carne, dentro,) scrivo di nuovo:

Il libro che sto leggendo è intitolato: “Dallo stress al successo personale, in 34 lezioni pratiche, spiegate con semplicità e grafici dal Phd in scienze sociali, esperto di Neuro-Linguistica, James Lee Wanamaker”, il cui seguito è, l’ho già visto in Internet: “Dal successo personale allo stato privilegiato di saggezza filosofica, in 55 lezioni pratiche con James Lee Wanamaker”.

Questi libri sono dei mattoni di circa settecento pagine, scritte fitte-fitte, fatte di regole, grafici, postille, consigli, suggerimenti, postulati su come diventare coscienti di se stessi e approfittarne poi nel mondo del lavoro, del successo sociale e magari, poi per piantare tutto e fuggire.

Insomma, dicono che funzionino, anche se nessuno capisce come… ecco, io ho qualche fottuto dubbio, ma sono curioso. Però è meglio tornare indietro, all’inizio del libro, ecco come Wanamaker abborda il tema:

 

Gli esseri umani compiono le loro azioni in uno stato di veglia più o meno completo, nel quale spesso il loro cervello è in preda ad una agitazione che non solo rappresenta un dispendio di energia enorme e per niente necessario, ma in questo stato di veglia esagerato è più difficile controllare il proprio cervello che saltella di qua e di là come una scimmia ubriaca.

 

La scimmia ubriaca è una visione - purtroppo - assai ottimistica del mio cervello, perché l’ebbrezza non c’è, è tutto abbastanza cosciente, eppure incontrollabile.

 

Una serie di meccanismi perennemente innescati e legati l’uno all’altro, che portano, insieme, e a rotazione, ad un senso di insoddisfazione generale.

 

Ecco: l’unica cosa di cui sono cosciente è proprio questa: sono prigioniero di un meccanismo, ma tutto questo è molto poco meccanico, forse è più elettrico, o magari elettronico... chissà, questo Wanamaker potrebbe anche avere ragione.

 

La dispersione è incalcolabile, la padronanza sui nostri pensieri e sulle conseguenti azioni è parziale, discontinua ed in progressivo peggioramento (ogni giorno finché dormiamo e la nostra mente riposa, ma anche in generale perché la nostra insoddisfazione aumenta) man-mano che diventiamo sempre più stanchi ed insoddisfatti, realizzando, chissà come, che la vita non ci riesce come vorremmo.

 

Ma anche di questo non siamo certi, come potremmo? Non abbiamo punti fermi, siamo in balia delle onde in una tempesta, che anche se termina, poi, non lo fa per causa della nostra influenza ed in seguito ricomincerà senza che noi possiamo interferire più di tanto.

Sì, posso anche essere d’accordo, anzi diciamo che lo sono senz’altro, in fondo è esattamente ciò che provo ogni giorno, ma come risolvere questo stato di cose?

E poi mi pare strano che nessuno abbia detto a Wanamaker che il mondo è un mercato, e che per mantenersi al passo bisogna essere rapidi e attualizzati, senza alcuna pietà - giammai - operare chirurgicamente oppure, come fanno i suoi compaesani, buttando bombe in quantità, se e quando valutano che sia cosa buona e giusta, parola del Signore?

 

Ore 15 e 22.

Sto trangugiando distrattamente una merenda vegetariana, magari sana, ma completamente priva di sapore; bevo un caffè orribile che devo chiedere dove è andata a trovarlo, Aline, magari per fargli causa, alla mia segretaria che me lo ha portato e a loro, allo schifoso bar o sudicia tavola calda che l’hanno fatto e non contenti della loro sporca e rischiosa impresa, hanno deciso pure di venderlo, implicando addirittura un pagamento in cambio.

Lo psichiatra della ditta è qui con me, Zè Mario, sta riempiendo di ganci illeggibili una montagna di cartacce fruscianti, ogni tanto mi studia con occhio clinico, dice delle frasi di circostanza.

Devo dire che mi fa più compagnia il mio cane, un pastore belga dai denti bianchissimi: Arcore.

Zè Mario, al mio fianco, ha detto che sta scrivendo una relazione sui miei dipendenti e su di me. Gli ho domandato chi l’avrebbe dovuta leggere, poi. Ha sorriso viscidamente e ha cambiato argomento, dice spesso che sto peggiorando, lo dice con parole gentili, sorridendo, ma io intendo perfettamente cosa dice tra le righe, ma non gli dò soddisfazione, e lui continua col suo bla, bla, bla, dicendo anche, che di conseguenza, o forse no, anche i miei impiegati sono più stressati, e giù ancora con il suo serafico e apparentemente innocuo bla, bla e bla.

Io cerco di fargli capire che me ne frego di lui, che continuo a mantenerlo qui, nonostante il prezzo esagerato che mi costa, solo perché quando succede un problema con i miei dipendenti, mando lui a risolverlo, in questo è veramente bravo, e così io non ho più bisogno di incazzarmi tutti i giorni con loro, che sono tanti, ma solo con lui.

Certo che ho anche il dubbio che abbia proprio ragione, per quanto mi riguarda, ma non ho certo bisogno di lui, io, sono il capo e sono libero di essere stressato quanto mi pare e di mandare affanculo tutti, e se non gli piace che se ne vadano.

Intanto ricopio le parti del libro di training-autogeno che m’interessano, così me le ricordo meglio, mi piacciono, hanno il loro fascino, anche se forse sono delle baggianate.

 

Abbiamo bisogno di una disciplina, ecco perché esistono le religioni, perché l'uomo si sente incompleto, l'idea della morte ci ossessiona, più o meno inconsciamente, ma diventando sempre più coscienti dei nostri limiti dobbiamo prima imparare a fare tutte le cose che possiamo fare e che invece non facciamo, semplicemente perché non esercitiamo un controllo su noi stessi e su ciò che ci circonda.  Possiamo migliorare costantemente, se solo ne abbiamo coscienza e voglia. La nostra coscienza determinerà anche la volontà, se crediamo in ciò che facciamo, quindi il sistema che adotteremo dovrà soddisfarci -prima di tutto- da un punto di vista logico.

 

Secondo me il difficile è, piuttosto, capire come una persona che è arrivata a frazionare e a frammentare così la propria vita, nella sua routine, a sbriciolarla e poi a liquefarla, a portarla allo stato gassoso, possa redimersi e correggersi, tanto bene, da riuscire di nuovo a solidificarla e a cucire, o a saldare, o a congelare, migliaia di pezzi insieme…

Il mio corpo non sa vivere in un altra maniera, prima di entrare in questo stato di cose, io mi sono preparato per anni, magari non lo sapevo, ma la mia tendenza è sempre stata questa: cioè gli studi di quei tempi erano leggermente differenti dal mio lavoro forsennato di ora, ma le prospettive, non sono cambiate mai.

Il fatto è che non è difficile capire cosa fare, il difficile è capire come riuscirci, allora ci sono gli psicologi, gli psichiatri, i preti, i ragionieri, i medici, i guru, i consigliori eccetera.

Ecco che Wanamaker è un misto di tutto questo: è un essere squamoso ed eternamente sorridente che, per arrivare al successo, ha osservato la gente come me, chi lo sa, magari prima anche lui era così… poi ha globalizzato le notizie, cioè: ha pigiato tutto nel frullatore e ha ottenuto le 34 regole, le ha messe in una forma grammaticale accettabile e le ha scritte in un fottuto libro.

Non mi pare troppo difficile, la gente è così diffidente, con le altre persone, che si fida di qualsiasi cretinata che gli dice, dalle pagine di un libro, uno con una lontana parvenza di autorità nel campo dei cervelli fusi.

È facile, dire alla gente cosa deve fare, perché nessuno lo sa veramente, cosa deve fare.

Al massimo - più o meno male - fingono.

 

Ore 18 e 53.

I miei dipendenti cominciano ad andarsene, sto qui con gli occhi sbarrati, ma ho ancora troppe cose da fare per andarmene a casa, mi distraggo un po’, pensando e scrivendo la mia tesi, non so perché lo faccio, ma il fatto è che non riesco più a dialogare con nessuno e questa è una specie di conversazione ideale con me stesso, Wanamaker e magari anche con quel coglione di Zè Mario  a fare da moderatore.

Ecco che cerco di riprendere da dove mi ero fermato.

Ma, se quello che sono io, è il risultato di tutto quello che ho fatto prima di arrivare fino a questo punto, (che non so se sia grave, ma mi pare di vedere intorno, tra le altre persone - più o meno - la stessa cosa…) beh, come posso cancellarlo e imparare a vivere in un altra maniera, se ho sempre vissuto in questa dannata maniera qui?

E soprattutto, poi, come posso fidarmi di qualcuno che m’insegni come e cosa devo fare, se tutto quello che ho imparato nella mia vita, fino a adesso, è non fidarsi mai, in nessun caso, di nessuno?

Io stesso, in fondo, sono la dimostrazione di questo progressivo stato anguilliforme e viscido dell’essere umano, che non è più cosa sente e vuole, ma piuttosto quello che deve, per forza, riuscire a vendere e alla svelta.

Intanto James Lee Wanamaker se ne frega, e continua imperterrito con la sua spiegazione che ora diventa puramente tecnica:

 

Il corpo umano è come un circuito elettrico: genera elettricità.

Il circuito ideale è quello di minor resistenza (impedenza, che si calcola in ohm), perché fa maggior e miglior uso dell'energia elettrica a disposizione.

Il nostro cervello approfitta meglio ed in maggior quantità dell'energia generata dal nostro corpo quando è meno attivo, è nelle frequenze piu' basse che esso registra un maggior numero d'informazioni, tra quelle che riceve, ed in più lo fa con maggior precisione.

Tutto ciò è dimostrabile colla nostra esperienza personale: abbiamo visto che al mondo coloro che riescono a dominarsi, i tipi calmi, sono quelli che vivono meglio, che sono più amati, che riescono ad essere capiti dagli altri e in ciò che fanno senza grandi difficoltà.

 

Secondo me, i tipi calmi sono impressionanti, sembra che gli abbiano fatto l’elettrochoc, mi mettono quasi paura, con il loro sguardo lontano, come possono essere così freddi, senza reazioni e senza tic, come possono rimanere così distanti dal mondo che si strizza e soffre, si contorce e scoppia di violenza, fisica e mentale, tutto intorno a loro?

L’altro giorno mi sono trovato con uno specchio di fronte, durante una riunione, il semplice fatto di vedermi là riflesso, (pieno di scatti e movimenti incontrollabili della faccia e anche di alcune parti del corpo,) mi ha fatto sentire male, ho dovuto cambiare posto, mi sono messo di lato e mi sono sentito meglio.

Ho notato però, che quello che si è seduto al mio posto, dopo, è rimasto tranquillo a guardarsi allo specchio, mentre la riunione continuava… e questo mi ha fatto di nuovo innervosire… e anche più di prima.

 

Dall'altro lato coloro che invece sono nervosi ed agitati non hanno nessun controllo sulle loro azioni, un momento sono felici, due minuti dopo cadono nella depressione più completa.

Questa super-attività non fa bene, la mente lavora in Beta su un'infinità di cose senza soffermarsi su nessuna, o poco per ciascuna, non sviluppando -insomma- nessun pensiero valido o definitivo circa niente di ciò che 'e il nostro ambiente, la nostra capacità di convivere con gli altri e con le condizioni ambientali.

Potremmo dire infine che la confusione genera rabbia e risultati discontinui con tendenza a peggiorare, senza dubbio senza possedere mai la sensazione completa che stiamo facendo qualcosa di buono per noi stessi, ma che stiamo perlopiù subendo ciò che ci capita senza poter scegliere.

Ecco i valori scientificamente riconosciuti dei vari stati mentali che sono calcolati attraverso l'encefalogramma in CPS (onde cerebrali in cicli per secondo):

 

BETA-14 o più CPS-> completamente svegli

ALPHA - tra 14  e  7 CPS -> svegli ma quasi addormentati,                                                      o dormienti sul punti di svegliarsi

THETA - tra 7  e  4 CPS -> livello del sonno

DELTA - 4 o meno CPS -> sonno profondo

 

Si può quindi dormire in Alpha, Theta e Delta, ma in Alpha e in Theta si può arrivare ad essere capaci di usare le nostre capacità meglio che in Beta.

Perché i nostri circuiti sono più ricettivi, possono concentrarsi meglio che in Beta che rappresenta anche il livello della dispersione, dell'attenzione estremamente volubile e quindi della massima distrazione.

 

Credo di essere una delle poche persone che vivono perennemente in Beta, forse dormo anche in Beta, se il Beta esiste io sono il manifesto del Beta nel mondo…

Però, per quanto mi paia interessante, di tutta questa spiegazione, non ho elementi sufficienti per poterne confermare la validità o veridicità, certo che contrasta con la scienza propriamente detta, che, a quanto mi risulta, non riconosce l’esistenza di questi quattro stati mentali distribuiti tra sonno e veglia.

Il che potrebbe anche non essere un problema, ma ci vogliono dei fatti, la necessaria pratica come logico seguito della teoria.

 

Ore 22e32.

Sono ancora qui, la stanchezza delle palpebre si cura con il collirio, ma dopo un po’ anche quello pare fatto di sabbia… e progressivamente sempre più ghiaiosa.

La giornata sarebbe stata assai produttiva… ma solo se la nostra fosse stata una fabbrica di bestemmie: un bel panne quasi contemporaneo di diverse macchine, le relative proteste dei proprietari, ci ha fatto intuire, ai vari tecnici e a me, che se non troviamo una soluzione a quel problemino elettrostatico nei giorni di pioggia, siamo fottuti e ci troveremo in futuro con molto tempo a disposizione, debiti da pagare e qualche ingiunzione del tribunale.

Cerco di non pensarci e riprendo la mia opera, come una liberazione virtuale dai problemi, quelli veri, attraverso la falsità autorevole di James Lee:

 

              PASSIAMO ALLA PRATICA

 

                                                                                  MEDITAZIONE

 

La mattina, ti alzi e vai in bagno, fai quello che devi fare, poi regoli la sveglia per suonare dopo quindici minuti, per non rischiare di svegliarti ore dopo senza ricordare niente della tua esperienza.

Quindi ti stendi sul letto di nuovo e -guardando verso l'alto con un angolo di circa 20 gradi- cominci a contare lentamente alla rovescia da cento a uno.

Per motivi ancora non spiegati dalla scienza basta questa posizione degli occhi per generare onde Alpha.

Per uscire da questo stato di meditazione è consigliabile usare sempre la stessa frase (solo per evitare perdite di tempo):

 

ESCO LENTAMENTE MENTRE CONTO DA UNO A CINQUE, MI SENTO BEN SVEGLIO (E MEGLIO DI PRIMA).

UNO, DUE, TRE , QUATTRO, CINQUE, OCCHI APERTI, BEN SVEGLIO, MI SENTO MEGLIO DI PRIMA.

 

Continuare con lo stesso conteggio per dieci giorni.

Poi contando da 50 a 1 per altri 10 giorni---

poi da 25 a 1 per altri 10 giorni------------

poi da 10 a 1 per altri 10 giorni------------

poi da 5 a 1 per altri 10 giorni-------------

 

 

 

Giorno seguente ore 8

 

Oggi inizierò a fare come dice il nostro sorridente J.L.Wanamaker che dalla controcopertina del libro mostra tutta la fiducia che ha nella vita e una barba perfettamente in ordine.

 

 

         RILASSAMENTO DEL CORPO

 

Siediti sul letto coi piedi in terra, lascia riposare le mani sul petto. Mantieni la testa equilibrata senza farla pendere. Concentrati su una singola parte del corpo: il piede sinistro, rilassalo con la forza della coscienza, con la tua volontà; poi la gamba sinistra e così via fino ad arrivare alla gola, al viso, agli occhi e finalmente al cuoio capelluto.

Ecco la differenza tra il prima ed il dopo, questo esercizio ti mostrerà l'importanza di quello che hai appena fatto.

Ora scegli un punto a circa 45 gradi sopra il livello degli occhi e fissalo finché le palpebre cominceranno a pesare e permetti allora agli occhi di chiudersi. Comincia allora a contare alla rovescia da cinquanta ad uno. Questo per dieci giorni, quindi:

da 50 ad 1 per 10 giorni

da 10 ad 1 per 10 giorni

da 5  ad 1 per  10 giorni

 

Le esperienze di James Lee sono un po’ lunghe, ci vuole un po’ di tempo, per vederne i risultati messi in pratica, ma ho fede, ce la metto tutta.

Rettifico: non so se ho fede o la mia è piuttosto curiosità, ma non posso scegliere, m’impegno al massimo, certo, a volte mi dimentico, ma James Lee pare un tipo comprensivo e oggi ho scoperto che ha la mia stessa età.

Domanda: possibile che lui sia così intelligente e saggio, da avere speso, così meglio di me, il mio identico numero di anni, e che io sia progressivamente diventato sempre più cretino e lui mi stia insegnando, sorridendo pazientemente, a esserlo un poco meno?

Risposta: non è del tutto impossibile, cerco di credere che sia improbabile, ma la mia mente, sempre secondo lui, non ha nessuna fermezza, non ha punti di riferimento, balla tutto il tempo sul ritmo di una musica che non è più l’armonia della natura, del mio corpo.

Sto iniziando a parlare con Lee, ad arrufianarmi, in un certo senso.

Lo psicologo della ditta, Zè Mario, direbbe che nella vita tutto ha un prezzo ed io sto cercando, invano, di ottenere uno sconto.

Zè Mario è esageratamente calmo e sta sempre a studiare la reazione degli altri, molto poco le sue.

Lo ho visto fare in pubblico cose per niente esemplari, come mettersi le dita nel naso e liberarsi con naturalezza del prodotto di quelle ispezioni, sotto le sedie o i tavoli più vicini.

Secondo Wanamaker, però, le dita si possono usare meglio, eccone una dimostrazione:

 

 

                                                                TECNICA DELLE TRE DITA

 

Unendo il pollice, l'indice e l'anulare di una delle tue mani, ottieni un tipo di tecnica di introduzione ad una concentrazione più rapida, quando non hai tempo per una meditazione completa.

 

È incredibile quanto la disciplina può aiutare un povero essere umano perduto nella burrasca del consumismo selvaggio, ed infatti io non ci credo.

Invece, secondo James Lee basta seguire le sue magiche regole e il nostro male svanisce.

Tanto per intendersi, il male di noi manager d’assalto, è che crediamo di essere onnipotenti, ma dentro di noi lo sappiamo bene che stiamo fingendo, è solo marketing per vendere meglio e di più il nostro prodotto, che poi è proprio la nostra apparenza.

In tanti dicono che il mondo moderno è basato su facciate senza contenuto, che l’apparenza è diventata più importante di qualsiasi altra cosa.

J.L.W è uno di questi.

 

Ore 12 e 34

Oggi ho fatto una pausa per il pranzo imbottita di esercizi e ho mangiato rapidamente un’insalata mista, solo vegetale, per vegetare meglio, non per vivere, che quello è un’altra cosa, ma il mio dietologo… o meglio, quello di mia moglie, dice che la carne rossa fa male, forse ha ragione, lo ammetto, ma se la mangio mi sento più vivo, sarà per via del sangue.

Ho una fame con le orecchie, ma mi sento moralmente bene, perché sto seguendo le sue istruzioni, che coincidono perfettamente con quelle di Wanamaker e di Zè Mario.

Non so se lo faccio per dimostrare che non sono efficaci, ma se lo fossero sarebbe meglio per me.

E poi mi sembrano tutti dei marziani, questi qua, o sennò non lo so da dove sono venuti fuori.

Un’ipotesi probabile: di nascosto fumano un pacchetto di sigarette al giorno, mangiano chili di bistecche con sopra barattoli di maionese e poi si guadagnano la vita dicendo di fare il contrario.

Non è che io stia credendo ciecamente a J.L.W, ci mancherebbe altro, ma ultimamente ho avuto spesso intuizioni illuminate sul fatto che il denaro si rincorre eternamente la coda, non l’acchiappa mai.

Sto guadagnando venti volte di più di quello che dieci anni fa mi pareva molto, ma non sono per niente soddisfatto e ogni aumento mi pare scontato, perché vedo davanti a me un’infinità di gente che ha più successo di me.

Rispondendo a J.LW. io dico che non c’è più tempo per i contenuti, si deve pensare all’essenziale e, per vendere, quello che conta è l’apparenza, già che nessuno scende più sotto… magari per la stessa mancanza di tempo.

Certo che per i contatori elettronici di persone sui minibus, il discorso della validità del contenuto è fondato, se non contano le persone o vanno in tilt come ieri e in tutti i giorni di maledetta pioggia, le imprese di trasporto se ne fottono se hanno una cassetta-involucro poco ingombrante, carina e colorata, ma, parlando in generale, i prodotti virtuali sono quelli che funzionano di più, nel nostro inizio di millennio, non c’è niente da fare.

E poi James Lee Wanamaker prima di tutto si fa tagliare la barba alla perfezione e poi si fa fotografare, dopo mi viene a dire che il contenuto è più importante dell’apparenza, che l’ipocrisia è dannosa soprattutto per gli ipocriti…

Pazienza, Wanamaker se infischia di quello che dico io insieme a milioni di altre persone, e va avanti tranquillamente con le sue dimostrazioni:

 

Esempio di formula:

 

QUANDO IO UNISCO LE MIA DITA COSÌ RAGGIUNGO SUBITO QUESTO LIVELLO MENTALE PER RIUSCIRE IN QUALSIASI COSA

 

Immagina quella che potrebbe essere la tua tela mentale, grande o piccola, a due-tre metri di distanza dai tuoi occhi, meglio grande per costruire scene ricche di personaggi, scene reali, riproduzioni del teatro della vita.

Non deve coprire tutto lo spazio ideale, dovresti lasciare una parte da ogni lato che simbolizzi tutto cio' che non stai vivendo nella tela, per esempio il passato, che idealmente è dimostrato che l'uomo colloca alla sua destra, come il futuro a sinistra…

 

Ore 17e46

Approfitto del fatto che oggi è una giornata di sole. Ho notato una cosa: quando c’è il sole mi rompono tutti un po’ meno le scatole, certo le macchine funzionano meglio, l’umore generale in giro è migliore, ma a me, non so perché, girano i coglioni come sempre.

Prima che si accorgano che sono momentaneamente inattivo, riprendo la stesura del mio ‘documento segreto’, da dove ero rimasto. Riprendo Wanamaker e la sua proiezione del pensiero che così diventa solida realtà:

 

Le prime volte proietterai immagini semplici: una mela, per esempio. Ripeti con il medesimo modello l'esperienza, rendi sempre più reale la tua mela: colori, profondità, dettagli che possano rendere più nitida e concreta l'immagine. Concentrati su quella mela e cerca di allontanare i pensieri che di volta in volta si intromettono.

 

Per quanto io cerchi di concentrarmi la mia mente si ficca in decine di argomenti e contro-argomenti, correnti e contro-correnti, figure e contro-figure. Tutto, insomma e il suo relativo contrario, senza mezzi termini. Non li conosco più i mezzi termini, io, conosco bene, ripasso a ripetizione e mi ossessiono solamente sugli estremi.

Certo, è facile dirlo, ma concentrarsi è proprio quello che non riesco a fare.

Ma lui non considera nemmeno che un povero disgraziato non riesca a fare una semplicissima bischerata come questa, sebbene, poche pagine prima, abbia detto che per noi, manager d’assalto stressatissimi, la concentrazione sia cosa proibitiva.

Credo che lui supponga che se qualcuno sia arrivato a leggere fino a questo punto, abbia in precedenza seguito tutte le regole e relative applicazioni da lui riportate sul libro.

Invece no, ci ho provato, ma non è successo niente, forse non ho avuto costanza e ora non riesco a concentrarmi, esattamente come prima, o forse peggio, perché prima non me ne rendevo conto e stavo meglio.

 

 

Ore 23e32

Sono appena arrivato a casa, mia moglie dorme e i mei figli penso che dormano anche loro, sono anni che non vado più a vedere se ci sono, quando torno a casa.

Allora cerco di fare una meditazione, magari per addormentarmi meglio.

 

                                                                            MEDITAZIONE DINAMICA

 

Per ottenere un qualsiasi risultato occorre concentrarsi, non basta desiderare di raggiungere una cosa, ma si deve essere disposti a fare una serie di passi per rendere attuabile ciò che reputi importante per te.

Deve essere una cosa possibile e seria, un salto di qualità per la tua vita, è necessario che tu ti muova compatto verso il tuo obbiettivo, per questo hai bisogno di un buon sistema per superare gli ostacoli.

 

1a regola: desiderare la realizzazione

 

2a regola: credere che possa succedere, la mente deve lavorare cosciente di farlo per qualcosa di possibile, per renderlo probabile

 

3a regola: sperare attivamente (vedremo come, operando con la tela mentale)

 

4a regola: non puoi creare un problema, (per esempio fare qualcosa contro qualcuno per il tuo tornaconto personale) lavorando attraverso l'intelligenza superiore questo non funziona.

 

E questo discorda con la realtà quotidiana del mondo di oggi, la vita è una guerra che si combatte giorno per giorno, come si può non voler male a nessuno, in questo mondo aggressivo, che oltretutto è diventato un dannatissimo mercato globalizzato, quando tutto, là fuori, è simulazione o guerra vera e propria? La concorrenza vive sul principio di approfittare rapidamente e senza pietà delle disgrazie altrui, secondo Wanamaker, io, invece, mi dovrei mettere a fare il filosofo?

Mi massacrerebbero…

Comunque questo non è il tipo di meditazione del quale ho bisogno per addormentarmi, non riesco a trovare le cose che voglio, quando ne ho bisogno, nel libro di J.L.W, anche perché, quando ne ho bisogno, sono nervoso, e mentre sfoglio convulsamente le pagine, il mio pensiero se ne va altrove.

Questo è un procedimento che funziona in generale in questa maniera, per me, il segreto, secondo Wanamaker, è prevenire le cose, prima di provocare lo stato di nervosismo.

Non risolvere tutto all’ultimo momento, programmarsi, insomma. Agire quando è necessario e lasciare fare quando si può, semplicemente stare ad osservare. Come se fosse facile saperlo… quando si può e quando non si può…

                                                                                                                                                             

 

                                                                           SULLA TELA MENTALE

 

1a tappa: ricreare il fatto che ha sviluppato il problema, o la situazione che rende necessaria la tua azione

2a tappa: spingere soavemente questa scena fuori dalla tela dal lato destro (cioè nel passato). Ricreare sulla tela la scena che avverrà domani. se possibile visualizzare la causa in sviluppo fino al risultato, abbondare con i particolari

3a tappa: ritirare la scena portando anche questa nel passato, a destra, sostituendola subito dopo con quella che viene da sinistra, quindi dal futuro. Costruire questa scena sulla base del risultato sperato, vivila e assaporala come se fosse vera.

 

     Lo diventerà

 

Mandare affanculo James Lee Wanamaker sarebbe stata la mia prima reazione, ma il dubbio che lui abbia ragione, ed io sia un cretino, mi assale continuamente.

 

Giorno seguente ore 10e58

Ho parlato con lo psicologo Zè Mario, che lavora per me e altre ditte e che a proposito di cretini può sempre dire la sua.

Attaccando una caccolona grigio-verdastra a uno spigolo arrotondato del grande tavolo delle riunioni - che oltretutto è mio - mi ha detto che la ricetta per stare bene, al mondo, non ce l’ha nessuno… ma il mio sforzo per capire la verità non può farmi che bene.

Meno male, gli ho detto io, perché mi sentivo come una merdaccia puzzolente e, come se non bastasse, in costante stato di veglia dispersiva, detto Beta.

Lui ci ha riflettuto un attimo, si è infilato un dito in una delle due accoglienti narici, poi, mentre ne perlustrava senza fretta il contenuto, ha detto che fa parte della cura toccare il fondo del pozzo.

Dopo, quando glielo ho domandato, ha risposto con entusiasmo che il libro di Wanamaker è assai valido ed efficace, il che per me era la peggior cosa che poteva dire, poi mi ha chiesto se io capissi il significato dell’espressione da lui appena citata: toccare il fondo del pozzo.

Ho mandato affanculo lui, invece di Wanamaker, era più a portata di mano, è sul mio libro paga e quell’altro non so nemmeno dove diavolo si nasconda.

Il giorno seguente, però, in preda ad un raptus incontrollabile, ho comprato il secondo e ultimo libro di James Lee Wanamaker, quello che eleva il lettore una spanna sopra i comuni mortali, lo porta ad uno stato di contemplazione tibetana.

Per giustificare il mio gesto, ho pensato poi, di convincere me stesso, che così potrò - dal mio esagerato stato di veglia Beta - passare direttamente alla saggezza, saltando così lo stato di successo personale e finanziario, che ce l’ho già e penso di sapere, per esperienza diretta, come sia.

Così guadagno tempo.

Il tempo è denaro, checché ne dica Zè Mario, o almeno è più facile credere a questa semplice equazione, che a qualsiasi altra regola, il mondo è troppo dispersivo, bisogna pur credere a qualcosa, e che questo qualcosa sia solido e tangibile.

 

 

 

Paride (4 pagine)

 

 

Il mio amico è professore, quello che ha scritto questo raccontino, insegna italiano e vive a Cordova, bellissima zona di montagna Andina e Argentina.

 

 

 

 

 

 

STRANI I CONIGLI, MA ANCHE CHI LI GOVERNA

 

 

“Il sole è alto nel cielo eppure è freddo, l’aria è umida, da lontano si sentono motociclette da cross, sulla collina di fronte, il rumore va e viene, seguendo il girare delle folate di vento.

Una voce di megafono, che supera a stento il rumore da trattore del camioncino scassato, elenca un’interminabile quanto incomprensibile serie di detersivi e prodotti per la casa.

Paolo consuma la colazione già fuori dalla porta, gli piace andare a fare un giro in giardino, insieme ai cani, anche se è freddo, con la tazza del caffè bollente in mano e i biscotti in tasca, anche se poi quando se li mette in bocca, a volte, sono un po’ pelosi.

Quella miriade di nuvolette bianche, sullo sfondo di un cielo di un azzurro perfetto, hanno tanta bellezza addosso che a guardarle intensamente pare che puliscano i polmoni dallo schifo di tutte le sigarette fumate.

La visibilità è buona, il giorno prima ha piovuto e poi dopo il vento forte ha fatto la sua parte.

In venti minuti, attraverso strade piene di automezzi lanciati a tutta velocità tra un semaforo e l’altro, Paolo arriva in centro, poi altri venti minuti per trovare posto per la macchina.

Dalla campagna ai grattacieli, dai contadini alla psichiatria dell’ambulatorio del dottor Rui Castro Diniz, detto anche Rui CD, al ventesimo piano di un palazzo moderno, altissimo e stretto.

Il consultorio, composto di due stanze e due bagni, è diviso in: zona attesa, vano piccolo con divano e poltrona, una finestra con tenda scura, riviste, musica rilassante e zona terapia, uno spazio più grande e luminoso, tre poltrone e scrivania con sedia, cinque quadri belli ma freddi, con poca emozione.

Le due parti sono separate da una porta e una parete insonorizzate, tutto arredato con gusto e misura, varie piante in idrocoltura.”

“L’ambulatorio del dottor Rui CD era piccolo ma comodo, accogliente pur risultando anche un po’ freddino, molto ben illuminato.

Il distacco era dato anche dai colori pastello delle pareti, celestino-grigiochiaro-beige, dai mobili e dai soprammobili, dai quadri che combinavano, ma senza darlo a vedere troppo, di pittori diversi ma di simile ispirazione, insomma da una serie di cose che inducevano alla calma riflessione.

L’impressione che dava Rui CD era quella specie di maniera di vedere lucida, gentile, cerimoniosa ma assai poco emotiva: era forse quello il cosiddetto sguardo dell’entomologo?

Quegli insetti erano esseri umani, ma pur sempre inferiori e lo ammettevano da soli, con il semplice gesto di riconoscere di averne bisogno."

Per esempio Paolo Cenci (PC) ci andava una volta alla settimana, sempre allo stesso orario.

Prima di entrare si sentiva agitato, il suo nervosismo perdurava finché si trovava in sala d’aspetto, una volta dentro, poi, gli passava e si sentiva stranamente a suo agio, protetto.

Quando varcava la soglia della seconda stanza, quella insonorizzata, si poneva in un’automatica distanza dal mondo là fuori e dai suoi problemi, vedeva le stesse cose ma, d’improvviso, con trasparente chiarezza e gli facevano meno paura, certo meno soggezione.

A basso volume c’era musica di tipo internazionale, radio con rare voci di annunciatori, che dicevano - a blocchi di tre - quali erano i pezzi ascoltati in precedenza.

Prima di lui, di solito, c'era un uomo grande e grosso che aspettava nella saletta, quando lui entrava.

Il cuore è un muscolo che si deve imparare ad usare e si tenta tutta la vita di addomesticarlo, diceva il dottore, ma quello spesso è un ribelle, purtroppo.

Il ritmo della vita non sono i secondi scanditi dall’orologio, ma i battiti del nostro cuore, spiegava ad ogni buona occasione.

Quell’uomo grande e serio, nella saletta d’aspetto, non lo guardava mai negli occhi, appena si apriva la porta entrava coi suoi passi da elefante, il dottore lo faceva passare e richiudeva.

Per quei pochi secondi si sentiva che la musica là dentro era un’altra, poi più nessuna voce, nessun rumore.

Quella all’interno era musica per ambienti a basso volume, calda e fredda allo stesso tempo, rigorosamente strumentale, al massimo qualche specie di canto gregoriano moderno, più spesso ritmi soffici e soffusi, chitarra classica, musica che poteva invitare alla riflessione, ma anche al sonno, dipendendo dai farmaci.

Approssimativamente un minuto dopo, l’omone usciva con una ricetta in mano, la testa brizzolata del dottore faceva capolino sorridendo dalla porta, spuntava un braccio e una mano che lo invitavano ad entrare.

Paolo si accomodava su una comodissima poltrona delle tre identiche, i piedi su un cubo marroncino foderato di pelle, uguale in tutto ad altri due.

Il dottore cominciava con calma e gradevole tono di voce la sua sequenza di intelligenti stereotipi, progettati per far sentire a proprio agio la gente.

Tempo atmosferico, calcio, di nuovo tempo, cinema e aeromodellismo, nel caso di PC, l’hobby che avevano in comune era il consueto finale della prima fase.

Durava cinque minuti, più o meno, poi entrava delicatamente nel mondo del pensiero moderno, antico e più spesso anche intermedio.

Senza far domande, come se si stesse parlando del più o del meno, ma c’era sempre di mezzo qualche frase di Bergson, qualche volta di Kierkegaard, meno spesso di Kant, naturalmente senza mai citare gli autori.

Visto che in italiano era il più debole dei due, il dottor Rui CD voleva che fosse chiaro che era solo in quella materia e che accettava il suo ruolo d’inferiore solo per poco tempo, magari solo perché stava pagando e quell’altro era da lui invitato, in quel gioco delle parti, ad assumere un ruolo di superiore, anche se per meno di un’ora.

Allora PC si accorgeva che si poteva passare alla prossima fase, che però di solito veniva interrotta sul nascere dall’arrivo dell’altro professionista, omonimo ma assai più anziano, Rui Bentivoglio Sa, Rui BS.

Dopo i saluti di prassi, per circa una decina di minuti i due colleghi facevano finta che PC non ci fosse, parlavano di psicologia e di psichiatria, ma il professore non sapeva distinguerle.

Insomma di solito il più giovane faceva domande tecniche al più vecchio, che gli rispondeva e già che c’era lo prendeva anche un po’ in giro.

Spesso Rui CD aveva bisogno di cambiare orario, sul confine degli otto minuti spiegava perché si voleva, si poteva e si doveva farlo e anche se gli altri due non facevano obiezioni, lui rigirava più volte la sua spirale di motivi validi, da vari punti di vista, usando strutture di frasi differenti ma che coincidevano nel contenuto.

PC aveva notato che spesso i due professionisti guardavano l’orologio distrattamente, forse per abitudine: sia il finto-antico appeso sopra la scrivania, o quello da tavolo che era anche un accendisigari, sia il rispettivo da polso.

Poi iniziava la lezione d’italiano vera e propria, di solito conversazione, un testo di attualità oppure anche una roba meno recente, ma dentro c’era anche un po’ di grammatica, che però altre volte si faceva più compiutamente attraverso regole teoriche ed esercizi pratici.

Il più anziano indugiava sulle sue risposte facendo abilmente innervosire gli altri due, quando il professore lo incalzava la sua calma diventava anche maggiore.

PC non si seccava per la scarsa fretta del canuto, ma per l’impazienza del brizzolato, che era assai stressato, ma di solito lo dissimulava bene, solo in questo caso si vedeva che non riusciva assolutamente ad aspettare, perché di solito erano gli altri che dovevano aspettare lui e non c’era abituato.

Teneva sempre nascosti i gomiti, perché lì si poteva vedere la psoriasi.

Quando uscivano dalla lezione, spesso BS faceva finta di salutare un paziente immaginario in sala di aspetto e CD ci cascava sempre, accorrendo premurosamente ed untuosamente a vedere chi era e perché fosse lì.

Capitava che a volte i due colleghi omonimi ed amici si coalizzassero contro il professore, con il loro comportamento studiato e mellifluo gli facevano venire dei dubbi anche su cose di cui era sicuro.

Come quella volta del proverbio l’abito non fa il monaco, che in italiano lui si ricordava che giammai lo facesse, ma in portoghese, per quanto strano potesse sembrare, lo faceva e immancabilmente.

Quella volta riuscirono ad annodargli perbene la mente e poi, alla fin fine, il concetto in questione non cambiava affatto.

“Gente molto intelligente e simpatica, quella, mi sono fatto tante risate con loro, anche se spesso mi prendevano in giro, riuscivano sempre anche a sorprendermi e questa è una cosa rara.

D’accordo, non sempre positivamente, però.”

Le lezioni si susseguirono per mesi finché Paolo, alla fine, riuscì a separarli con la scusa che il loro dislivello di conoscenza dell’italiano era troppo, il che era anche vero, Rui CD sapeva molto di più di Rui BS, perché aveva cominciato assai prima a studiarlo.

Presi a piccole dosi erano migliori, quei due, certo ci voleva sempre una pazienza certosina, ma quella era la base del suo lavoro, più importante della stessa conoscenza della lingua o della didattica per insegnarla.

Gli allievi non si potevano scegliere, di regola era tutta gente piuttosto stressata, non erano casi affatto rari in una grande città, quelli che facevano italiano, ma che avrebbero avuto forse più bisogno di qualche altro tipo di materia e di professionisti.

Ironicamente gli capitavano spesso proprio quel tipo di professionisti che avrebbero avuto un estremo bisogno dello stesso tipo di professionisti, ma che sebbene fosse proprio una fondamentale regola di quella professione, non riuscivano ad accettarla e meno ancora a metterla in pratica.

Come può pretendere di essere credibile chi fa il contrario di quello che dice? In quale maniera potrebbe riuscire a insegnare agli altri a cercare di non ingannare sé stessi?

 

 

 

 

 

 

Omero 44

 

Eh sì, l’uomo quando era ancora ancora pelosissimo, ha dovuto iniziare a pensare alla svelta, perché la sua conformazione fisica era inferiore a quella degli altri animali. Era meno forte, meno resistente e meno specializzato in una serie di fasi essenziali di azioni che potessero garantire la sua sopravvivenza.

Sviluppò perciò la sua intelligenza, ultima risorsa, a quei tempi come oggi poco di moda, per poter ovviare alle altre mancanze.

Tornando a noi vedo che ci stiamo dando piuttosto da fare. Orbene, mi pare il momento giusto di tornare indietro e capire cosa è successo a Gualtiero, penso che sia un interrogativo dolente e attuale, perciò chiedo alle sorelle Soverato o a chi ne avesse notizia, che cosa e come, quando e dove.

Perché poi Gundel avrebbe smesso di essere da lui psicanalizzata? Mi scuso per il termine.

 

 

Ute 45

 

Mia sorella è stata paziente di Gualtiero, come lo conoscete voi, per lei invece era il dottor Geronimo Klinkenhammer. Dopo averlo visto al ristorante e averlo visto suonare e cantare così bene, Gundel era incerta se fosse veramente lui, anche perché i suoi capelli non erano bianchi, quando lei veniva da lui ricevuta ogni sabato mattina alla dieci, in Dieffenbach strasse al numero 12. Li aveva nerissimi e non sciolti sulle spalle, ma raccolti in un codino. E soprattutto non era cieco, ma ci vedeva bene e i suoi occhi mandavano moderate scintille e furtivi lampi.

In seguito è anche andata a controllare, ma il suo ambulatorio là dove era non c'è più. Perché lei a suo tempo ha smesso di essere sua paziente ve lo racconterà forse lei stessa, io non potrei.

Qualche annetto prima Siddartha Gautama, fondatore del Buddismo, di famiglia ricca e nobile rinunciò a tutto per capire, per diventare l’illuminato, il Buddha.

Nel 480 a.c. mentre il Buddha era già anziano e predicava le sue idee lungo il Gange, Confucio in Cina scriveva i suoi precetti e gli Ateniesi, sconfitti i Persiani a Maratona, coltivavano le arti e la democrazia.

Siddartha auspicava di annullare il proprio io, fino al raggiungere il Nirvana, stato di dissolvenza nel cosmo.

Il Buddha era contrario alla rigida struttura delle caste sociali.

Il Buddismo ebbe un grande salto di qualità dopo la morte di Siddartha, il re Asoka che governava varie regioni dell’India, che quando il Buddha era in vita, erano ancora divise, aderendo con grande convinzione alla nuova fede, le aprì le porte dell’India e poi per tutto l’Estremo Oriente.

 

 

 

Paride 46

 

La morte dovrebbe essere il contrario della vita, o magari no. Se uno sapesse quando deve morire, potrebbe organizzarsi meglio? Come quando si va dalla cartomante e poi ci si fa eccessivamente influenzare dalle sue previsioni.

Allora è meglio saperlo oppure no?

Personalmente preferisco di no, anche se mi dicessero che morirò esattamente fra cinquant’anni a partire da adesso. Sarebbero cinquant’anni troppo influenzati da questa previsione e poi che fregatura se non fosse nemmeno vero!

Il principio di Heisemberg dice che l’osservatore influenza inevitabilmente il risultato dell’esperimento. Il mondo senza di me non sarebbe certo lo stesso, almeno dal mio punto di vista.

Anzi, ho ragione di credere che non esisterebbe neppure.

La storia di Gualtiero la conosco per sentito dire, ma mi affascina, anche a livello filosofico. Se veramente lui era uno psicoterapeuta perché fingersi cieco? E poi perché cercare e riuscire a farsi amico Omero?

Sono entrato in questo gruppo proprio per via della filosofia, posso dire che me ne interesso da sempre, o perlomeno da quando ho capito che è un'arma, da puntare non contro gli altri, ma contro le ostilità del mondo, che sono di tanti tipi, per difendere noi stessi, eventualmente anche per attaccare.

La filosofia greca è nata in Turchia e precisamente a Mileto, continuata poi nel sud dell’Italia, nella colonia della Magna Grecia, ha messo piede in patria solo durante una terza fase.

 I primi pensieri generali sulla vita furono greci, anche se in Cina, Confucio appartenne alla stessa epoca e formulò teorie a partire dal senso pratico.

Si dice che il primo filosofo fu Talete a Mileto e il primo a coniare questo termine fu Pitagora a Siracusa.

I primi pensatori cercarono di razionalizzare i perché dell’esistenza, i punti fondamentali della vita, l’origine dei fenomeni della natura.

La mitologia politeistica greca vedeva gli dei come esseri superiori, ma non troppo, assai simili agli uomini, con le relative fissazioni e debolezze.

Il passaggio dal Mythos al Logos avvenne quindi a piccoli passi, cercando di abbandonare il mito e di seguire di più la logica, si tendeva progressivamente a sostituire la precedente universale visione cosmica mitologico-religiosa con la scienza, o qualcosa che tentava di assomigliarle sempre più.

Il sorgere del sole, lo sgorgare di una sorgente, la notte, le stelle, il sorgere della luna, la tempesta, le nuvole, la pioggia erano fenomeni che l’uomo non riusciva a spiegarsi, i suoi miti, che talvolta diventarono religioni.

Non molto più tardi, verso il 650 a.c. si iniziò a metterli in dubbio attraverso la filosofia.

Democrito fu l’inventore dell’atomo,  come lui i Presocratici si preoccuparono di spiegare i fenomeni della natura, evitando di farsi trasportare del sensazionalismo dei miti usati fino a quel momento.

Socrate e Platone cercarono di studiare e definire il comportamento umano.

Aristotele, a partire da idee e teorie anche altrui, cercò di dare le direttive pratiche ed esemplari per il futuro, la saggezza per la ricerca della felicità

I presocratici furono i fondatori della fisica, Socrate e Platone dell’etica e Aristotele della logica.

Gli Ellenisti in seguito, commentarono e fusero le teorie precedenti con la pratica del mischiarsi delle razze e delle culture dell’epoca e si spinsero da Alessandria d’Egitto fino all’India atraverso le conquiste di Alessandro Magno di cui Aristotele fu maestro.

 

 

Ute 47

 

La grande fregatura per gli esseri umani è il seminascosto ma costante pensiero della morte, di tempo noi qua ne abbiamo anche troppo, ma se pensiamo che è una cosa che un giorno finirà, allora pare che ci manchi da subito.

Non credo di essere una di quelle che pensano spesso alla morte come un qualcosa in un certo senso sgradevole. Se però considerassi la mia nascita una delle cose migliori che io abbia mai intrapreso, ecco che la fine dell’esistenza potrebbe provocarmi un qualche disappunto.

Non penso di conoscere la morte, come non abbastanza la vita, la prima però è solo un momento, l’altra invece ha una durata, perciò è forse preferibile, in quanto maggiormente interattiva.

A noi umani il pensiero della fine della vita ci accompagna e c’incuriosisce, se non sempre, almeno spesso, dalla nascita alla morte. Uno strano processo per cui una persona prima c’è e dopo non c’è più. È forse una magia?

La magia crea qualcosa dove in precedenza non c’era, o fa sparire una cosa nel niente, ma è solo un trucco. La filosofia, invece fa capire che quel qualcosa che noi credevamo inesistente invece esiste, o quello che credevamo esistere - al contrario -  non c’è. Insomma la filosofia è il contrario della magia, o qualcosa del genere.

 

 

Luiz 48

 

Uomo di famiglia aristocratica, ma di un ramo povero, nato in una provincia lontana nel 551 a.c., Confucio diventò professore a tempo pieno.

Ben presto, arrivò alla conclusione pratica che una vita terrena ben vissuta, era più importante di qualsiasi vita da raggiungersi dopo la morte.

Confucio credeva che i nobili dovessero governare in maniera saggia e umana.

Come la classe dominante Greca, nella stessa epoca, credeva più nella gerarchia che nell’uguaglianza.

Predicava cortesia, lealtà, umiltà e delicatezza; esaltava la saggezza degli anziani che avevano molto da insegnare ai giovani.

Forse l'intento di questo gruppo potrebbe essere mostrare il bello e il brutto del vivere ai nostri tempi in una società moderna, dove la gente è sempre più problematica, non ci si può fidare di nessuno e siamo sempre a parlare del passato, come se l'ieri fosse meglio di oggi, ma è l'oggi che stiamo vivendo e cerchiamo quindi di essere pragmatici!

 

 

Omero 49

 

Bravo Luiz, hai ragione.

Per convincere Gundel a raccontarci, direi che è interessante per tutti, non c'è bisogno che ci dica nei dettagli le sedute con Geronimo o Gualtiero, ma a noi cosa c'importa sono le cose esterne, le sensazioni, le parole non dette. Siamo ansiosi di comprendere, insomma.

Ora siamo nove, sto mandando il documento completo a tutti, all'inizio eravamo solo due e poi piano piano si sono aggiunti gli altri, anche le lettere precedenti, chiamiamolo carteggio, così ci si capisce meglio.

 

 

Gundel 50

 

Bene anzi male, malissimo.

Ci mettiamo completamente nelle mani di questi professionisti del ramo perché ne abbiamo estremo bisogno, lo facciamo con la massima fiducia, sennò non lo faremmo, ma non sempre questi sono dei terapeuti competenti o anche solamente seri, diciamo che anche a livello di persone non sono tanto meritevoli di fiducia.

Geronimo pareva molto intelligente e serio, autoironico e gentile, mi avevano mandato da lui degli amici, gente che conoscevo, ma fidarsi degli altri è sempre un salto nel buio, già è tanto se possiamo fidarci di noi stessi.

Geronimo era ed è un pazzo, in buona sostanza; D'accordo, lo siamo tutti un po', ma lui sembrerebbe di più, non solo secondo me. Il fatto stesso che ogni tanto scappi e si nasconda da qualche altra parte significa che ci sono grossi problemi.

Una mia amica di Hannover mi ha detto che ha indirettamente saputo da una sua amica, cioè dal rispettivo marito, che viveva ed esercitava lì, qualche tempo fa, ma che cieco lo è diventato veramente. Dicono addirittura che sia stato arrestato e che sia fuggito dalla prigione, che in un confronto a fuoco con la polizia sia stato ferito alla testa e dopo, di conseguenza è diventato strabico e cieco. Per cosa sia stato arrestato però non me lo ha saputo dire.

Pare che addirittura non abbia nessuna figlia. Ma Omero, non l'hai vista anche te al ristorante?

 

 

Omero 51

 

La donna che è venuta più volte con Gualtiero al Pellegrino, che lui chiamava Clara, allora non era sua figlia, in effetti il loro comportamento sembrava più di una coppia e lei era un po' troppo bella, non gli assomigliava per niente.

 

 

Jens 52

 

Chissà la storia che c'è dietro a questa serie di piccole parti che noi veniamo a conoscere e neanche tanto precisamente.

Bugia e verità, mischiate e confuse, da chi ne ha interesse ma anche condotte dal caso, sono parte integrante del flusso inarrestabile di un'esistenza sempre incerta e piena di alti e bassi, quando è tutto tranquillo c'è da preoccuparsi, come fanno gli italiani che quando stanno bene pensano a prima che stavano male e a dopo che saranno immancabilmente di nuovo nei guai.

La cosa giusta sarebbe una via di mezzo: sì, pensare al passato e al futuro, ma cercando di godersi il presente, ma troppe cose ci distraggono dallo stare bene, proiezioni e ragionamenti forzati da un'esperienza passata, qualche volta mal interpretata e a volte neanche nostra.

Mi piacerebbe essere un bugiardo, sono troppo fedele e ligio alla verità, a quella realtà che spesso è scomoda, a come poi  sono io in relazione agli altri. Per questo quando mi capita a tiro un grande bugiardo ne sono affascinato.

Va bene, dipende dalle occasioni, a volte i bugiardi cronici mi irritano, forse perché mi prendono di sorpresa, oppure quando mi trovo in un campo antagonistico, mio malgrado, se sono obbligato in qualche modo a competerci, in una determinata occasione, comunque raramente.

Non si può sempre dire la verità, siamo d'accordo ma mentire in maniera automatica, senza nessuno bisogno di farlo, come se fosse parlare o respirare, è un fenomeno piuttosto interessante nelle persone, gli animali mi garbano perché sono molto meno falsi.

Poi ci sono i casi gravi, come quello di questo Gualtiero o Geronimo, che talvolta sfociano proprio anche in casi di polizia. A quanto ho capito però dovrebbe essere uno psicopatico piuttosto atipico.

 

 

Paride 53

Forse la verità su Gualtiero fra qualche anno la verremo a sapere, nel frattempo mi piacerebbe parlare della filosofia spiccia del ristorantino tipico, cosa sempre più rara a trovarsi, mi dicono anche nella stessa Italia.

Per esempio oltre al mangiare, che è la cosa più importante, definire l'arredamento, la decorazione, le divise dei camerieri, il tipo di comportamento dello staff sono fondamentali.

In Argentina ci sono ancora, specie a Buenos Aires, o dove la cultura italiana si fa sentire di più, ma il mondo globalizzato e le crisi finanziarie li stanno decimando.

Allora io preferirei il ristorantino piccolo, anche a gestione familiare, pochi tavoli e magari un cameriere solo o due, senza alcuna divisa, vestiti normalmente. L'arredamento semplice, mobili antichi, qualche quadro ma non troppi, paesaggi marinari o nature morte, l'importante che siano sobri e di classe, anche naif, meglio se non fatti dal figlio del proprietario.

Lo stile da imbonitore del padrone o del capo-sala non è indispensabile, io preferisco un personale che si faccia i fatti suoi ma che non ci sia bisogno di sgolarsi troppo quando se ne ha bisogno. Le ruffianate dei saluti eccessivamente affettuosi e delle smancerie di repertorio pure si potrebbero eliminare.

A questo proposito ho visto un film con Nino Manfredi in cui in camerieri di un ristorante tipico a Londra ogni tanto si mettevano a cantare in sala, con in mano decine di piatti di spaghetti alla pomarola, il ritornello di una canzone forse anche napoletana. Può essere divertente e piacevole, senza esagerare, ma va saputo fare e magari senza diventare ridicolo.

 

 

Omero 54

 

Caro Paride, all'inizio di questa serie di interventi, quando non c'eri ancora, ho trattato l'argomento che hai rilanciato oggi, te lo mando privatamente, vedrai che il mio ristorante a Berlino ti piacerebbe, perché ricalca alcuni dei tuoi suggerimenti, per te è un po' fuori mano, ma se capiti qua ti invito io a mangiare da me.

Penso spesso a cosa porti una persona, o una famiglia, o un gruppo di amici ad andare al ristorante, io per esempio ci vado raramente, il mio mi assorbe anche troppo i pensieri e se andassi in un altro ristorante non mi rilasserei proprio. Penso invece che la gente ci vada per stare bene, per godersi la vita o meglio uno dei piaceri più a disposizione e facilmente ripetibili, basterebbe aver soldi e buona compagnia.

Non conosco tanti altri ristoratori, a dir la verità, ma ho anche sentito raccontare che alcuni nei giorni liberi vanno al ristorante e se lo fanno credo che sia perché gli piace, o forse perché non sanno farne a meno, o anche per documentarsi e imparare qualcosa da copiare a loro volta, non lo so.

 

 

 

Luiz 55

 

Non sono un grande frequentatore di ristoranti, ma ogni tanto ci vado. Assai difficilmente rischio per andare in uno che non conosco e non mi fido di chi me ne consiglia qualcuno, i gusti della gente sono molto vari e differenti. Vado dove so cosa aspettarmi, come sono i camerieri e il personale in generale, piuttosto alla mano e senza divisa, anche il cibo genuino ma senza eccessive raffinatezze.

Rifuggo per timidezza i grandi gruppi di persone, anche le cene di famiglia mi mettono soggezione, mi metto da parte e mi stanco solo a seguire i vari dialoghi attorno, parlo solo se mi chiedono qualcosa e mangio di più per nervosismo.

Chi frequenta molto i ristoranti è per il piacere di fare bisboccia e lo capisco anche se a me onestamente mi riesce poco o niente. D'altra parte rilassarsi poi è una cosa che alla gente riesce poco e lo impedisce anche agli altri, quelli a cui piacerebbe farlo.

Quelli poi che ci vanno con la famiglia e i bimbi piccoli non riesco a capire chi glielo fa fare, di mettersi in certe confusioni, ma tutti i gusti sono gusti, disse quello che succhiava un chiodo.

 

 

Ute 56

 

Da fonte anonima mi arriva una testimonianza interessante dal marito di un'amica della mia amica di Hannover, su Geronimo Klinkenhammer.

"Il suo studio era arredato in quella maniera in cui ci si aspetta che dovrebbe essere lo studio di un uomo colto e saggio, pieno di libri antichi e moderni, scaffali che sostituivano o quasi le pareti, pochi e piccoli quadri e i dipinti erano idilliaci paesaggi, che i libri attorno li strozzavano quasi, non c'era più spazio.

Il dottore pallido e barbuto, con i lunghi capelli nerissimi e raccolti in un codino, aveva gli occhi storti, che non si sapeva mai da che parte guardavano. Era sempre allegro e parlava molto, a differenza dei suoi colleghi, principalmente sulla teoria del godere dei piccoli particolari della vita, sull'importanza della natura e sulla qualità di una buona compagnia umana.

Non si poteva mai contraddire o mettere solo in dubbio il suo punto di vista che si arrabbiava, i muscoli della faccia impassibili ma gli occhi mandavano fiamme, ti massacrava sotto montagne di stereotipi sull'esistenza e il comportamento umano che in teoria erano anche giusti, ma non parevano proprio essere farina del suo sacco, secondo me presi dai libri o sentiti dire dai filosofi e pure questo non era certo un comportamento comune tra gli psicologi, che perlomeno in genere simulavano e dissimulavano meglio di lui.

Quando se ne è andato è stato d'improvviso e senza  alcun malcelato preavviso, avevo appuntamento una volta alla settimana, il mercoledì mattina alle dieci, sono andato là e lui non  c'era più, la targhetta dorata sulla porta era scomparsa.

Per strada lo avevo incontrato tante volte e non mi aveva mai salutato, sembrava che non mi avesse visto proprio.

Dicevano che era quasi cieco e poi anche che lo avevano arrestato, ma erano solo voci, o perlomeno non ne ho mai avuto alcuna conferma."

 

 

Albertina 57

 

Sembra un film quello che ci raccontate: lo psicologo cieco che suona il piano al ristorante, arrestato poi non si sa per cosa, una cosa è certa, che gli piaceva far bisboccia anche a lui.

O forse fingeva?

Era toscano da quanto ho capito, o di famiglia mista, come spesso accade, uomo colto, simpatico, musicista e filosofo, complicato comunque, per fare tutto questo, anche se fosse solo vero in parte.

A livello di comportamento umano magari è indicativo, il cervello è una roba assai complessa, nella testa non ci capisce niente nessuno, dicono quelli che vogliono frodare l'assicurazione per essere rimborsati del loro preteso e grave disagio.

La testa è chiusa come una scatola nera, ma dopo la morte poi non si apre lo stesso, inoltre si tratta anche di cuore e corpo intorno, che un certo Montaigne diceva che ogni organo ha un suo progetto differente e discordante dagli altri.

Come avrete capito sto consultando dei testi filosofici, come raramente ho fatto nella mia vita,  certo sono interessanti ma faticosi, ne capisco la metà e a volte quello che capisco mi pare di averlo già saputo, ma forse non lo comunicavo tanto bene a me stessa.

Il ristorantino tipico è una cosa gradevole anche per me, sempre più raramente ne trovo in giro, sulla divisa dei camerieri discordo, almeno si possono distinguere dagli altri. A Viareggio ce ne sono ancora, ci si mangia il pesce e non si spende dei patrimoni, ma essendo una città turistica anche qui diventano sempre più rari, pur essendo il nostro un turismo per le famiglie, fondamentalmente.

 

 

Ute 58

 

Il bugiardo, (anche se a volte non immagina nemmeno di esserlo,) è sempre più a suo agio nel mondo moderno a cominciare dalle fake news, dalla TV ai giornali, dalle piattaforme sociali d'internet e dalla politica, sembra che la verità sia sempre meno di moda e tutte le mode psicopatiche o bipolari invece sempre più in voga, a partire dal fatto - oggigiorno totalmente degenerato - che l'apparenza è sempre più importante del contenuto.

Geronimo-Gualtiero deve aver una storia personale per niente facile, ma non si deve per questo giustificarlo, direi. Credo che il desiderio di Jens di essere un po' più bugiardo, meno autentico e legato alla realtà, debba essere considerato uno scherzo, interpretato magari come un'ironica esagerazione, per contrappasso.

Personalmente più vedo falsità e ipocrisia intorno a me e più sono spronata a essere sincera e diretta, credo che una volta la gente fosse più spontanea, nel bene e nel male, non solo in Germania, ma rispetto ad altri paesi, non solo europei, qui mi pare che siamo tra le prime posizioni in classifica.

 

 

Gundel 59

 

Da Omero, al Pellegrino ci si diverte parlando in italiano e bevendo e mangiando cose tipiche della Toscana e non solo, ma sempre peninsulari.

Confesso che mi sono sentita in un certo senso tradita, forse anche in maniera infantile e inconscia, quando ho visto che Gualtiero-Geronimo era amico di Omero, ma è durato poco, poi lui è sparito e ho inteso anche che per il nostro ristoratore preferito era cosa piacevole, come può essere un falso che imita un certo gioviale tipo di persona, anche piuttosto perfettamente, ma non lo è.

 

 

Omero 60

 

Infatti, mi sono anche divertito assai insieme a Gualtiero, ma c'era qualcosa che non mi quadrava, forse perché era cieco, amici e conoscenti non vedenti non ne ho avuti altri. Comunque quegli occhi storti seminascosti da occhiali scuri mi mettevano soggezione. Sono portato a dare automaticamente ragione a chi ha un carattere forte e non vuole essere contraddetto, con lui mi sono trovato alcune volte a essere di parere contrario, ma ho ceduto subito, lo faccio per abitudine, non mi piace discutere inutilmente.

Per suonare lui suonava bene assai, se poi non ci vedeva era ancora più difficile, cantava con una bella voce senza microfono e alla gente piaceva. Oltretutto diceva che sapeva suonare anche tanti altri strumenti. Si direbbe che al piano cambiava anche carattere, diventava più accomodante ed eseguiva senza pensarci tanto con passione delle canzoni che magari non gli piacevano, ma sembrava che si divertisse anche di più a fare quelle sceme. Forse gli pareva di prendere in giro tutti, mi è pure capitato di pensare.

Non credo che fingesse di essere cieco, perlomeno se faceva finta lo faceva assai bene, io ci sono cascato in pieno.

 

 

Albertina 61

 

Fondamentale interrogativo, magari meglio due: era veramente cieco? E se sì, allora quando lo è diventato?

Il ristorantino tipico per me è come l'araba fenice, dipende da interpretazioni e gusti, io per esempio preferisco quello ruspante, che fa i pranzi di lavoro e che ha pochi piatti ma tosti e genuini, a chilometro zero di preferenza, neanche troppo raffinati, anzi piuttosto rozzi, ma autentici.

 

 

Chiara 62

 

  Simpatiche quelle non sono mai, ma ho notato che un'antipaticissima fake new viene usata per le parole osteria, trattoria, spuntini e altre che una volta erano garanzie di genuinità e prezzi bassi. Ora usano questi nomi e sono cari, anonimi e asettici come quelli che recano nome ristorante. Intanto l'espressione Dove si fermano i camionisti non garantisce più niente. Ho trovato a proposito della cucina di una volta un articolo interessante:

 

Parto da un luogo, meglio, da una osteria che non c’è più. Si trovava dalle parti di Santa Caterina, via di Crollalanza. Era l’osteria di Luciano (Ferranti) «che per gli amici faceva anche da mangiare». Più in là, in piazza Dante c’era ed esiste ancora l’osteria-trattoria di Orsolina, «nome che rimane nell’insegna, anche se, dopo la signora Maria, è ora condotta da altri cuochi». Risalendo ancora più indietro nel tempo, gli autori ricordano la trattoria Dante (Ferracuti) situata poco dopo superato l’arco della Biblioteca; le Tre Porte invece aveva sede in via Paccarone. Nella Cantina di Chiappì, vicina a piazza del Popolo, si poteva gustare la trippa. «Una magia» per gli scrittori. Salendo salendo, l’hotel-ristorante La Casina delle Rose, sul colle del Girfalco, attirava bella gente.

E Nasó? «Fermano, classe 1901, Peppe Spagnoli – così è presentato nel libro a lui dedicato – era stato cameriere a Roma, al Ristorante Valiani… A Fermo lavora all’Albergo Vittoria poi alla Casina delle Rose». Non manca una lunga parentesi di gestione del Caffè Roma, sulla via omonima, che era anche sala da ballo e ristorante per pranzi di cerimonie come il matrimonio «di Adriana e Guido Gennaro, habitué e amico del cuoco da cui ha mutuato la passione dedicandosi oggi all’Accademia dello Stoccafisso alla Fermana». Lo stoccafisso resta uno dei piatti forti non a caso era ribattezzato lo stoccafisso alla Nasó. E la “Fermanella”, locale ancora oggi esistente lungo le Mura di via Crollalanza, era il tempio della gastronomia nasoniana. Altra pietanza importante risultava il “Carrello del bollito misto” di cui, si legge nel libro, «era necessaria la prenotazione, tante erano le richieste nei giorni in cui veniva proposto. Peppe non procedeva alla sua programmazione se non aveva in casa tutte le carni necessarie per la buona riuscita del piatto». Questione di gusto, di stile, di passione. Le Guide dell’Espresso recensirono locale e piatti a partire dal 1981 sino all’89, eccetto il 1984.

Un buon cuoco deve avere una buona brigata. Così, gli autori ricordano anche gli aiutanti di Nasò: Adele Santarelli, Lidia Santini, Luciana Paletti.

La pubblicazione riporta alcune delle ricette tipiche di Nasó: dalla Fermanella ai Cannelloni, dal Pollo alla cacciatora alla Salsa di cipolle, dalle Costolette di agnello all’Ossobuco, dalle Pappardelle tonno e alici al Sugo all’amatriciana. E, ovviamente, al pezzo forte: lo Stoccafisso. Quello stesso che il prof. Pio Natale, con altri primari medici, direttori di banca e personaggi fermani in vista, celebrava ogni venerdì alla Casina delle Rose. Ricordarlo non fa male. Fa male vedere la Casina sprangata e decadente.

Adolfo Leoni, Il Resto del Carlino, Venerdì 11 settembre 2020

 

 

Jens 63

 

In un certo periodo della mia vita ho pensato quasi di essere un mezzo filosofo, ma è durato poco, troppe cose mi disturbavano e le mie imprecazioni, talvolta perfino bestemmie, crescevano e si moltiplicavano.

Purtroppo il nuovo avanza anche se non l'ho invitato io, ma tutti gli altri pare di sì, cambiare è importante e fondamentale, è cosa buona e giusta, parola del Signore, anche e soprattutto quando si cambia in peggio.

Il nuovo quando avanza non ha pietà per noi vetusti e le nostre tradizioni ormai sono lontane, remote nel tempo che fu. Le turbolenze di spazio e tempo ci sono sempre state, a volte le accelerazioni sono maggiori, altre volte minori, o a intermittenza, più spesso ancora.

Per esempio alla mensa universitaria si mangia piuttosto male, c'è un rumore assordante e continuo, ma si spende poco e si può caricare il laptop mentre si spilucca e si guardano le notizie distrattamente, oppure si legge un ebook contemplativo e sognante, ma non è facile.

Facciamo un salto avanti, siamo abituati a farlo, anche se non vogliamo, spesso lo dobbiamo fare perché da dietro spingono. Chi ce l'ha suona anche ripetutamente il clacson.

Se volete farmi infuriare portatemi in uno di quei ristoranti dove le porzioni sono microscopiche, i titoli delle pietanze più consistenti delle pietanze stesse, la decorazione conta più del sapore e i camerieri allenati a essere persone completamente asettiche.

Io sono per le cose tradizionali, a cominciare dalla cucina.

Un cosciotto di brontosauro arrostito come si deve, con il debito contorno di germogli di felci di bosco, è diventato purtroppo difficile da trovare. I topi e i roditori in genere, pur talvolta ben cucinati, hanno sostituito le cose tradizionali di una volta. I volatili, per quanto parenti dei vecchi mastodonti, non hanno le stesse caratteristiche organolettiche, le salse cercano di cammuffarlo, ma invano direi, almeno per noi antichi bongustai.

Il ristorantino megalitico, con i tavoli di pietra bianca dalla caratteristica forma di Dolmen in miniatura, ormai pressoché scomparso dalla scena, rimane come un bel ricordo del passato.

Va bene ho esagerato, ma tutte queste nuove invenzioni nella gastronomia non fanno che peggiorare, come se la novità fosse sempre più importante della bontà, ma disgraziatamente per loro e indirettamente anche per noi, non è così.

Nel cartaceo trovare il vero inizio del libro è più facile, ma con gli ebooks, nei vari sistemi Mobi o Epub, per citare due tipi comuni, è più noioso e complicato andare avanti, saltare e cercare l'agognata parte che ci piace, sempre ammesso che poi ci piaccia. Il che, anche se la critica ne dice bene assai e ha un successo enorme di pubblico, non è affatto scontato.

Non so se voi leggete libri elettronici, confesso che io lo faccio, anche se mio malgrado, a dir la verità. Forse perché quelli di carta costano e gli altri sono gratis. Poi il cartaceo occupa spazio, gli ebooks invece no.

Chi come me lo facesse, forse sarebbe ugualmente arrivato a odiare prefazioni e introduzioni varie, che un libro a volte comincia dalla metà, con Calvino mi è capitato anche oltre.

Se uno mi parla per ore di un romanzo, quello poi non mi piace più, mi ha stancato prima di cominciare. Per vedere se mi garba un libro bastano poche righe, non centinaia di pagine, con adulazioni e interpretazioni completamente ridondanti. Se uno ce l'ha in mano il libro, o pur dentro un computer portatile, è perché se lo vuole leggere e non stare a farci un dibattito. Dopo averlo letto dite quello che volete, suggerisco io e se mi è piaciuto posso perfino leggerlo, ma mettete tutti questi malloppi in fondo, per favore.

 

 

Omero 64

 

Chi non conoscesse Jens penserebbe invece che lo è, una specie di filosofo sui generis, ma non lo è in maniera continua, cioè diventa improvvisamente violento e si sfoga con gli oggetti, il suo turpiloquio in quei momenti è piuttosto estremo, meglio allontanarsi e aspettare che si calmi.

Normalmente la sua calma è tanta che irrita gli altri, non tutti, personalmente a me rilassa e mi piace parlare con lui.

 

 

 

Chiara (11 pagine)

 

Questo lo ha scritto mio marito ovviamente, io mi sono limitata a correggere alcune incongruenze, di cui lui mi è rimasto pieno di gratitudine, ma è ovvio che io da sola non sono capace, non ci ho mai nemmeno provato, insomma non scrivo niente.

Io sono la parte razionale e amministrativa della famiglia e lui quella artistica e spendacciona, tanto per dire.

Dario non è uno psicologo né niente del genere, ma quello è un tipo di persona che lo incuriosisce. Le terapie a base di psicanalisi sono situazioni che lo fanno viaggiare nello spazio e nel tempo.

Non credo che vi abbia mai partecipato, comunque. Per quel che ne so, neanche ha mai avuto amici o conoscenti del ramo.

 

IL SIGNORE IN QUESTIONE

 

Primavera.

Piccola via tranquilla del centro di Brescia.

I due signori seduti al tavolo fuori dal bar si divertono a cercare di capire che mestiere un eventuale essere umano possa fare, senza averlo mai visto prima.

Senza parlarci, solo guardando vivere una porzione di vita qualsiasi, come quella, lì al bar, magari ascoltando quello che dice, ma rigorosamente senza interagire.

Il più giovane dei due si chiama Guerra, grassoccio e piuttosto agitato, l’altro Falco, di orientale calma, coi capelli bianchi e un’aria a volte inespressiva.

Tra di loro ci sono più di dieci anni di differenza, ma sono amici e colleghi.

Quando siedono insieme al bar, come ora, anche se solo per mezz’ora, nella breve pausa della merenda, tra un boccone di tramezzino e una sorsata di cappuccino, incominciano automaticamente, non c’è nemmeno bisogno di dirlo.

“Questo è evidentemente un assicuratore. Sei d’accordo o no?” Dice Guerra. Falco lo guarda con tutta la sorpresa che la sua faccia gli permette, poi dice:

“No. Per niente. No. Io direi, piuttosto un medico, forse un otorinolaringoiatra.”

“Forse hai ragione, chi lo sa, ma non direi proprio un otorino, non lo so, magari… forse-forse, piuttosto un pediatra. Che mi dici?” Guerra finisce la frase e si spara in gola l’ultimo goccio di cappuccino ormai freddo.

“Mmmmm.” Falco, gli occhi verso il cielo, sta riflettendo profondamente, ma non troppo. Si sa che quando veramente s’impegna, invece, fa schioccare più volte la lingua.

Il signore in questione siede a un tavolo lì vicino e si guarda intorno, ordina qualcosa al cameriere.

I due fingono di non guardarlo. Sbirciano distrattamente e discretamente, mettono insieme indizi che formano poi le parti di due identikit.

Dettagli che sono in costante cambiamento, dal cervello alla bocca le parole si trasformano, i concetti di conseguenza.

“No, nooo. No. Guarda che mani che ha.” Sussurra Guerra con un piattino davanti alla bocca: “Questo è un cazzo di chirurgo, te lo dico io.”

“O un pianista”

“O magari tutti e due.” Dice serio Guerra. “Ma sì, pensa che un muratore che lavora a casa mia, ha delle belle dita lunghe, lisce, troppamente sensibili… ”

“Forse usa i guanti.”

Falco riesce a dire battute micidiali senza cambiare faccia, rimanendo completamente serio, Guerra ha la grande capacità di non capirle quasi mai, gli viene naturale, pensa sempre ad altre cose.

Eppure sono amici.

Guerra inventa le parole, specialmente gli avverbi, dice spesso ‘troppamente’ o ‘troppissimo’che non esistono nella lingua italiana, le sue battute, spesso pure assai frizzanti, sono ignorate sistematicamente da Falco.

Intanto il signore in questione succhia un liquido con la cannuccia, tra l’arancione e il giallastro, forse un succo di pesca, chi lo sa, di albicocca. Ogni tanto si guarda intorno per vedere se qualcuno arriva, armeggia col telefonino, guarda l’orologio.

“Un adultero che aspetta l’amante?” Chiede Guerra un po’ anche a Falco, ma soprattutto a se stesso.

L’espressione della faccia di Falco è totalmente priva di segnali di riconoscimento, forse non ha nemmeno la pretesa di essere un’espressione, chi lo sa, la sua faccia si è di nuovo dimenticata di essere una faccia?

“Mmmm, la sua non mi pare proprio un’ansia positiva, però potrebbe anche essere un incontro con un’amante che non sopporta più, insomma, che vuole in qualche modo lasciare, magari.”

“Può essere, ma allora, che minchia di mestiere fa?” L’ansia di Guerra è tangibile.

“Beh, questo non lo so ancora, più che un medico mi pare, alla luce di questi nuovi aspetti, qualcuno che deve vendere qualcosa, magari un rappresentante.”

“Già, hai ragione, vedi che ritorni sul mio discorso? Mi fa proprio piacere. Sì-sì, potrebbe anche essere un colloquio di lavoro, un appuntamento di affari, chi sta per arrivare dovrebbe essere allora il cliente e lui quello che vuole vendere il suo prodotto, o qualcosa del genere. No?”

“Ti faccio notare che tu avevi detto un assicuratore, non un rappresentante.”

“Il tipo di meccanica mentale è la stessa, non sottilizziamo.”

“Però sono due mestieri differenti.”

Il signore in questione continua i suoi gesti apparentemente rilassati, ma sotto-sotto nervosi, seminascosti da una flemma simulata che non sfugge certo ai due fini osservatori.

Nervosi sono quasi tutti, lo si sa, il mondo moderno è così, certo che una buona parte cerca di dissimulare, ma questo qui lo fa in una maniera strana, magari proprio perché, chi lo sa, forse-forse professionale.

Intanto arrivano altri clienti, in poco tempo i tavolini del bar sono tutti occupati e loro si danno da fare per non dimenticarsi nessuno.

Tanti, in qualche modo troppi, signori in questione, che loro analizzano e polemizzano, ora piuttosto diligentemente, efficacemente ma senza troppa ispirazione, da entomologi, senza emozionarsi, distrattamente, senza trovare in loro tanto interesse, non tanto quanto ne hanno trovato nel primo signore in questione.

Un muratore, una casalinga, un poliziotto, una guardia giurata, due infermieri, due segretarie e tre rappresentanti di medicinali sono scoperti in un batter d’occhio dalla coppia implacabile.

Dopo un po’ i due devono tornare al lavoro, di malavoglia, stiracchiano il tempo dell’orologio al massimo, ma chi deve arrivare, a parlare con il signore in questione, è troppo in ritardo.

Guerra dice che Brescia è ormai piena di gentaglia, a volte di origine ebraica, gente che non rispetta gli orari, ma la puntualità, invece, è una cosa ‘troppamente’ essenziale per gli affari.

Falco obbietta, con un sorrisino tagliente, che lui stesso, il Guerra, non è che sia proprio un esempio di puntualità, l’origine ebraica, poi, non c’ha niente a che fare.

Guerra ribatte che qualche impercettibile ritardo gli capita anche di farlo, lo ammette, ma solo sporadicamente e poi lui non è mica un commerciante ebreo...

Il giorno dopo, stessa ora stesso posto, i due aspettano il signore in questione, per quasi quarantacinque minuti.

Invano.

Tanti altri banalissimi signori in questione passano e siedono, per venire - nella maggior parte dei casi - scoperti attraverso i loro gesti, le poche parole udite, la maniera di fare.

Alcuni, i più facili, per via delle uniformi.

“Magari quello era di passaggio e non ritorna più.” Dice Falco con lo stuzzicadenti del tramezzino appena terminato all’angolo della bocca.

Guerra senza accorgersene ha orientato la seggiola nell’esatta direzione da cui il signore in questione era arrivato, il giorno prima.

“Strano a dirsi, ma mi ci sono già affezionato, ci credi? Anche se mi pare che sia ebreo.”

“Non ricominciare con gli ebrei, vedi ebrei da tutte le parti, lascia in pace gli ebrei, sono persone come tutte le altre, che cosa ti hanno fatto di male gli ebrei?”

“A me niente, non mi piacciono, normalmente, ma stranamente invece questo sì.”

“In che senso ti piace?”

“Beh, è misterioso, falso, sfuggente, perciò è ebreo, insomma il personaggio ideale per il nostro giochino. Ma se ce lo avessi attaccato ad una gamba me la taglierei.”

“Beh, non credo che ti si attaccherà mai ad una gamba, e poi sicuramente non era ebreo, ma era un personaggio misterioso. Mi piaceva.” Conclude Falco alzandosi.

“No, ‘che mi piaceva’, no: CI PIACE. Domani vedrai che quello viene e lo scopriamo per benino. Segnati queste mie parole. Dici di no?”

“Domani è sabato.”

L’indesiderato fine settimana arriva e i due amici, che hanno famiglia, si sentono al telefono, la domenica sera.

Tra le tante cose da dire, l’appuntamento per il giorno dopo, un quarto d’ora prima del solito e alcune nuove considerazioni sul signore in questione sono d’obbligo e accompagnate da grande e bambinesco entusiasmo, specialmente da parte di Guerra.

Lunedì.

Alle quattro meno un quarto i due sono già seduti e il signore in questione, stavolta, non si fa aspettare.

Si siede allo stesso tavolo dell’altra volta, i due anche occupano il loro solito.

Guerra scalpita, Falco finge di no.

Vestito con apparente ma studiata trascuratezza, si nota subito in lui una grande cura del particolare, accostamenti di colori, jeans o pantaloni sportivi, maglie di classe - magari di kashmir - sulla camicia fintamente stropicciata. Abbronzato, ma non di lampada, volto morbidamente rigido, occhio vispo, ma calmo, sguardo perennemente ‘oltre la siepe’.

Barbetta sale e pepe di un giorno perfettamente curata.

Occhiali da sole senza montatura, lenti ovali e ambrate, stanghette marroni. Sa benissimo ‘dove dorme il polpo’, ma preferisce non farlo sapere troppo in giro.

Il taglio dei capelli brizzolati, lunghi e scompigliati con distrazione studiata, scolpiti qua a e là, dove conta, con abili tocchi di gel, fa pensare al suo barbiere che ha studiato all’estero, ma conosce le mode nazionali, le tendenze attuali e anche quelle del passato che ogni tanto ritorna in voga.

Il solito minuscolo cellulare tra le mani, a chiazze mimetiche militari, dal quale riceve spesso chiamate, da persone differenti, si direbbe.

Stavolta ha anche uno zainetto, da cui estrae un pacchetto di sigarette ancora cellofanato, che però rimette lentamente dentro, un accendino, che rimane enigmaticamente sul tavolo e un libro.

Libretto violaceo, questo, di un centinaio di pagine, che lui prende in mano, rigira più volte tra le dita affusolate, come se lo vedesse per la prima volta e poi sfoglia distrattamente.

I due non riescono a vedere il titolo, anche se allungano il collo e si contorcono abbastanza.

Guerra passa all’azione, finge di dover andare in bagno e fa il giro largo, per dare un’occhiata al suggestivo paesaggio di vecchi muri rimessi a nuovo, insomma passa lì rasente.

Il tempo di fare un bisognino di dieci secondi e ritorna, siede, accosta la mano alla bocca per proteggere le parole che escono e sussurra quasi dentro l’orecchio proteso di Falco:

“Istruzioni per rendersi infelici di Paul Watzlawick! Lo conosci?”

“No.”

“Nemmeno io, ma sembra un nome ebreo e il titolo è tutto un programma.”

“Ancora con questi ebrei?”

“Il mondo è pieno di ebrei, solo che non si vedono, si cammuffano. Hanno paura, loro. Invece siamo noi che dovremmo avercela.”

“Sì, va bene, ammetto che sia un grande problema per il mondo, di conseguenza certamente anche per noi, ma che cosa deduci tu da questo titolo?”

“Una vasta gamma di cose.”

“Prova a dirmene solo una.”

“Mah, c’è l’imbarazzo della scelta: per esempio che il nostro uomo è un ebreo che si pone il tema della felicità nella vita...”

“E allora?”

“Allora è una persona ebrea di una certa profondità!”

“E con questo?”

“Che diamine, si possono già escludere alcune categorie...”

“Che sollievo! Lo sai quanti sono i tipi di lavoro in una città italiana grande come Brescia?”

“No, quanti?”

“Centinaia, proprio tutti inclusi: migliaia.”

“Bene, andiamo escludendo, noi, già che siamo gente pratica ed intelligente... direi magari per intere categorie, per guadagnare tempo, sì: beh, operaio non è, nemmeno muratore o poliziotto... non sono lavori da ebreo, potrebbe essere un agente segreto, ma più probabilmente è un libero professionista, abbronzato, curatissimo nei particolari, ma vuol far credere che è studiatamente trascurato, insomma: un falso non-metrosessuale ebreo.

Beh, un falso lo è anche in generale, diciamo, ma questo non ci aiuta troppissimo... comunque il libro in questione escluderebbe il rappresentante, secondo me; è risaputo, che chi pensa troppamente alla vendita, non è il tipo che riflette sul senso della vita o sulla felicità.

Si tirerebbe la zappa sui piedi ebrei.”

“Non è detto.”

“No, non è detto, ma è assai probabile.”

“Vuoi dire improbabile. Ma su questo hai ragione, te ne dò atto. A proposito, tu ci pensi a queste cose?”

“A cosa?Alla felicità?”

“Sì, alla felicità.”

“Io? No, che c’entra? Beh, qualche volta. E tu?”

“Raramente, ti dirò che una volta ci pensavo di più...”

“E poi che cosa è successo?”

“Mi sono sposato, la routine, sai, i problemi, i figli, il lavoro...”

“Non hai più tempo?”

“Infatti.”

“Troppamente vero! Nemmeno io.”

Il signore in questione, intanto  viene raggiunto da una signora fuori di questione, dal punto di vista dell’eleganza di un certo tipo, ma dai capelli ritti.

Si siede scompostamente al suo tavolo.

Giacca, maglia, pantaloni e cappello tutti in pelle nera. Lineamenti mascolini, trucco pesante, un po’ sbafato, occhi spiritati, rughe profonde centimetri.

Iniziano a parlare, lei strilla quasi.

Lui le parla con grande calma.

Lei si abbandona in una posa immobile dietro gli occhiali neri pescati convulsamente nella borsa, la faccia appoggiata ad un braccio puntellato sul tavolo, ora sembra una statua di cera, il suo pallore è sinistro.

I due scuotono la testa, sorridono seri, si guardano ripetutamente e scuotono ancora lentamente e graziosamente le rispettive cervici.

“Secondo te, anche le sue mutandine sono di pelle?” Suggerisce Guerra.

“E probabilmente nere.”

“Sono amanti?”

“C’è una specie di assurda complicità, direi. Certo che deve essere una roba perversa, come minimo... e magari pure peggio.”

“Sono d’accordo. Potremmo dire schifosamente intrigante?”

“Non lo so. Lei è più brutta e vecchia di lui, forse anche matta da legare, deve essere ricca.”

“È vero, hai ma-le-det-tis-si-ma-mente ragione, ci devono correre dei bei soldi. Si sa: gli ebrei pensano solo ai soldi.”

“Per favore smettila con gli ebrei. Lasciali in pace. Hanno avuto una storia travagliatissima. E poi non ne conosci nessuno e non puoi giudicarli. Io ho diversi amici e colleghi, persone degnissime. Il nostro uomo non è ebreo e anche se lo fosse, a noi non ce ne frega niente, quello che ci interessa è un’altra cosa. Il suo mestiere.”

“D’accordo, ma sono disposto a scommettere che quello è un ebreo. E poi non è vero che non ne conosco nessuno: non ho voluto approfondire nessuna amicizia, quando ho avuto occasione, ma solo perché me ne sono accorto in tempo. Guarda! Guarda come lei lo ignora sapientemente guardandolo negli occhi, con la bocca carnosa distorta dalla stanghetta all’angolo delle labbra... io stanotte non lo so se riuscirò a dormire.”

“Infatti.”

“Anche tu?”

“No, dico che infatti tu probabilmente non riuscirai a dormire...”

“Io no... e invece tu ci riuscirai?”

“Beh, sì, che me ne fotte a me?”

“Ah sì? Secondo me invece avrai le pallacce degli occhi spalancate fino all’alba e poi te ne andrai a portare il cane a fare un giro e tua moglie si preoccuperà in maniera pesante... pesantissima...”

“Sì, vabbè, ora scrivici un libro.”

Pausa piena di interrogativi ed esclamativi, misti, tutto intorno la giornata è nuvolosa, ha l’aria di diventare prossimamente piovosa.

“Istruzioni per rendersi infelici?” Riprende Guerra.

“Appunto: ‘Istruzioni per rendersi infelici’ di Paul Watzlawick.”

“Avevi detto che non lo conoscevi!”

“Ed effettivamente non lo conosco.”

“E allora?”

“Allora che? Ho solo buona memoria.”

Scendono le prime piccole gocce di pioggia.

“Uno scrittore  polacco-americano, eh? Magari un ebreo?” Suggerisce Guerra entrando nel bar.

“Sì. Certamente un po’ lacco, forse anche americano, ma rigorosamente non ebreo.” La battuta di Falco non viene raccolta.

“Questo lascialo decidere a me, che c’ho il sensore. Certo che è ebreo. Inoltre queste tre componenti danno luogo a una mistura pericolosa. Sono i peggiori, gli untori, fomentatori di turbolenze etniche, agitatori apparentemente sommessi di popoli.” Sussurra Guerra per non essere udito.

“Scusa ma in che senso?”

“In tutti i sensi.”

Il martedì seguente il signore in questione non si fa vivo.

Il mercoledì però c’è già quando i due arrivano, prima Guerra e poi a ruota Falco.

È da solo, ma ha un pacco voluminoso, dalla forma irregolare, che forse deve aver ritirato alla posta, lì vicina.

Guerra dice che là dentro c’è un arma, Falco obbietta che se è un’arma è un mortaio o un bazooka smontato, ma non esclude del tutto l’ipotesi di un kit per montare una mitragliatrice.

Si sentono assai colpevoli di aver perso dei minuti preziosi, dei risvolti forse determinanti ai fini delle indagini.

Mercoledì sera Falco va allo stadio a vedere la partita di Coppa Italia con i due figli di dieci e quindici anni.

Il Brescia, che è a metà classifica in serie B, è arrivato sorprendentemente ai quarti di finale, gioca con l’Inter.

Lo stadio è strapieno, in tribuna coperta Falco vede tra la gente un uomo che sembra proprio il signore in questione, insieme a una bellissima donna.

Fa in maniera di andare a sedercisi vicino.

Ascolta i suoi discorsi, ci parla anche, di calcio, ma non ce la fa a carpire quella unica nozione che gli interessa: che mestiere fa.

E poi, sarà la luce notturna, l’abbigliamento più pesante, la sua pressante curiosità in aumento, ma non riesce a capire se è veramente lui o no.

Alla fine si salutano in maniera evasiva, la donna lo pressa per andare via prima del tempo.

Sarebbe stato un vantaggio enorme su Guerra, avrebbe potuto giocare come il gatto col topo.

In più (o in meno) il Brescia ha perso due a uno.

La stessa notte Guerra fa un sogno strano.

Il signore in questione non è ebreo, non è neppure un uomo, ma una donna e lavora in un localino  equivoco, fa la ballerina.

Un travestito alla rovescia, o meglio una travestita, unico caso conosciuto nella storia.

Guerra si sveglia sudato, si va a fare una doccia, ma dopo non riesce più a dormire.

Il giorno dopo è giovedì.

Il signore in questione appare in ritardo di mezzora, ma i due non si sono mossi dal loro tavolo di osservazione.

Arriva dal lato opposto, li prende di sorpresa, è insieme ad una coppia, sembrano approssimativamente trentacinquenni, di cui lei parla troppo, lui non apre bocca.

Dopo una mezzora i due se ne vanno e lui rimane solo.

Finisce tranquillamente la sua birra e se ne va, ma Guerra lo segue di scatto.

Pochi metri dopo Falco gli telefona col cellulare e gli dice che non fa parte del gioco, che si sta evidentemente esagerando.

Guerra risponde che ormai il gioco ha irrimediabilmente sconfinato e poi il giorno dopo è di nuovo venerdì, bisogna sbrigarsi, lui non ha nessunissima voglia di passare ancora il fine-settimana sulle spine.

La sera Falco non resiste e telefona a Guerra, gli chiede cosa ha scoperto.

Guerra tergiversa, nicchia, fa il vago, evita l’argomento.

Falco all’inizio pensa che voglia fare il furbo, che gli voglia far pagare la sua indifferenza, la sua aria di superiorità.

Poi capisce che invece c’è sua moglie che lo sta ascoltando, ha sentito dei rumorini al ricevitore, Falco taglia corto, saluta e riattacca.

È venerdì.

Seduti al solito tavolo i due conversano animatamente, Guerra ha scoperto un possibile  appartamento del signore in questione, il quale, per giunta, non si è fatto vivo.

Falco è insolitamente nervoso, aggressivo.

Guerra ha dormito poco e male:

“Lo so troppamente bene che fino ad ora abbiamo fatto così, però ora le cose sono cambiate, ieri l’ho seguito fino alla qui vicina Piazzetta delle Rose, come tu sai, zona bresciana con la massima concentrazione di ebrei. Bene, ora noi dobbiamo andare a vedere se vive o lavora là, che ne dici?”

“Non mi piace per niente questa storia, lo sai, però... d’accordo, vengo con te, comunque io non entro, te lo dico qui e subito, dentro ci vai tu, io rimango fuori.”

“Tu fai quello che vuoi, io vado fino in fondo.”

Agiscono come agenti segreti, si guardano intorno continuamente, facendo finta che non guardano, in maniera imbranata.

Camminano velocemente, la respirazione è accellerata, il cuore che pompa emozione dentro il sangue.

Entrano e escono subito dal palazzo, poi va da solo Guerra e Falco rimane fuori a fare il palo, ovviamente senza nessuna utilità, con malcelata indifferenza.

Guerra torna dopo poco e ha cambiato faccia.

Si siedono su un muretto.

“Allora?”

“Te lo avevo detto che era ebreo.”

“Come hai fatto a sapere che è ebreo?”

“Facile! Si chiama Mardocheo, che è l’evidente italianizzazione di Mordecai!”

“Questo è ancora da dimostrare. E di cognome?”

“Bramante. Tipico cognome giudeo-italiano. Derivante da Abramo, di conseguenza: amante di Abramo, direi.”

“Brillante deduzione logica. Ci hai parlato?”

“No, ho visto il nome sulla targhetta dorata.”

“Ma allora che mestiere fa?”

“Non ti piacerà quando te lo dirò, ti avverto.”

“Dimmelo lo stesso.”

“Non hai capito a cosa alludo?”

“Se me lo dicessi, capirei.”

“Prova a indovinare.”

“Vuoi un cazzotto sul naso?”

“No, dai. Calmati. Il peggio è passato, o forse no, magari no, non lo so, comunque prova a indovinare, dai, ti aiuto io!”

“E va bene: è un medico?”

“Quasi, o almeno non solo.”

“È uno psichiatra?”

“Bravo. Sì, purtroppo è un collega e per giunta ebreo.”

“Non ci avevo pensato.”

“Strano che nessuno di noi, proprio noi due, non ci abbiamo pensato. Non credi? Questo ha sicuramente una valenza psicologica notevole ed indicativa che mi voglio studiare perbenino.

E poi, sai, gli psichiatri sono in aumento, ho letto da qualche parte, specialmente gli psichiatri ebrei. Questa è la dura realtà, che ci vuoi fare. Che me ne dici? ”

“Te ne dico che tu sei fuori di testa. Dai retta a me. Anzi, se fossi in te, già che siamo in zona, andrei da Mardocheo Bramante.

Non credo che ti farebbe male una bella terapia.

Se vuoi ti accompagno.”

La scena sfuma con i due che camminano affiancati sul marciapiede, Guerra ogni tanto si ferma e si sbraccia per mimare qualche scena, Falco lo guarda ogni volta incredulo, ma in maniera inespressiva.

 

 

Albertina (6 pagine)

Il fatto è veramente successo, tale mio amico è il veterinario in questione e mi ha raccontato la storia, io ci ho ricamato un po' su, ma neanche tanto.

 

QUASI UN ANIMALE

“Non capisco come fa ad aiutarci se parliamo solo io e Lei, tanto per cominciare. Perché mai ha voluto che lasciassi i miei due cani a casa?”

“Beh, questa è la prassi, il nostro primo approccio è un preliminare necessario, nel quale Lei mi dovrebbe dire come la pensa, sulla vita, la terapia e i Suoi animali.”

“Sssì...

Lo sa cosa diceva a proposito un mio arguto conoscente e Suo emerito collega?”

“No...”

“Il problema non sono gli animali, ma i loro padroni.”

“Io non la metterei in questi termini.”

“Ma è quello che pensa, e si vede.”

“Invece no... e poi che diavolo significherebbe?”

“Che la personalità degli animali è molto semplice e si capirebbe al volo, se non ci fosse quella dei loro padroni a complicarvi la vita, a voi e a loro.”

“Se Lei vuole fare le domande e le risposte, formulare sia i miei pensieri che i suoi, per me va anche bene, ma visto che la mia presenza diventa dispensabile, io vado a fare un giretto e torno dopo.”

“Molto spiritoso, ma non si sforzi di dire cose divertenti, non ce n’è bisogno.”

“...”

“Allora, se ho ben capito qui dobbiamo conversare, assai civilmente, oltre che sulle nostre reciproche personalità, anche sui dubbi e le riserve che abbiamo, sulla nostra stessa terapia che sta per cominciare. Dico bene?”

“Ecco, dobbiamo essere franchi e dire quello che pensiamo a riguardo, tutti e due.”

“Bene. Le dirò subito che io ho una certa esperienza, in questo tipo di analisi. Perciò ho un’idea che mi sono fatto, in anni di terapia, per me e le mie due care bestioline.”

“Sì...”

“Lo psicoterapeuta non ha contatti con i suoi pazienti, al di fuori della sua stanza, è cordiale con tutti se li incontra, può capitare, saluta e parla, dice frasi gentili e brillanti, ma di repertorio.

Perché il suo distacco professionale funziona bene se sente anche un po’ d’affetto, ma non troppo, se ha un contatto sensibile,  ma non stretto.

Lo psicoterapeuta è una persona manipolatrice, nella sua vita privata, perché ha la chiave della verità e la usa a suo vantaggio...”

“Che cosa c’entra tutto questo?”

“Sto parlando della mia esperienza. Credevo di avere degli alleati che ogni volta hanno tradito la mia fiducia, non solo la mia, ma anche quella di due povere piccole creature innocenti.

Non va bene? Non è quello che dovevo dire?

La disturba se Le parlo di queste cose?”

“Oltre il senso di disturbo, che senza dubbio avverto, direi in crescendo, c’è anche il fatto che credo Lei sia venuto qui per altri motivi.”

“Per esempio?”

“Andando per esclusione, certamente non per psicanalizzare me.”

“E se tutto questo aiutasse semplicemente la mia autostima? Di conseguenza quella dei miei due cani?”

“D’accordo, però pestare la mia autostima non le servirebbe che a vincere una competizione, alla quale io non ho intenzione di partecipare, perché diventerei un transfert negativo, a che cosa ci servirebbe?”

“Bravo! La sua argomentazione è degna di lode, mi ha convinto. Questo non significa che Lei mi convinca, né come persona né come professionista. Tutt’altro.”

“Vuole scavare nella mia vita, sezionare la mia personalità? Pensa che sarà una buona cosa?”

“Alt! Un momento: una buona cosa per chi?”

“Per Lei e i suoi cani.”

“Per me sì, quindi anche per loro, ma non so ancora se lo sarà per Lei.”

“Per l’amor di Dio! Non siete come una santissima trinità, perché avete tre personalità distinte e separate, tre ruoli diversi, nella vostra convivenza.

Io intendevo piuttosto chiederLe se per Lei potrà essere una buona cosa, partire così da lontano?”

“Certo, io devo avere una completa stima di Lei, per potermi poi fidare della sua terapia.”

“Va bene, ma sbrighiamoci, abbiamo meno di un’ora di tempo.”

“Ah, ora è Lei che ha fretta?”

“Non ho nessuna fretta.”

“Allora se questa nostra seduta sarà insufficiente, (e se lo sarà lo decideremo dopo, noi due insieme,) beh, mal di poco, la continueremo la prossima volta.”

“D’accordo, ma non dimentichiamoci che siamo qui per loro, i cani.”

“Questo è vero.”

“Mi vorrebbe dire perché, allora, Lei ha questi cani?”

“Beh, i cani normalmente sono una terapia a quattro zampe, sia per i vecchi, che per i malati di mente, che per le persone normali, o quasi, come me. Perfino per gli psicologi, mi hanno garantito, pensi un po’ che roba universale!”

“Perché ha detto: normalmente?”

“Ah sì, beh, c’era un mio amico che aveva un cane con solo tre zampe...”

“Come si chiamava?”

“Tripode.”

“Ma come? C’era nato, con tre zampe?”

“No, prima si chiamava Biancone, per via che era un pastore maremmano, poi sa, dopo l’incidente...”

“Bella questa storia. I cani sono una terapia con la coda e tutto, d’accordo, ma secondo Lei, anche parlare dei cani, è già una terapia?”

“Senza dubbio...”

“Proviamoci. Lei quanti cani ha?”

“Due. Lo sa benissimo. Abbiamo riempito il formulario insieme.”

“Come si chiamano?”

“Egisto e Pamela. Basta leggere lì sopra.”

“Nomi da persona.”

“Lo vede come è interessante? Lei ha già capito che io trasferisco su di loro l’affetto che non riesco a dare alle persone. In cambio loro mi danno tutto l’affetto che non io riesco a ricevere dalle persone!”

“Perfetto...”

“Infatti. Con questo non voglio dire che ho rinunciato a provarci con la gente, non Si creda, ma intanto recupero un po’ di carenza affettiva, faccio bene?”

“Magari sì.”

“Lei si lasci servire, mi fa troppo tangibilmente bene e lo vedo ogni giorno che passa.

Ma che ne sa Lei?”                                       

“Tutto e niente.”

“Ma veniamo piuttosto ai due protagonisti, prima di innervosirci: Egisto è un pastore tedesco, sta perdendo l’uso delle gambe posteriori, ha tredici anni, ma è ancora un compagno meraviglioso, anche se caca e piscia dovunque, ormai non si controlla più.”

“Tipico del cane lupo, poveraccio.”

“Infatti, purtroppo.”

“E a Lei sembra triste, per questa sua menomazione senile?”

“No, anzi, il bello è che il suo morale è alto come prima, dal punto di vista filosofico i cani ci battono dieci a zero, se lo lasci dire.”

“In che senso, scusi?”

“In tutti i sensi, loro badano al sodo e non si piangono addosso, Egisto è contento perché io gli do’ tutte le attenzioni e non mi arrabbio se sporca, pulisco volentieri, so che lui sarebbe disposto a dare la vita per me, se fosse necessario e il minimo che posso fare è retribuire il suo affetto e la sua fedeltà.”

“I rapporti con gli animali sono certo meno complicati, di quelli con le persone.”

“Bravo! Ed è per merito loro, che sono assai meno complicati, questi rapporti, non certo per merito nostro. Un uomo non sai mai come prenderlo, spesso una persona, dentro di sé, non sa se vuole o non vuole, una certa cosa, una determinata situazione, si fa un copione pronto nel cervello e finisce per eliminare tutti i rischi, non facendo niente. Povero illuso. L’animale, invece, diciamo il cane, o vuole o non vuole, non esistono possibili sfumature. O è sì o è no. Che bellezza!!”

“E la cagnetta?”

“Pamela? Quella è troppo simpatica, un po’ elettrica, forse perché è giovane, ma veramente affettuosa e piena di energia!”

“E vanno d’accordo?”

“Sì, ma non possono avere rapporti sessuali, lei è sterilizzata, Egisto è trenta chili più di lei, poi anche per una questione di misure, di lunghezza delle gambe, non so se mi spiego, ma lui ci prova lo stesso, lei finge di morderlo, ma nessuno ci rimane male, è la ruota della vita, un istinto animale e niente più.

Lei non fa finta di avere il mal di testa e lui non si fa l’amante, anche perché in giardino non ci sono altre opzioni, però non credo che lei sarebbe gelosa, sa? Si vogliono bene, si leccano sul muso ogni volta che s’incontrano e vivono insieme ventiquattro ore su ventiquattro.”

“Quanti anni ha Pamela?”

“Tre.”

“E di che razza è?”

“Pura razza bastarda.”

“Chissà perché, ma mi ero immaginato una pechinese.”

“Vede il suo mestiere come la rende maligno? Il pechinese è un tipo di cane che non sopporto, come la gente che ha un pechinese, si somigliano proprio, delle merdaccine ipocrite.”

“Allora è vero che il cane somiglia al padrone?”

“È un luogo comune che funziona sempre, uno stereotipo infallibile, ci avrà fatto caso anche Lei...”

“Ma nel suo, di casi, una bastardina e un pastore tedesco, cosa hanno in comune? In che cosa tutti e due somiglierebbero a Lei?”

“Nel fatto che non hanno tanti grilli che saltano per il cervello, come i pechinesi e i chihuaua, o i pitbull, i dobermann e via discorrendo.”

“Arguisco che per Lei chi possiede questi tipi di cani non è una persona normale.”

“A parte il fatto che le persone normali non esistono e questo me lo avete insegnato voi, (la vostra categoria, voglio dire,) anche l’uomo comune non esiste, è una semplificazione logica e utile alle statistiche, ma piuttosto stupida se guardata da un qualsiasi altro punto di vista.

Ogni animale ha la sua personalità, è ovvio.

E scommetto che Lei ha un pechinese in casa e un dobermann in giardino, se non un sanguinario pitbull, perché Lei ha fatto questo mestiere perché voleva subdolamente evitare gli scontri frontali nella Sua vita da fighettino...

Mi sbaglio?

Mi corregga se sbaglio, La prego.

In garage Lei ha una SUV enorme, nera, coi vetri scuri, ascolta Beethoven e Marylin Manson correndo per le strade di S.Paulo , fottendosene se rischia di investire qualcuno a tutta velocità, un po’ come faceva il colonnello di Apocalipse Now, quando bombardava i villaggi nella foresta, come minchia si chiamava?”

“Chi, il colonnello?”

“No il regista...”

“Coppola.”

“Francis Ford Coppola!

Ma non ci provi nemmeno a cambiare discorso.

E non mi faccia incazzare piuttosto, Lei, se lo lasci dire da chi se ne intende, Lei è solo un vermiciattolo strisciante, dalla voce profonda, a volte, altre volte melliflua e suadente!”

“La prego, si calmi.”

“Ma che cazzo di psichiatra del cazzo! Io credevo che dovesse saperlo, almeno Lei, che dire a qualcuno di calmarsi è la frase magica per farlo incazzare moooolto di più!”

“Ma che dovrei fare? Secondo Lei? DirLe di arrabbiarsi di più? O di continuare così che va bene?”

“Infatti.

Non è difficile.

Vede?

Ora sono calmo.

E se avessi tempo le spiegherei io un po’ di quella psicologia pratica, quella fuori dai libri, che Lei ne ha un estremo bisogno e non se ne rende nemmeno conto.

Disgraziatamente, o per fortuna, il nostro tempo è terminato, quel tempo che si misura coi battiti del cuore, non con l’orologio, quel tempo che Lei, forse, non conosce ancora.

Arrivederci, o magari piuttosto: addio.”

 

 

 

 

Ugo (4 pagine)

 

Ragazze e ragazzi, non riesco a starvi dietro e di ciò me ne dispiaccio visto i vari argomenti interessanti.

Nella mia concretezza, l’argomento ristoranti mi ha attratto. Essendo un abitudinario, se trovo quello giusto raramente lo tradisco. O, perlomeno, lo faccio rientrare in una ristretta cerchia dalla quale non esco più. Così come le pietanze. Nei giorni che passavo al salone nautico di Genova, al ristorante per cena prendevo sempre le solite cose. Ero famoso per le crespelle, facendomi anche prendere per il culo dai miei colleghi a causa della mia eccessiva prevedibilità: infatti erano loro che ordinavano per me e se per caso – un caso mai avvenuto – avessi avuto voglia di qualcos’altro, loro mi impedivano di uscire dalla mia consuetudine.

Però… c’è sempre un però. Qui in Brasile mi sto sorprendendo di me stesso. Tempo fa ero in un ristorante a buffet (abbuffata, come lo chiamo io: il buffet “libero” - ho scoperto che anche in Italia sta nascendo, con un orribile nome in inglese che non voglio assolutamente scrivere) e mi trovo davanti una lasagna all’ananas. Alla sua vista, in italiano ho esclamato ad alta voce “ma che cazzo è??”, attirandomi le occhiatacce dei presenti, i quali non avranno capito le parole, ma il senso sì, visto il tono utilizzato.

Ma subito dopo ho pensato di provarle. E non è che mi piacciono? E pure tanto? L’ho detto ai miei colleghi che mi prendevano in giro per le crespelle, volendo mostrare il mio cambiamento. Ebbene, ora mi ci prendono anche per le lasagne! Vabbè, lasciamo stare…

Sulla visione filosofica del mondo e personale, ho già detto  nel mio primo intervento. Anche se poi tutto si riduce, per me, al fatto che qualsiasi cosa possa essere considerata da tanti punti di vista. Anche una semplice parola.

Proprio ieri un mio amico operaio di Rio Grande mi ha domandato come si dicesse in italiano “parafuso”. “Vite”, ho risposto. Poi però ho sentito il dovere di aggiungere che in un testo italiano che avrebbe potuto leggere, non sempre “vite” è vite di “parafuso”. Può essere il plurale di “vita”, “vidas” in portoghese, può essere la pianta che produce l’uva, “videira” nella lingua locale. Addirittura ha significati matematici e aeronautici, ma non voglio addentrarmi troppo nei meandri del vocabolario italiano: insomma, se “vite” ha tanti sensi, figuriamoci quanti sono i sensi che ha la vita. Oiboh, mi sa che mi sono avvitato.

No, queste cose filosofiche ve le lascio a voi.

Un mio collaboratore, toscano di esportazione, mi ha regalato questo raccontino in tema a certe cose misteriose che vi garbano tanto.

 

 

C’ERA UNA VOLTA IN ITALIA

 

“Don Aldo, il parroco di S.Martino in Discesa, aveva sposato mio padre, nel senso che aveva celebrato la cerimonia in chiesa.

Dovevo aver sei o sette anni quando ce ne andammo per una settimana in montagna, al Lago Santo e alloggiammo tutti e tre nella stessa camera del rifugio Marchetti.

La stanza era la più grande del rifugio e aveva un lato che si abbassava fino al pavimento seguendo il tetto, c’era perfino un grande terrazzo con una vista stupenda sul lago, attraverso gli enormi alberi.

La sera, la lotta sul letto con don Aldo era una tappa obbligata, prima di dormire, era lui che mi saltava addosso quando meno me lo aspettavo urlando:

Canaglia! Me la pagherai! Una frase presa in qualche film di cowboy.”

Ridono.

Lutero sta navigando a gonfie vele nel passato, alle sue spalle lo psichiatra guarda il grande orologio a colonna.

“Spesso la sera ci sedevamo a chiacchierare su una grossa roccia bianca, spaccata in due dal crescere di un faggio, sulla riva del lago, davanti al nostro rifugio.

La pace era tanta che mio padre, normalmente di malumore e brusco nei modi, diventava assai più piacevole.”

“Deve essere proprio un bel posto.”

“Ah sì, una sciccheria della natura. Anche perché d’estate, col caldo infernale che c’è in pianura, lassù è proprio un paradiso freschissimo, in mezzo alle nuvolette bianche.”

“E che facevate tutto il giorno?”

“Passeggiate e camminate, fermandoci per ammirare la bellezza dei paesaggi e riposarci, quei due avevano imparato a far le due cose contemporaneamente, pensi un po’. Io non ne avevo bisogno, saltavo come un grillo, quando loro si fermavano facevo perlustrazioni intorno alla base.

Insomma, si faceva quello che si fa di solito in montagna, al mare uno si sdraia e lascia muovere le onde, ma in montagna si cammina.

Si parlava tanto, ma si stava anche piacevolmente in silenzio ad ascoltare la brezza tra i faggi, a guardare le nuvole che si specchiavano e si rincorrevano sulle acque increspate.

E poi il lago era pieno di trote, ma non si poteva pescare.

Cercavamo di fare escursioni che avevano come meta tutti i posti più notevoli che ci dicevano gli altri turisti e gli abitanti del posto, che poi erano quelli che lavoravano nei tre rifugi del lago, che non abitavano lì, ma non troppo lontano.

D’inverno lì non ci stava nessuno, era tutto coperto dal ghiaccio e dalla neve.

Sa come era il frigorifero del rifugio?

Un mucchio di neve nel bosco lì vicino, coperto di foglie, in una radura dove non batteva mai il sole.”

Ridono.

“E don Aldo faceva finta di non essere un prete?”

“Infatti, se ne approfittava che non lo conosceva nessuno, ma la domenica celebrammo anche una messa all’aperto, davanti alla cappella del lago, cioè io ero il chierichetto e tutti e due in borghese, senza alcuna uniforme sacra.

Era una bellissima mattinata di agosto e la gente si commosse delle sue parole di gratitudine all’ipotetico creatore, del suggerimento che dava di pensare più a quello che aveva e meno a quello che gli mancava.

Mi commossi anch’io, Le confesso e persino mio padre.

Noi due non abbiamo mai praticato la religione, né veramente creduto in un eventuale Dio qualsiasi.

L’abbiamo sempre vista come una cosa falsa, prefabbricata a misura d’uomo, con le debite eccezioni che sono quelle che sto raccontando, in un certo senso.”

“E sua madre?”

“Mia madre no, lei andava alla messa ogni domenica, ci va ancora e ha più di novant’anni.”

Nicola guarda l’antica pendola, per la seconda volta e pensa che deve passare in banca, appena può. Lutero riprende a raccontare:

“Don Aldo, durante i giorni feriali, al Lago Santo, andava in giro addirittura con dei pantoloni corti blu e una maglietta polo nera, aveva due gambette bianche e pelose che non dovevano avere visto il sole fin da quando era bambino. Ci parve che contrastassero assai con la faccia scura che c’era sopra, tanto che a S.Martino in Discesa lo chiamavano il Castagnaccio, non so se lei lo conosce, ma è una cosa fatta di castagne e marrone scuro.

L’ometto in questione fumava anche e parecchio, aveva le due dita che abitualmente giostravano la sigaretta, completamente ingiallite.”

“Una volta mi ha detto che anche sua madre era una montanara...”

“Scherzavo, Modogno è in una larga valle che porta alla montagna, alle cosiddette Alpi Apuane, che poi invece sono sugli Appennini, ma credo che sia a poche centinaia di metri al livello del mare. Più che altro la loro parlata è caratteristica e la gente di pianura la riconosce subito e chi parla così è considerato un montanaro, non ci sarebbe niente di male, ma i Garfagnini sono considerati persone rozze, specialmente da chi non li conosce.”

“Ma quel lago lassù, che nome strano, perché si chiama Santo?”

“Mah, non mi ricordo, anche perché ero troppo piccolo, ma credo che ci sia stato un miracolo, lassù.”

“Curioso.”

“Beh, mi ha messo proprio una pulce all’orecchio, credo che mi dovrò informare.”

 

Il giovedì seguente Lutero arriva sventolando un foglio stampato.

“Lei dottore crede ai miracoli?”

“Assolutamente no. E lei?”

“Neanch’io, comunque prima facciamo la nostra brava terapia e dopo, nella sua pausa delle ore 16, al bar, ci beviamo un cappuccino, ci mangiamo una pastarella o due e ci leggiamo questo foglio, che ne dice?”

“D’accordo.”

L’ora di psichiatria pratica e avanzata passa rapidamente per Lutero, che conosce già il segreto e assai lentamente per Nicola, che si era dimenticato di quella storia, ma ora era diventato assai curioso.

Scesi al bar sottostante, i due si siedono, come hanno fatto altre volte, come vecchi amici.

“Questa è la storia del nome del lago, mi pare curiosa, come minimo, gliela leggo?” Chiede Lutero.

“No, mi dia il foglio, se non Le dispiace, la leggo da solo, che faccio prima.”

Lo psichiatra rimane assorto per un minuto o poco più nella lettura.

Nel bar entrano ed escono varie persone, c’è il rumore del traffico, la televisione accesa che trasmette il telegiornale.

Il suo volto è cambiato, quando ha finito, o almeno a Lutero sembra così, gli pare anche che gli occhi gli siano diventati lucidi.

Se ne rimangono un po’ zitti, finché Nicola dice:

“Lo sa Lei che io ho interrotto il seminario?”

“No, questo non lo sapevo, Le posso chiedere perché?”

“Vuole sapere perché l’ho interrotto, o perché avevo scelto di incominciare?”

“Tutt’e due le cose, ma solo se ne avesse voglia.”

“Le basti questo, io credevo ai miracoli, quando ho smesso di crederci, sono diventato razionale e sono uscito dal seminario.”

“Le posso chiedere come è successo?”

“Chi è qui il paziente e chi sarebbe lo psichiatra?”

“Beh, se non ne vuole parlare...”

Un altro silenzio, in mezzo ai rumori circostanti.

“Sono nato in montagna, la mia vita era in mezzo ai fenomeni della natura, il tempo per me erano il sole e la luna, il temporale, la nevicata, il rigoglio della natura a primavera, il calore dell’estate, lo spogliarsi degli alberi in autunno, il rigore severo dell’inverno... non sono tutti dei miracoli?

Sceso a valle, ho avuto ben presto bisogno di cambiare, mi prendevano in giro, la mia personalità pareva troppo ingenua ai loro occhi...”

“Ma ora Lei capisce che invece gli ingenui erano loro, che siamo ingenui noi tutti, ora, a vivere in questa maniera.”

“Vede, io credo molto nella prospettiva del domani, oggi posso anche stare male, ma se credo nel domani, tutto cammina e si muove nel senso giusto.

Però se un uomo si sente impotente, se pensa ogni giorno di più di non poter migliorare la sua vita, il suo domani perde completamente senso...

Il mondo intero si sta allontanando dalla natura, il mondo intero sta sbagliando, ma come si fa a fermare il mondo?”

“E se il senso della vita fosse attraversare ogni prova e cercare di vivere, per il tempo che abbiamo, nella miglior maniera possibile? Star bene noi e far star bene chi ci è vicino?”

“Bravo, cerco di pensare così anch’io, ma non sempre ci riesco. Onestamente non so se sto ingannando me stesso, proprio come fanno tutti gli altri.”

Dopo una pausa di qualche attimo, Nicola chiede:

“E poi caro Lutero, visto che siamo in vena di confidenze reciproche, non ho capito perché lei viene qui da me, mi piace parlare con Lei, ma qui si tratta di qualcos’altro. Lei sta meglio di me, la sua mente è un orologio svizzero: spacca il millesimo.”

“Beh, essere paragonata a un orologio, anche se svizzero, non piacerà molto alla mia mente, che però sapeva che dovevamo arrivare a questo punto e si è preparata.

Anche a me piace parlare con Lei... e questa è una cosa rara e preziosa.

Non conosco nessuno che mi ascolti e con cui io abbia questo piacere di conversare, non m’importa se Lei lo fa per denaro, o per il piacere di aiutare qualcuno, l’importante è che la conversazione sia piacevole e di contenuto. Mi pare che lo sia.

Le medicine che mi da’ mi tranquillizzano.

Per me Lei è un amico, purtroppo di quelli gratis non ce ne ho più.

Per come si sono messe le cose, nella vita moderna, il miracolo della montagna è quello che dobbiamo fare, dentro di noi, ogni giorno: cioè trovargli un significato, che già non è facile e poi magari seguirlo.”

 

 

 

Gundel (15 pagine)

 

Racconto strano, pare frutto di una mente maschile, ma è stato scritto da mia cugina Gisy. Mi pare che faccia intendere certe cose, di come va il mondo, pure di come sono i terapeuti e di come tutto e tutti possono ingannarti, prima ingannando anche sé stessi. Ti fregano anche se sei intelligente e conosci le persone. Non è mai abbastanza.

 

 

LO VEDI COME SONO?

 

Non ho mai dato importanza eccessiva ai luoghi comuni, si rivelano spesso una semplicistica e perciò incompleta esemplificazione dell’essere umano, il quale è molto più complesso di quel che sembra.

Però è un dato di fatto che una femmina giovane, intelligente, simpatica, sensibile e bellissima non l’avevo mai conosciuta.

Non credevo possibile che tutte queste qualità potessero albergare in un’unica persona di sesso femminile, ovviamente anche in qualsiasi ipotetico corrispondente - e per me assai meno interessante - caso maschile.

Insomma, come diceva il saggio fraticello di Landshut, Hans Krankl: “La natura è giusta, se da una parte mette, automaticamente, da quell’altra, vediamo che toglie.”

O almeno approssimativamente così si sarebbe dovuta comportare, l’eccezione mi arrivò per posta elettronica, però.

Quando mi scrisse il suo e-mail di contatto, il suo portoghese mi sembrò così confuso e sgrammaticato che pensai che fosse assai limitata.

Il che non era sempre un difetto, dal punto di vista del mio complesso mestiere, dato che la gente più problematica era proprio quella più intelligente.

Quando me la trovai davanti, però, di colpo mi si asciugò la saliva e non riuscii a spiccicar parola.

Non era solo bellissima, ma una spontanea esplosione di primavera e sensualità, in una combinazione dai capelli dorati e dalle folli labbra pitturate da un giovane Caravaggio innamorato delle meraviglie della natura.

In più, già dai primi minuti della prima sessione, venne fuori che Kerstin era una fanciulla che si abbandonava assai spensieratamente ai piaceri del corpo e che il suo era un corpo che a parole io non avrei mai saputo abbracciare. Ciliegina sulla dolcissima torta una faccetta birichina proprio da lasciar perdere.

Particolari che mi disturbarono in maniera positiva, se così posso dire, giacché affiancati da quel sorriso aperto e invitante, per cui di schianto mi sentii, forse anche giustificatamente, bloccato dal punto di vista professionale e molto stimolato, allo stesso tempo, da un punto di vista basso e volgare, ma piuttosto forte.

Indirettamente arguii dal suo pieno vigore fisico, che la sua esperienza da tossicodipendente era stata rapida, ma molto intensa per lei, da un punto di vista psicologico, in seguito me lo confermò lei stessa.

Come pur immediatamente compresi che, per quanto difficile, avrei dovuto fare particolare attenzione a non rovinarmi la reputazione e la carriera.

C’era da notare pur’anche che Kerstin aveva cominciato a studiare psicologia, due anni prima, proprio quando era caduta nella trappola della droga.

Magari aveva scelto quella facoltà per spiegarsi meglio tutto quello che succedeva nel suo cervello, ma anche in quello degli altri, pur non avendone un effettivo bisogno, come invece era capitato a me.

La mia vita sessuale e pur’anche quella privata, posso dire che non erano proprio esistite, almeno fino a quel giorno.

E ora era arrivata lei, meravigliosa creatura, che non si dava delle arie, come avrebbe potuto fare, che mi sorrideva, rideva di gusto ed erano due cose che sapeva fare bene assai.

Poi le usciva quel suono melodioso dalla bocca, né troppo alto né troppo basso, che interpretava alla perfezione i miei gusti, in fatto di voce femminile.

Di solito le donne troppo belle sono condannate a non guardare mai in faccia la gente, perché hanno paura di essere fraintese.

Non sviluppano la loro potenziale intelligenza, perché tutto gli viene dato, senza che si debbano sforzare.

Vedono e sentono il loro immenso potere nelle manifestazioni degli altri, non solo negli uomini ma anche nelle altre donne, invidiose, sì, ma involontariamente pure rispettose.

Nel centro di recupero per tossicodipendenti poi era entrata la Scientologia a fargli della confusione in testa e non ce ne sarebbe stato alcun bisogno.

Secondo lei era ovvio che chi era più forte si prendesse tutto quello che voleva, come diceva Hubbard stesso, anche se poi nessuno avrebbe voluto fare la parte del più debole, ma a qualcuno toccava pur esserlo, anzi: i deboli erano molto più numerosi dei forti.

Cercai di fargli notare che quello era pure il principio della prepotenza, che può sembrare anche efficace, osservato dal loro punto di vista, almeno finché non trovano qualcuno più prepotente e magari anche più forte.

Non che lei credesse fermamente nella Scientologia e/o nella Dianetica, ma la sua mente era molto volubile e aveva difficoltà a soffermarsi sulle cose teoriche, che proprio per questo l’affascinavano parecchio.

Forse perché le parevano inafferrabili, poderosi punti fermi intorno ai quali la sua mente volteggiava, su e giù, qua e là.

Come una farfalla variopinta nel suo vestito corto e scollato, dal tessuto morbido che non faceva pieghe, incredibilmente impalpabile, ma piuttosto poco trasparente.

Allora la invitai a riflettere sul ragionamento che teoria e pratica non solo sono sempre legate, ma che la pratica dovrebbe essere conseguenza della teoria, pur se possono alternarsi e influire l’una sull’altra, di solito il raziocinio stimola l’azione conseguente, sulla base delle conclusioni pensate in precedenza.

Fin qui niente di strano, lei era pienamente d’accordo, anche se io affermavo il contrario di quel che diceva lei.

Disse che le pareti della mia sala, di quel color porpora scuro, la facevano rabbrividire, ma non capii se era un complimento o no.

Approvò entusiasticamente le mie poltrone di pelle nera e che io non preferissi il famoso divano, per i pazienti.

No, no e poi no: ci si doveva guardare in faccia, era molto meglio!

Kerstin faceva dei lineari e perfetti ragionamenti logici, sensati e assai ben lubrificati e funzionanti nel loro meccanismo, ma raramente li legava tra di loro.

Trovava più rapido e quindi più pratico usare la sua bellezza contro di me e gli altri, indirettamente contro sé stessa, nella sua affabile invasione dei territori altrui, nel nostro - appena nato - rapporto tra paziente e terapeuta.

Per quanto cercassi di controllarmi, quello che vedevo e sentivo mi faceva bollire il sangue e cercavo di pensare ad altro, inutilmente.

Di solito usavo un riassunto sintetico della Teoria Pratica Freudiana, la so a memoria e me la ripeto mentalmente, solo per distrarmi, per ottenere il distacco necessario. In pratica diventavo ancora più imbranato e la mia fuga dal presente non mi portava né al passato né al futuro.

Ho sempre avuto un talento per fuggire dal presente, per me esistono solo gli altri tempi. Lo sdoppiamento, il triplicare o perfino il quadruplicare delle mie attività mentali e fisiche, mi ha sempre consentito di aumentare il ritmo delle cose e allo stesso tempo di realizzarle tutte malamente. Non a caso me ne rendo conto solo ora, un bel po' di tempo dopo.

 

Per forzare la barriera costituita dalla rimozione ed accedere all’inconscio, ricostruendo il passato rimosso e curare i disturbi la via di accesso è data da una cura con le parole, che analizza i sogni e usa il metodo delle libere associazioni.

Al paziente, posto in uno stato di rilassamento, si chiede di dire tutto quello che gli passa per la testa, senza scrupoli di ordine religioso, morale, sociale, e senza omettere nulla.

Lo scopo è quello di eliminare il più possibile le resistenze, quelle selezioni più o meno volontarie dei propri pensieri che sono messe in atto dal paziente.

A volte però il fluire delle parole può avere un blocco improvviso, quando sta per emergere qualcosa che è stato rimosso.

Compito dell’analisi è ricostruire ciò che non va e scoprirne le cause per riequilibrare le forze psichiche in conflitto.

 

Kerstin cominciò da sola con le libere associazioni, che era proprio quello che le avrei proposto, ma avrei voluto anche essere io a suggerirlo.

Mentre quello che m’inchiodava alla poltrona, era la sua finta ingenuità, che poi poteva anche essere vera, che ne sapevo io?

Quell’innocenza che faceva del suo modo di parlare e dei suoi gesti un qualcosa che inspiegabilmente, eppur assai logicamente, mi trasformava in un perfetto imbecille, più mi sforzavo di apparire calmo e saggio e peggio era.

 

Per spiegare i fenomeni psichici bisogna tenere conto della distinzione tra un livello conscio ed un livello inconscio ed attribuire a quest’ultimo un’azione causale sul primo.

Le motivazioni del comportamento umano, sia normale che patologico, hanno la loro collocazione nelle profondità dell’inconscio.

La psiche è una realtà complessa che viene divisa da Freud in tre zone: il conscio, il preconscio e l’inconscio. 

L’inconscio è una forza attiva, dotata di proprie finalità e operante con una propria logica, diversa dalla logica della vita cosciente.

Esso comprende gli elementi psichici che sono mantenuti nell'inconscio grazie alla forza della rimozione, meccanismo di difesa psichico che rimuove dalla coscienza le nostre esperienze e i nostri pensieri spiacevoli, che provocherebbero angoscia se affiorassero alla coscienza. 

Il preconscio comprende l’insieme dei ricordi, rappresentazioni, desideri, insomma dei fattori psichici che, pur essendo momentaneamente inconsci, possono, in virtù di un piccolo sforzo, diventare consci.

Il conscio si identifica con la nostra coscienza, con la nostra attività diurna e consapevole; è fluida perché non siamo sempre perfettamente consapevoli di ciò che facciamo e vogliamo e di ciò che ci accade intorno.

 

Tutti questi noiosissimi consci, a giro dentro di me, si erano trasformati in un paio di cosce, le sue, che mi parevano molto più interessanti e ben tornite.

Da qualche tempo avevo imparato che per resistere, cioè per non comportarmi troppo istintivamente, in alcune determinate ma non rare occasioni, dovevo distrarmi con altre cose e fare la faccia assorbita di chi ascoltava attentamente, a volte chiudevo anche gli occhi per concentrarmi meglio.

Il che non è proprio considerato eticamente valido, e forse anche per questo magari non mi riusciva bene, non lo so.

In quel momento però mi parve strano che lei commentasse come se avesse sentito quello che invece avevo solo recitato dentro di me:

“Si figuri che io faccio sempre confusione tra l’inconscio e il preconscio. Che scema!”

Lo disse accavallando quelle cosce forse anche inconscie - ma era ancora da dimostrarsi - in una maniera che pareva proprio naturale, eppure studiata nei dettagli, per stuzzicare in maniera irresistibile i miei punti più reconditi e sensibili, di una sessualità precedentemente repressa, ora però lanciata al galoppo.

Il tutto accompagnato da uno sguardo tra l’innocente e il malizioso... al che persi per qualche secondo ogni cognizione cognitiva, a riguardo e non.

Cominciai a tossire come un cagnone col cimurro, diventai leggermente paonazzo, poi cianotico, ma feci disperatamente ancora finta di niente e riuscii a balbettare in maniera quasi disinvolta che poteva continuare con le libere associazioni, che io stavo bene assai, mai stato meglio.

Mi recuperai alla svelta o almeno lo speravo, con una serie di ovvietà a sproposito che biasciacai con noncuranza e che lei mi parve bersi con estrema naturalezza e fiducia.

In seguito, nell’impetuoso torrente delle sue numerose e forti, ma pur sempre libere associazioni, compresi che più che ascoltarmi e sorbirsi le mie panzane, pensava ad altro e questo se da una parte mi faceva arrabbiare, dall’altra mi tranquillizzava.

In particolare, il preconscio le riusciva difficile da capire, mi disse, cosa che anch’io, a suo tempo, avevo avuto bisogno di un decennio o giù di lì, non glielo dissi ma mi uscì fuori - forse - un’aria di stolta superiorità che la divertì parecchio.

Insomma, per Kerstin era come una parte della nostra mente che c’era e non c’era, per esempio: quando interveniva e quando invece se ne stava comodamente in disparte?

Bella domanda.

Cercai di esemplificarglielo con dei casi pratici, ma quando lei mi guardava troppo intensamente, mentre parlavo di cose di cui entrambi sapevamo che io non avevo la più pallida idea, non trovavo di meglio che recitare, dentro di me, quello che era come il mio Vangelo, giacché, in un certo senso, pregavo una qualsiasi entità superiore – fosse esistente, nascosta o solo virtuale – che mi potesse dare la forza di comportarmi  se non professionalmente, o anche solo saggiamente, almeno decentemente.

Quel violento conflitto che sentivo dentro di me, lei non sembrava notarlo per niente, oppure mi stava ingannando ancora.

Però fu chiaro quasi subito che il mio comportamento assai poco professionale e piuttosto sull’imbranato andante, misteriosamente, a lei piaceva.

“Mi sento già meglio.

È in-cre-di-bi-le!

La mia amica aveva proprio ragione, mi aveva detto che Lei era un fottutissimo portento vivente.”

Non riuscivo a capire, ma mi sentivo incoraggiato a farla continuare a parlare, trottando a cavallo delle sue associazioni che diventavano sempre più libere e disinvolte.

Mi venne in mente anche che mostrarmi imbranato la facesse stare bene, perché si sentiva più sicura di se stessa, in quel modo.

Magari lei pensava che lo facessi per una mia efficace, personale e geniale tattica.

 

Secondo Freud tra l’analista e il paziente si instaura una relazione affettiva chiamata transfert: sull’analista vengono proiettati stati d’animo ambivalenti di amore e di odio provati dal paziente.

Grazie al transfert, il "nevrotico" è indotto gradualmente ad abbandonare le sue resistenze, ossia tutto quello che nei suoi discorsi e nei suoi atti gli impediva di accedere a quei conflitti psichici di cui non era conscio ma che producevano la sua nevrosi.

 

Ci rimasi troppo di sasso, però, quando disse, a commentare le mie parole pensate e mai dette:

“Non è malaccio il Suo Transfert, lo sa? Me lo immagino con i baffi e il pizzetto, lo sento molto vicino a me, sia fisicamente che spiritualmente.

Comunque non credo di essere nevrotica, per quel che c’ho capito, poi io di resistenze non ne ho nessuna, mi pare... anzi: questo è forse il mio problema più grande.”

Le sue rappresentazioni di astuzia ingenua e di prepotenza gentile cominciavano a piacermi eccessivamente, anche per i miei stessi gusti.

Sudavo e mi detergevo con una salvietta speciale, di quelle che distribuiscono ai passeggeri sugli aerei, che all’inizio era candida, umida e profumata.

Ora invece marroncina, fradicia e puzzolente.

 

Il sogno rappresenta la via regia che porta alla conoscenza dell’inconscio nella vita psichica.

Durante il sonno la censura, che durante il giorno era stata particolarmente attiva e non aveva permesso la manifestazione di quei contenuti psichici ritenuti inaccettabili per motivi morali o patologici, è indebolita: l’inconscio, con i suoi desideri rimossi, preme con maggiore intensità e produce tensioni.

 

Continuavo a ripetere la vecchia lezione dell’università dentro di me, come se fosse un’orazione, in maniera del tutto automatica e mentre lo facevo pensavo anche altre cose limitrofe e non, ascoltavo quel che mi diceva lei e bevevo bottigliette su bottigliette di minerale gassata, cercando anche di ruttare più sommessamente possibile.

Mi era venuto fuori sempre più insistente, pur senza uscirsene dal mio cervello, anche il pensiero “che le donne belle come lei, avendo il potere di irretire gli uomini imbranati, (come stava facendo con me, che da quando l’avevo vista non avevo capito più niente,) non sentivano il bisogno di comprendere veramente il mondo, perché ottenevano tutto quello che volevano senza sforzarsi di pensare troppo”.

Però questo suo venire da me, per curarsi la mente ferita dalla droga e dall’insensibilità volgare del mondo occidentale, era notevole ed interessante. Ragazzi: il suo voler capire il vero perché delle cose, le faceva veramente onore.

Ma perché era venuta proprio da me?

 

Il sogno, presentando all’immaginazione come realizzati quei desideri inconsci, rende possibile lo scaricarsi della tensione.

In questo senso il sogno è definito l’appagamento di un desiderio. 

Tale realizzazione avviene attraverso mascheramenti e deformazioni operati dalla censura (=meccanismo che blocca la realizzazione dei desideri), la quale, si ricordi, pur affievolita, non è mai del tutto scomparsa.

Lo scopo di queste deformazioni o stranezze è quello di rendere accettabile alla coscienza i contenuti rimossi. In ciò consiste il lavoro onirico.

Ogni sogno ha un contenuto manifesto, che è quello che viene ricordato al risveglio (il racconto che possiamo fare del sogno); ed un contenuto latente, nascosto, che rappresenta il vero significato del sogno. 

La logica dei sogni è del tutto autonoma rispetto alle solite categorie spazio-temporali della vita cosciente. 

Per interpretare correttamente un sogno, Freud ha scoperto cinque regole: la condensazione (cioè la tendenza ad esprimere in un unico elemento più elementi collegati tra loro); lo spostamento (che consiste nel trasferimento di interesse da una rappresentazione ad un’altra); la drammatizzazione o alterazione di situazioni; la rappresentazione per opposto, in cui un elemento può significare il suo opposto; la simbolizzazione, in cui un elemento sta al posto di un altro.

Tenendo dunque conto di tutte queste regole, l’analisi può arrivare a decifrare il sogno, e ciò è particolarmente utile nel caso di pazienti nevrotici. 

 

“Ho sognato di conoscerla fin dal momento in cui una mia conoscente, della quale non posso proprio dirle il nome, perché anche Lei la conosce, mi mostrò un filmato di un suo discorso all’università di Heidelberg, in cui parlava del sonno e del sogno negli esseri umani della società globalizzata del terzo millennio.”

Effettivamente con il vestito blu, la camicia bianca e la cravatta bordeaux mi avevano detto tutti che facevo una certa impressione, non necessariamente positiva, ma ragguardevole, in ogni maniera.

Forse il contrasto studiato tra la mia barba incolta e i capelli a cespuglio, sopra, più sotto il completo scuro e sobrio, chi lo sa, anche gli occhi spiritati...

Però a questo punto la mia mente uscì per un attimo dalla salamoia e arguì al volo due cose ben distinte: primo che in qualche modo leggeva il mio pensiero, giacché si agganciava a quel che pensavo e commentava di conseguenza; secondo che la situazione stava precipitando vorticosamente e dovevo assolutamente prenderne il controllo, per salvare me stesso e la mia laterale reputazione di stimato professionista del lavaggio legalizzato della psiche.

Ma non sapevo ancora come.

 

Alla base dei fenomeni psichici vi è il principio del piacere che ha la funzione di evitare il dispiacere e la sofferenza scaricando le varie tensioni e ristabilendo uno stato di equilibrio mediante l’appagamento dei desideri, soprattutto grazie a soddisfazioni sostitutive rispetto a quelle reali.

 

“Chi decide cosa è reale o no siamo noi e solo noi, lo dice lo stesso Hubbard, se una cosa ci piace, dobbiamo prendercela e alla svelta, sennò qualcuno lo farà al nostro posto, non è vero?”

 

Questa situazione genera inevitabilmente disillusione; da ciò viene a costituirsi e ad operare un secondo principio, il principio di realtà, che cerca il soddisfacimento in relazione alle condizioni imposte dalla realtà anche se spiacevole.

 Il principio del piacere tende ad ottenere tutto immediatamente, mentre il principio di realtà può differire la soddisfazione in vista di una meta possibile, ritenuta più sicura e meno illusoria.

La sublimazione consiste nel reagire positivamente ad una situazione spiacevole, in modo da ottenere un soddisfacimento anche se diverso da quello desiderato. 

 

“Si fa presto a parlare di sublimazione, ma vaffanculo alle teorie, bisognerebbe saper interpretare i fottutissimi fatti correttamente, prima di tutto... e qui la gente ha molta più difficoltà. Si figuri, mi succede spesso anche a me.”

A questo punto capii che non c’era alcun bisogno che io parlassi, bastava che pensassi e lei ascoltava tutto quello che non avevo detto e lo discutevamo insieme, per così dire.

 

Freud, accanto alle pulsioni sessuali, chiamate Eros, riconosce l’esistenza di una pulsione di morte, Thanatos, ossia di una tendenza distruttiva inerente alla vita stessa. 

Quando le pulsioni distruttive o di morte sono rivolte verso l'interno della persona, esse tendono all’autodistruzione, quando sono rivolte verso l’esterno assumono la forma di pulsioni di aggressione e di distruzione.

 

“Noi donne siamo tutte un po’ streghe, non se ne sorprenda, è Lei che mi stupisce, a dir la verità, che col suo cazzo di mestiere avrebbe dovuto già saperlo a memoria.”

Probabilmente qui diventai rosso e lei mi sorrise alla sua maniera, senza troppa intenzione manifesta, ma con grazia.

Quelle sue parolacce appena dette invece di offendermi mi eccitavano.

Sudavo come una porchetta allo spiedo sulla brace rovente, in più dovevo anche far finta di niente, ma lei sapeva benissimo cosa stava succedendo e mi stava cucinando a puntino.

 

Nella realtà psichica, le pulsioni si presentano spesso come ambivalenti, caratterizzate cioè dalla compresenza dei due principi di vita e di morte; anche la sessualità può presentare tale ambivalenza sotto forma di amore e di aggressività. 

 

“Lo so che tanta gente pensa che dentro la mia spensierata gentilezza si celi una certa aggressività, che parlo in maniera sboccata, a volte, ma io sono completamente naturale e la Scientologia non ha fatto che confermare e giustificare tendenze che io avevo dentro di me da sempre.”


                                                                              Freud individua tre istanze dell’apparato psichico che chiama Io, Es e Super Io. 

L’Es è il serbatoio dell’energia psichica, l’insieme delle espressioni dinamiche inconsce delle pulsioni, le quali sono in parte ereditarie ed innate e in parte rimosse e acquisite.

L’Es è retto dal principio del piacere.

L'Io è retto dal principio di realtà e deve mediare tra le richieste pressanti dell’Es e quelle del Super Io (la “coscienza morale”, che si forma in seguito all’educazione e all’ambiente in cui si vive, e nasce al termine del complesso edipico).

Il Super Io agisce come giudice e censore nei confronti dell’Io (la percezione inconscia delle critiche del Super Io si esprime nel senso di colpa).  


       
“L’Es è la mia parte preferita, inutile dirlo, quello che conta è il piacere e il resto è conseguenza, se così posso esprimermi. Le altre parti, in me ci sono, ma non si manifestano che piuttosto raramente, direi.”

E qui aveva maledettamente ragione.

 

Freud non restringe la sessualità alla genitalità bensì la intende come la ricerca del piacere corporeo, che è presente in tutte le età della vita.

La sessualità è finalizzata alla ricerca del piacere. 

Il bambino è un essere che vive una sua vita sessuale completa; è definito un essere perverso polimorfo perché ricerca forme di godimento indipendentemente dal fine riproduttivo della sessualità e ricerca il piacere attraverso i vari organi corporei (polimorfismo), nelle diverse zone erogene (parti del corpo che sono fonti di piacere). 

 

L’entrata della parola sessualità, che tante altre volte avevo non solo pensato, ma anche detto e senza problemi, in presenza di pazienti di ogni tipo, provocò a sorpresa la mia erezione e lei se ne accorse, perché sorrise e guardò lì in basso.

 

Freud distingue nello sviluppo della sessualità delle fasi, ognuna delle quali è caratterizzata dall’organo che vi è privilegiato nella ricerca del piacere. 

Le fasi dello sviluppo psicosessuale sono cinque:

La prima è la fase orale, che va dalla nascita ai due anni circa ed in essa la libido (l’energia sessuale) si concentra nella bocca (la bocca è la prima zona erogena): il bambino prova piacere portando qualunque cosa alla bocca, dal seno della mamma agli oggetti che trova a parti del proprio corpo (dito, piede ecc.).

Tale modo di fare è anche il suo primo modo di conoscere il mondo: in altri termini, portando qualcosa alla bocca il bambino comincia a capire che cos’è e lo distingue da altre cose.

La seconda fase è chiamata fase anale, va dai due ai quattro anni circa, e durante essa il bambino prova piacere nel trattenere e nel rilasciare gli sfinteri anali: è collegata agli inviti materni o famigliari ad espellere o a ritenere le feci ("l’educazione al vasino"), che assumono quindi carattere ambivalente, buono e cattivo al tempo stesso.

È anche il periodo del no, in cui il bambino inizia ad essere autonomo e vuole appropriarsi sempre di più della sua raggiunta autonomia. 

La terza fase è ancora più importante e viene chiamata fase fallica (dai quattro ai sei anni circa) perché indica la scoperta del proprio organo genitale e la sua diversità da quello dalla sorellina o dal fratellino.

In questa fase vi è la paura da parte del maschietto di perdere il proprio organo (complesso di castrazione: poiché il maschietto ha qualcosa più visibile, crede che la bambina sia stata punita col taglio del suo organo sessuale e teme anche lui di fare la stessa fine). 

 

Ora Kerstin parlava tranquillamente e con dovizia di particolari di quando era bambina e delle prime volte che aveva sentito il cosiddetto richiamo della foresta.

Se per calmarmi la mia orazione parlava delle stesse cose, per una fottuta coincidenza, certo in qualche modo molto poco casuale, questa serie di termini sessuali e fottutamente sensuali mi fece perdere ulteriormente il controllo delle cose, se ce ne fosse stato bisogno e non ce n’era proprio nessuno.

 

Durante questa fase nasce il complesso d’Edipo, che indica la normale crisi emotiva, a livello di fantasie più o meno inconsce, provocata dai desideri sessuali del maschietto verso la madre e la gelosia nei confronti del padre; analogamente succede nella bambina (il bambino vuole sposare la mamma e la bambina vuole avere un figlio dal papà). 

Questo periodo è superato in genere col processo di identificazione nel genitore del proprio sesso, che è un processo importantissimo: visto che il bambino si rende conto di non potere sposare la mamma, allora impara ad assumere i vari atteggiamenti tipici del maschio adulto nella società in cui vive, identificandosi nella figura del padre; analogamente succede con la bambina, che imparerà a diventare una "piccola donna" per far piacere al papà.

È in questa fase che si impara a diventare maschi o femmine, ci si identifica il proprio sesso biologico con le tendenze sessuali psicologiche e con le tendenze sessuali considerate "normali", mentre prima si era ancora "bisessuali".

La fase fallica segna l’inizio della socializzazione e della formazione della coscienza morale, con la graduale introiezione delle norme morali (nasce il Super Io, cioè il bambino impara che cos’è giusto e che cos’è sbagliato e lo interiorizza).

La fase di latenza (in cui la sessualità è nascosta), corrisponde all’ingresso del bambino nel mondo della scuola (dai sei agli undici anni). Il bambino entra nell’ordine sociale e culturale del suo ambiente. 

Infine vi è la fase genitale vera e propria, l’ultima nello sviluppo della sessualità e corrisponde all’epoca della pubertà e della adolescenza, durante la quale si forma in maniera definitiva la propria personalità sessuale, che preluderà al "normale" rapporto adulto eterosessuale. 

 

Chissà perché, concentrato sulle sue poppe generose, mi venne in mente Popper che diceva: « Dobbiamo distinguere chiaramente tra verità e certezza. Aspiriamo alla verità, e spesso possiamo raggiungerla, anche se accade raramente, o mai, che possiamo essere del tutto certi di averla raggiunta [...]

La certezza non è un obiettivo degno di essere perseguito dalla scienza.

La verità lo è. »

Forse non c’entrava niente, ma volendo si poteva trovare una sottile, eppur profonda attinenza, con quello che stava succedendo nel mio studio, quella mattina.

Certo Popper era un bel cognome tedesco, ma le poppe di Kerstin allo stesso tempo gonfiavano con prepotenza ed estrema naturalezza quel dannato vestitino a fiorellini.

 

 Il lapsus è un errore linguistico, che determina la pronunzia errata di una parola oppure il suo uso improprio.

Distinguiamo il lapsus verbale (al posto di una parola se ne pronuncia una molto simile, oppure una di significato contrario; in altri casi ancora si aggiunge un secondo senso a quello intenzionale), il lapsus di scrittura (trascrizione di una parola al posto di un’altra) e il lapsus di lettura (si sostituisce ad una parola un’altra simile per significato o per assonanza , ossia similarità di suono).

 

Il mio pensiero si era sdoppiato e poi triplicato, mentre recitavo a memoria la Teoria Pratica Freudiana, ascoltavo rapito Kerstin che parlava della sua masturbazione come se si trattasse di noccioline salate e vedevo davanti a me un marmoreo Immanuel Kant.

Quel geniale omettino, che quando usciva per la sua passeggiata pomeridiana, la gente di Königsberg sapeva che erano le tredici in punto e regolava gli orologi, quel cazzo di tedesco che con le sue teorie aveva rivoluzionato la filosofia mondiale, che si era innamorato solo due volte nella sua vita, ma le due femmine desiderate non lo avevano mai saputo.

 

Secondo Freud il lapsus consiste in una manifestazione involontaria dell’inconscio: al posto di ciò che è privo di interesse, inconsciamente si sostituisce ciò che interessa.

Il lapsus, come la dimenticanza, lo smarrimento e l’atto mancato, è rivelatore di un conflitto fra l’intenzione cosciente e la tendenza repressa.

Quando il livello di controllo della coscienza è ridotto, ad esempio in casi di stanchezza, quando si è preoccupati e si è più tesi, gli impulsi inconsci emergono alla coscienza alterando il comportamento.

 

A questo punto le saltai addosso, conscio che questo poteva causare la fine della mia carriera, ma ormai chi se ne fregava.

Lei non aspettava altro.

Questa fu la nostra prima, ultima e unica seduta, anche se terminò sdraiata, l’orario fu rispettato.

Ci sposammo dopo due mesi e poi, a poco a poco, Kerstin è ingrassata un po’, forse non è più quella gran bellezza di prima, ma non m’importa.

Non per questo la nostra felicità è diminuita, perché è basata su una simpatia reciproca che è cresciuta nel tempo e ci si schianta dal ridere tutti i giorni, ma soprattutto la mattina e la sera, a letto.

Mi sono tagliato la barba e ho lasciato solo i baffi e il pizzetto, come a Kerstin piaceva da tempo, in cambio lei ha abbandonato la Scientologia, ma è rimasta un’affabile dittatrice, almeno fino a oggi.

Ora faccio il barbiere e mi trovo assai meglio, le poltrone sono più alte e girevoli, va bene, ma tanto io lavoro in piedi, dispensando tagli alla moda e consigli utili alla sopravvivenza del cliente nel mondo globalizzato.

Kerstin fa la manicure, qui con me, non abbiamo figli ma un cane, una gatta e una tartarughina.

Dopo esserci sposati, durante il viaggio di nozze in Sicilia, le ho chiesto come aveva fatto a leggere i miei pensieri, quel giorno fatidico, nella mia sala purpurea.

Kerstin è diventata rossa e ha riso tanto, prima di riuscire a dirmi, quasi a singhiozzi, che quando io chiudevo gli occhi muovevo le labbra e scandivo in silenzio il vangelo delle teorie freudiane.

Che figura da imbecille!

Ingenuamente lei aveva pensato che quel mio suggerirle gli argomenti per le sue libere associazioni, facesse parte della terapia.

 

 

Jens (3 pagine)

 

I fatti veri sono da filtrare attraverso la nostra interpretazione, che comunque dovrà fare i conti con la nostra situazione generale in quel momento, il nostro umore... e se abbiamo dormito bene, mangiato troppo oppure non a sufficienza. Insomma, ci siamo capiti.

Quando dicono che un film, un libro, o un racconto sia stato ispirato da fatti veramente accaduti, in pratica può essere che il risultato sia completamente diverso, di solito lo è.

 In più ci sono tanti bugiardi in giro e stanno anche aumentando.

 

L’AMICO STOCASTICO

 

Sull’amicizia, Vinicius De Moraes diceva che oltre ai noti vantaggi pratici e sentimentali, è un toccasana per la memoria.

Di amici ce ne ho anche di buoni, ma la memoria inizia a farmi brutti scherzi, per questo prendo appunti su questo e altri taccuini, che dopo perdo.

C’è Dieter, logico e deciso, di temperamento bollente, colla barba, ma dentro di sé è un tenerone perfettamente rasato. C’è Wolfgang, pasta d’uomo, prende ogni decisione solo dopo aver fatto un giro completo dei meandri del suo cervello infreddolito e senza capelli sopra.

A volte, però, il tempo è troppo, fa diventare inutile l’azione progettata, se non dannosa.

Ho provato a immaginarmi in maniera pratica l’impianto delle decisioni dentro di Wolfgang.

Ci deve essere un ingranaggio che allontana e uno che avvicina alla realtà, cioè uno, nello stesso momento dell’altro, pare che faccia l’azione opposta.

Da non perdersi, parlando di amicizia, c’è il dialogo tra Wolfgang e Dieter.

Quest’ultimo, quando si trova di fronte a gente che gli propone solo mezze verità insistite e sistematiche, spesso non riesce a reagire in maniera positiva.

I due sono praticamente cresciuti insieme, vicini di casa, compagni di giochi e poi di scuola.

Non si sono mai persi di vista.

Eppure litigano sempre, cioè Dieter litiga con Wolfgang, ma lui non se ne accorge nemmeno.

Mi chiedo: non è che la gente è un po’ troppo fuori di testa?

Beh, è normale, quando uno è fuori di testa, non si può certo pretendere che lo sia in maniera moderata.

Se poi l’intero sistema occidentale avesse la tendenza a sfornare sempre più gente dal cervello fuso, man mano che gli anni passano, allora sarebbe peggio ancora.

Spesso mi domando se qualcosa del genere succede anche al sistema orientale.

In Giappone, per esempio, so che ci sono agenzie che forniscono amici a pagamento, non è un buon segnale.

Wolfgang, io e Dieter lo chiamiamo L’Amico Stocastico.

Forse perché Stocastico suona bene, oltretutto è un aggettivo che abbiamo cercato cento volte nel dizionario, ma non l’abbiamo capito ancora.

Un po’ come il nostro amico, per il quale purtroppo non esistono dizionari, né enciclopedie, o libretti di istruzioni, ma ci siamo sforzati assai di comprenderlo.

Poi, Stocastico ha qualcosa a che fare con il caso, l’andare per tentativi, insomma, come fa lui, ma il suo segreto è non ricordarsi di cosa era successo nella precedente, così ogni volta è come la prima.

Wolfgang, per essere diventato così, ha le sue radici che affondano nel terreno della sua storia personale, sul cammino accidentato del mondo stesso, sotto ai suoi piedi misura 45.

Nella sua eterna polemica contro le imprese telefoniche, per esempio, davanti a me impersona sé stesso nella sua scena ideale di come avrebbe voluto e forse anche dovuto comportarsi.

Urlandomi contro, punta il suo più implacabile dito accusatore, a pochi millimetri dal mio naso.

Wolfgang è troppo buono, invece e allora, nella scena reale, lui è rimasto muto, mentre gli interlocutori della ditta lo ingannavano con delle fiacche bugie di repertorio.

Io ci provo tutte le volte a interromperlo, gli infilo delicatamente un cetriolino in un orecchio, gli metto in bocca una sigaretta girata al contrario e faccio finta di accendergliela, ma lui niente.

Provo a lanciare altri argomenti, di vario tipo, secondo la mia idea di quello che potrebbe essere interessante per lui.

È facile, perché è il contrario di quello che lo è per me.

Ma lui niente.

 

Una volta, eravamo nel mio giardino, quando ho avuto una pensata e mi sono nascosto dietro un cipresso.

Wolfgang magari ha considerato che lo potevo sentire anche da lì, ha continuato come se niente fosse.

Allora ho deciso di allontanarmi dietro al cipresso, rispetto alla sua posizione da seduto raccontante, in maniera da rimanerne nascosto fino all’angolo della casa.

Là dentro poi ho iniziato a fare altre cose, mi sono messo a guardare la tivù, con un panino e una birra.

Ogni tanto andavo a guardare dalla finestra, era sempre là che si sbracciava, parlava con il cipresso, lo accusava con il dito indice.

Il povero cipresso non riusciva a reagire, rimaneva immobile, piantato davanti a lui, non muoveva foglia, esattamente come avrei dovuto fare io.

Intanto Wolfgang si rifiutava di credere che lo avevo abbandonato, preferiva pensare che io fossi ancora là dietro.

Una volta credevo che la gente volesse sapere veramente la verità, magari non ci riusciva, ma che lo desiderasse con tutte le proprie forze.

Non è vero, la gente preferisce la menzogna, vuole solo credere a quello che gli fa comodo.

Wolfgang si è messo in testa di essere un idraulico, invece non ci capisce niente, provoca inondazioni e catastrofi, poi deve pagare i danni.

Suda come un maiale e quello che ci guadagna, più che altro, sono i debiti.

Si è sposato con una specie di sergentessa della Gestapo, che a un maschio qualsiasi, con un poco di sale in zucca, potrebbe parere interessante solo a livello antropologico, a una debita distanza di sicurezza.

Kornelia ha bandito il concetto di dubbio dalla sua esistenza ed è ignara del principio per cui, se si parla con qualcuno, si possa smettere di gridare, anche per più secondi di seguito.

Hanno una figlia di cinque anni che è capace di smontare un supermercato in pochi minuti, se li trovi insieme per strada, mentre i suoi genitori parlano con te, quella mette a ferro e fuoco i passanti.

Wolfgang sorride bonario e dice che effettivamente è un po’ vivace, ma da adulta non diventerà né una serial killer, né cancelliere della Bundes Republik.

Me ne sto zitto, Annelore in fondo è ancora giovane ed io spero di non esserci più.

 

 

Omero 65

 

Se c'è una cosa che mi disturba è se qualcuno vuole parlare con me quando mangio. In realtà sono parecchie le cose che mi disturbano, ma questa magari più di tutte le altre, già da me provate e catalogate.

Pranzando e cenando, a volte anche facendo colazione, al ristorante di mia proprietà, il Pellegrino sulla Duden Strasse, mi succede spesso che non possa rifiutare di parlare o ricevere gente esterna al ristorante, perché chi ci lavora lo sa e mi risparmia.

I fornitori anche vengono avvisati dai miei collaboratori e ogni nuovo consegnatore di merce debitamente anche.

Non è che io pretenda dagli altri che si comportino come me, ma un poco di riguardo per le altrui fissazioni secondo me è necessario e non costa nemmeno tanto.

È una questione di rispetto, personalmente cerco di continuare la mia esistenza senza interrompere quella altrui, se qualcosa non mi piace cerco di non farglielo pesare a nessuno.

Capita però che sempre arriva qualcuno che non lo sa, o anche che chi lo sa, o dovrebbe saperlo, se ne frega e per un motivo o per l'altro non mi fanno mai mangiare in pace.

Mia moglie Maite per esempio mi dice sempre che a casa non ci sono mai e allora quando sa che io sto mangiando o se solo lo suppone, perché in queste cose sono piuttosto metodico, non perde occasione per venire ad assillarmi con problemi anche validi, non dico di no, però se aspettasse quei venti minuti scarsi gliene sarei grato, ma sembra che non le sia possibile. Succede anche nelle rare volte in cui sono a casa, la colazione ce la faccio quasi sempre, ma se sono al ristorante lei passa di lì per caso e viene a scassarmi i cabbasisi.

A questo proposito mi viene in mente il commissario Montalbano che ogni qual volta che a casa, in santa pace, sta alzando la forchetta sopra un piatto di pasta fumante e odorosa, guardando le notizie alla TV, ecco che suona il campanello o trilla il telefono.

 

 

Luiz

 

Jens dice che la maniera moderna di esercitare la propria saggezza è piuttosto problematica, insomma è abbastanza improbabile, se non si abita in una grotta, su una montagna, lontano da tutti e da tutto, in poche parole bisognerebbe essere un eremita.

Però siamo troppo abituati a certe assurde ma quotidiane comodità, a cui un eremita che si rispetti deve per forza rinunciare, aggiunge subito dopo.

Colgo l'occasione per mettere qui un racconto di un mio conoscente di Porto Alegre, su questo argomento che certamente gli sta a cuore da tempo, ha scritto queste pagine che anonimamente, con il suo permesso pubblico qui:

 

IV

 

Usurpato e massacrato, ripetutamente violentato sul suo stesso territorio, l’indio brasiliano ha rifiutato di mischiarsi al popolo invasore e ultimamente  - amara ironia della fine del nostro secondo millennio - ci si è perfino stupiti se ha protestato per i festeggiamenti dei 500 anni della scoperta del Brasile, dichiarando che lui era qua da prima e che è stato scoperto, sì, solo nel senso che gli hanno tolto la coperta.

In Amazzonia l’indio continua a campare alla stessa maniera di migliaia di anni fa e questo in generale viene detto con disprezzo, ma certo là in mezzo alla foresta, non si sa nemmeno cosa è lo stress, come non si conoscono, parimenti, altre malattie tutte moderne.

Nelle periferie delle grandi metropoli vive in capanne di nylon nero (quello dei sacchi della spazzatura) e il suo stato è di miseria e abbandono, ai margini più sporchi e insalubri, l’indio intreccia e vende cestini di vimini.

Nelle loro comunità, nelle foreste pluviali, l’indio pratica caccia e pesca, un po’ di agricoltura e nel rapporto uomo e donna non prestabilisce limiti o canoni, di nessun tipo: esistono nuclei di due uomini e una donna, come di tre donne e un uomo, a differenza della maggior parte delle civiltà occidentali e orientali, tranne poche eccezioni e tutte a vantaggio dei maschi.

Secondo i concetti del mondo occidentale, gli indios sudamericani non sono affatto un buon esempio di apertura mentale, né di cultura globalizzata, ma rappresentano, un po’ per tutti, un ritardo incredibile sull’orologio della macchina del tempo. C’è da notare, altresì, che loro non hanno la pretesa di essere qualcosa di somigliante ai nostri gusti.

Indio Velho, chiamava se stesso con la corta e pratica sigla IV, insegnando il francese, io all’inizio pensavo che fosse scritto Ives. Lui chiarì e poi si corresse subito, dichiarando che nessuno avrebbe mai avuto motivo di scriverlo e qui si sbagliava, ma non poteva saperlo.

Era uno che aveva viaggiato in diagonale per i cinque continenti conosciuti, studiato da autodidatta un po’ di tutto e vissuto con i bianchi e altri popoli di vario tipo e colore, prima di ritirarsi, come diceva lui, a vita privata.

Lo conobbi lassù nel suo boschetto, sulla collina più alta, di fronte  alla favela. Ero andato a fare un giro con il cane di un mio cliente e lui, Argo, l’aveva scovato, seduto su un sasso, con gli occhi chiusi e le mani sulle ginocchia.

Dopo avergli abbaiato per un po’, quando IV lentamente aprì gli occhi, Argo si chetò miracolosamente, poi si lasciò accarezzare da lui e io mi avvicinai, sembrava un rugoso indiano apache di un film americano, aveva anche la regolamentare fascia sulla fronte.

Dopo, quando lo incontravo, pensavo alle condizioni, spesso penose, in cui si trovava la sua gente. Eppure vedevo in lui quasi l’opposto, c’era qualcosa che li univa e che li divideva, che mi affascinava troppo: la ribellione tranquilla e pacifica a tutto ciò che gli accadeva intorno, da secoli.

Insomma, essere un indio non è mai stato facile, in Brasile come in tutta l’America Latina, ora coma prima. 

Però IV aveva deciso di essere prima di tutto un essere umano e una persona, vincendo la resistenza di secoli di mentalità completamente estratta da quelle classiche occidentali o anche di altri tipi di popoli. Secondo lui un indio era solo un indio ed era diverso da tutto e da tutti, questo almeno nella gran maggior parte dei casi. IV aveva scelto la sua strada senza protestare, non avevo mai conosciuto nessuno più soddisfatto di lui, eppure sapeva benissimo tutto ciò che era successo prima, quello che stava succedendo in quel momento, anche meglio di me, quello che sarebbe successo poi.

La logica per lui risolveva tutto, filtrata dalla sua filosofia, certo, a sua volta derivante dalla sua esperienza di vita.

“Come va l’esistenza?” Mi disse con uno sguardo indescrivibilmente pacifico e serio.

“Bene, bene… stavo facendo un giretto.”

“Bravo. Ti piace la natura, eh?”

“Mi piace sì, vivo in quella casa là nella favela, sull’altra collina, vede?”

“Ah sì, ma non c’è bisogno di darmi del Lei, uomo, non che me ne offenda, via… insomma fai come vuoi.”

“D’accordo.”

Indio Velho, autonominatosi senza cerimonie Sceriffo della palude collinosa, viveva lì, in una baracchetta di legno che aveva appena lo spazio per stare sdraiati su una brandina e per un rudimentale fornello a legna che si era fatto con le pietre.

Quando potevo mi trasferivo volentieri nello spazio e nel tempo, in quel luogo ideale e calmo, insieme al cane Argo o da solo, verso quella piccola palude romantica, che era sulla collina di fronte alla mia favela.

C’ero stato spesso, anche prima di conoscere IV, ma ora avevo un motivo in più per andarci, almeno una volta alla settimana, a fare un giro, era un boschetto incontaminato in mezzo a un banhado, una specie di palude periodica del Brasile.

Lassù dove i tramonti mandavano una luce primitiva e autentica, piena di bellezza incantatrice, i rumori delle automobili e sirene della polizia e di ambulanze parevano lontani, il vento fischiava un poco di più, insetti e uccelli dialogavano intrecciando i loro rispettivi ronzii e cinguettii sotto il sole che andava e veniva, tra le nuvole basse. Mai viste nuvole così basse come in Brasile.

Argo, il cane, si godeva la libertà della natura e correva soddisfatto di qua e di là, con la lingua penzoloni.

Anche da prima che me ne andassi in Europa avevo sempre sentito il bisogno di uno come lui, cioè mi mancava e non lo sapevo, lo scoprii appena lo trovai.

Per esempio perché potevo chiedergli cose e ricevere in cambio delle signore risposte articolate, IV addirittura mi ascoltava quando parlavo e non m’interrompeva. Se gli chiedevo qualcosa pensava bene alle parole che stava per dire, ci metteva un bel po’, a volte pareva che non avesse nemmeno udito la mia domanda. Poi gli uscivano delle robe magari utili e illuminanti, riguardo i miei recenti interrogativi, oppure anche semplicemente per intavolare una conversazione interessante, o solo piacevole. Era già difficile trovare qualcuno che avesse tempo, in più lui ci metteva una serie di altre qualità entusiasmanti.

Indio Velho aveva una grande esperienza in conversioni, si era sempre dato, anima e corpo, a quel che credeva. Quello che aveva imparato, di conseguenza, era forse il contrario di quello che la gente normalmente faceva. IV diceva che era bello capire e riconoscere di aver sbagliato tutto fino a quel momento, perché ricominciare ci faceva sentire vivi. L’umiltà di ammettere il proprio errore era fondamentale per riuscire a imparare qualcosa di utile, per l’immediato futuro. Trincerarsi sulla propria posizione era quanto di più idiota poteva esistere, era come tapparsi gli occhi, infilare la testa in un buco, come gli struzzi, di fronte al pericolo. Spesso la gente agiva così, per debolezza, per non affrontare la necessaria rivoluzione che ne sarebbe sortita fuori.

Questo vecchio saggio rappresentava un’essenza atavica e filosofica, per la cui esistenza nessuno avrebbe mosso un dito, là in basso, dove io passavo le mie giornate di lavoro. Era un esperto attraversatore del mondo, uno che poteva dare regole e mostrarne addirittura l’applicazione, non c’erano in giro molti esseri umani del genere e, disgraziatamente, non se ne sentiva affatto la mancanza, perché non si aveva nemmeno il tempo di pensarci.

IV chiamava le persone che vivevano là sotto i Valligiani, mentre io, che abitavo in collina, ma lavoravo soprattutto in città, ero un Collinare, il mio vicino, di cui gli parlavo spesso, era un Valligiano, perché abitava in collina, sì, ma gli sarebbe piaciuto abitare in città. Lui, Indio Velho, era un Montanaro. Nessuno pensava alla saggezza, tra i Valligiani, i Collinari forse ci riflettevano un poco di più, per motivi puramente geografici e per certe necessarie conseguenze. In montagna ecco che avevamo i pochi casi conosciuti di umani persi in un mondo in cui non si faceva male a nessuno e si ragionava del più e del meno, senza pestare i piedi al proprio prossimo, non perché ci piacesse, il prossimo, non necessariamente, ma perché faceva parte di una certa maniera di essere.

Indio Velho parlava un portoghese perfetto, con grande varietà di vocaboli, ma conservava un tipico accento indio. Aveva la faccia liscia, senza rughe, gli occhi diagonali, non era un selvaggio, ma aveva scelto di vivere nei boschi del Morro Teresinha, perché la sua idea di vita, in progressivo cambiamento, glielo aveva suggerito e per questo era un esempio refrigerante e rigenerante per me, che passavo le ore perso per le rumorosissime vie della capitale, in mezzo a gente anche piacevole, simpatica e tutto, ma un po’ troppo agitata e che faceva agitare anche me. IV diceva che in genere, la gente non sceglieva, s’infilava in un tunnel di situazioni concatenate e usciva, viva o più frequentemente morta, molto tempo dopo, dall’altra parte.

Indio Velho era un indio vecchio, lo diceva il suo nome stesso in portoghese, saggio come un diavolo di angelo bonario, che viveva di non so quali alimenti, giacché non me ne voleva parlare mai,  anche se glielo chiedevo sempre, su una collina ai limiti della grande città.

Mi piaceva vederlo mentre si cibava di valori veri e dimenticati nella corsa al denaro, nel giorno per giorno dell’uomo comune che, secondo lui, era una specie in estinzione, che veniva progressivamente sostituita dall’uomo banale, l’uomo che non sapeva quello che voleva, ma lo voleva fino in fondo, perché credeva di non avere alternative. Per IV, vivere male significava non concedere a se stessi più di una opzione possibile.

Per andare a trovarlo dovevamo risalire la collina a piedi, il cane ansava e bilanciava la lingua verso il basso, io avevo una lingua più corta e i miei polmoni faticavano a mantenere il ritmo, ma a differenza di Argo, potevo sudare e già che c’ero, sudavo a volontà.

Arrivati sul falso piano, usciti dal bosco grande, dovevamo attraversare la palude, di acqua non ce n’era molta, ma era seminascosta da questa specie di giunchi, era sufficiente per bagnarsi fino ai ginocchi, se si incappava nella pozza giusta… o sbagliata. Ecco che dovevo studiare meticolosamente ogni mio passo, Argo invece ci s’infilava dentro, per lui pareva una goduria, che in un certo senso gli invidiavo. Lui superava le punte vegetali di una testa, ma la sua era una testona triangolare e in più le sue orecchie ritte sfidavano ancora di più il cielo. Entrati nel boschetto lui sapeva già dove andare e lo seguivo, perché io invece mi sarei perso, non c’erano viottoli, certo quell’uomo non amava fare due volte lo stesso percorso… ma lui sentiva l’odore di Indio Velho, mentre io non lo distinguevo dall’odore caratteristico che c’era in giro, di natura più meno selvaggia.

L’umidità era forte e odorosa di muschi e acque ferme, c’erano degli avvoltoi che volteggiavano nel cielo, li vedevo apparire e scomparire tra i rami, mi pareva di sentire dei tamburi, ma forse era il mio cuore che batteva troppo forte. Mi fermai a riposare un momento. Quando il mio respiro ritornò alla normalità, sentivo un improbabile rumore alla mia sinistra e girandomi scoprii Indio Velho che stava placidamente voltando la pagina di un libro, seduto su una pietra larga e piatta e disegnata dai licheni di vari colori e consistenza, in una minuscola radura dove il sole, fuggito per un attimo dalle nuvole, riusciva a battere su pochi metri quadrati di terra erbosa, forse solo per qualche minuto.

Indio Velho mi guardava profondo e serio, chiuse il libro lentamente, accarezzò il cane, i suoi occhi come due fessure, c’era una pace liquida e sonnolenta, la luce era dorata, a fette, il verde attorno vivissimo.

“Olà professore di lingua e cultura francese.”

La sua voce pareva adattarsi bene alla natura circostante, la mia invece era meno armonica, spezzava la qualità di quel silenzio fatto di mille piccoli rumori, sarà stata colpa dei miei polmoni stanchi:

“Olà Indio Velho, come va la vita in mezzo alle frasche?” Gli dissi avvicinandomi.

“In mezzo alle frasche niente di nuovo, perciò la vita va bene, si riesce a leggere e anche a meditare, a fare un’osservazione minuziosa e piacevole della natura, la respirazione funziona a dovere anche perché la facciamo quasi esclusivamente col naso, le orecchie filtrano i sussurri della boscaglia e da lontano si sentono gli infernali rumori che fate voi laggiù, scoreggioni, che dite di correre dietro alla felicità…”

“Sì, lo so, siamo gente abituata non solo ai rumori forti, vogliamo emozioni violente, la televisione sempre accesa e a tutto volume, e se te li portassi qui, i Valligiani, il tuo silenzio li farebbe impazzire…”

“Il silenzio non è mio, è alla portata di tutti, almeno in teoria… anche se nessuno lo vuole, ma tu dici che non resisterebbero, a questo fragoroso silenzio?”

“Non lo so, non ci sono abituati, di sicuro non gli piacerebbe. Magari gli spaccherebbe i timpani…”

“Beh, allora è meglio che non ci vengano qui, pazienza.”

“Pazienza, sì, sì, ci vuole pazienza, ma tu di pazienza ne hai da vendere, mi pare…”

“Ma la pazienza nessuno la compra…”

“Hai provato a offrirne in giro?”

“Sì, ma per quanto sia preziosa, non è quotata in mercato. Ne ho immagazzinata un bel po’, l’ho mostrata alla gente e gliene ho decantato le proprietà miracolose, ma sembrano considerarla senza valore, allora sono costretto a tenermela.”

“Per me ha un grande valore, invece, potresti darmene un poco, te la pago, ne ho un gran bisogno io, con il mio lavoro…”

“Prendine quanta ne vuoi, io ne ho di avanzo, non voglio niente in cambio.”

Disse con aria solenne e poi sorrise.

Stavo pensando seriamente a come fare per prendere e portarmi via un carico della preziosa pazienza di Indio Velho, ma la soluzione si trovava già in questa pausa del dialogo, solo a vederlo mi veniva naturale e automatico essere più paziente e tollerante, esattamente come a vedere certe persone stressate mi stressavo anch’io, queste cose magari erano trasmissibili o forse anche contagiose…

Quando mi sentii di aver immagazzinato abbastanza pace e serenità, poi gli domandai:

“Ma tu, piuttosto, non ti senti solo, qui?”

“Mi sono già sentito solo, all’inizio, ma per fortuna avevo avuto tanta compagnia, prima, ora è stivata in deposito, tu non lo sai, ma io ho attraversato il mondo, in lungo e in largo, ne ho conosciuta di gente, sono un po’ stanco di tutto quel parlare, sì… parlare è bene ma stare zitti ha anche il suo fascino… quelli che parlano di più sono quelli che hanno meno da dire, la conversazione è un’arte, ma la gente ha bisogno di fare tutto alla svelta, non ha tempo e poi, quando ne ha, pensa ad altro… comunicare è importante e necessario, ma dovrebbe essere anche un piacere. Invece è diventata esclusivamente una necessità. Ed ecco che il suo fascino è diminuito, almeno per me.”

Il sole stava scendendo e nella boscaglia stava diventando sorprendentemente assai meno caldo, Indio Velho si alzò e io lo seguii, camminammo insieme senza parlare.

La sua presenza era rassicurante, per me, non come quella di una guardia del corpo, cosa da Valligiani, ma piuttosto come quella di una guardia della mente, che era invece roba da Montanari.

Uno che sapeva attraversare ogni quesito con il suo ragionamento, la sua filosofia personale, senza pretendere di risolverlo, senza dover credere che tutto avesse necessariamente una risposta urgente o definitiva.

Insieme a lui non mi sentivo in dovere di parlare, riusciva a trasmettermi la sua energia quieta a sguardi, a gesti, anche nella sua immobilità in mezzo al cinema esotico della natura circostante.

Usciti dal boschetto, attraversata la salita coperta da erbe basse, certo spuntate da poco e di un verde chiaro vivissimo, arrivammo su un altopiano più largo, vicini al crinale, il vento era aumentato.

Ci sedemmo su una pietra, dove il vento sembrava più caldo, nella boscaglia invece l’aria era ferma e umida.

I suoi occhi si spostavano lentamente attorno e il suo naso sembrava fiutare a lungo, come quello di un cane:

“Hai sentito qualche odore o qualche variazione nello spazio e nel tempo?” Gli domandai ironicamente.

“Sì. Domani pioverà, o forse stasera, o stanotte.”

“Come fai a saperlo?”

“Aria di pioggia, dal lato della laguna, di là gli odori arrivano in anticipo.”

Non mi sorpresi, in città non ci riuscivamo più a sentire gli odori della natura, ma una volta la gente era più legata a queste cose. Indio Velho era come un vecchio cane selvatico della boscaglia, sentiva tutto e tutto aveva il suo bravo significato, là in mezzo, per lui.

Là sotto, nella grande città, invece noi barcollavamo nel buio, non capivamo la metà di quel che ci succedeva, eravamo barchette in mezzo alla tempesta.

Indio Velho fiutava e vedeva e ascoltava, era sempre padrone del suo presente e non pensava troppo al passato e al futuro.

“I cani lo fanno ancora. Fiutano. Loro non perderanno mai il loro contatto con la campagna, il loro bagaglio di memoria gli viene trasmesso, istintivamente e spontaneamente. Noi da piccoli dobbiamo imparare tutto, gli animali invece hanno tante nozioni acquisite dai loro predecessori, che sono praticamente autosufficienti da subito, noi invece, senza i nostri genitori moriremmo, nei primi giorni.”

“E allora?”

“Allora la nostra scarsa attitudine fisica, ai primordi, ci ha fatto sviluppare l’intelligenza.”

“Secondo te eravamo predestinati?”

“Non lo so, ma se fossimo stati ugualmente abili a procacciarci il cibo, come gli altri animali, forse ora non saremmo così complessi.”

“Questo sarebbe il famoso elogio all’inferiorità?”

“Esatto, ma se ora abbiamo sviluppato tutto questo progresso attorno a noi, ci siamo distanziati da loro, gli animali, e dalla natura e siamo diventati di nuovo inferiori, è perché non stiamo bene…”

“In che senso?”’

“Non capiamo più qual è il senso della vita.”

“Ma come, non è il denaro?” Chiesi con uno stupido sorriso indagatore.

Indio Velho sorrise, guardò lontano, dietro alle mie spalle, diventò serio e pensieroso, forse perché laggiù il denaro dettava la sua inesorabile legge. Era forse proprio per quello, per le sue dannate e ramificate conseguenze, che lui aveva scelto di vivere lassù.

“Il denaro è il prezzo della vita, non mi ricordo chi lo ha detto, ma credo che sia vero. Io però, credo che il senso della vita sia da cercarsi nella natura, più ce ne allontaniamo e meno ci sentiamo bene.”

“Allora tu cosa suggeriresti?”

“Di cambiare argomento.”

Tre giorni dopo, nella mia visita seguente, iniziammo a parlare dei giovani. A proposito dei giovani, lui voleva che gli raccontassi i dialoghi che sentivo in giro per la città, lo facevano ridere, si divertiva e diceva che imparava tante cose nuove, specie quando riuscivo a trovargli qualche storia inedita.

Quel giorno ne avevo una che forse gli sarebbe piaciuta:

“L’altro giorno ho sentito una conversazione interessante per strada.” Proposi, con sguardo intrigante.

“Tra giovani?” M’incalzò avido Indio Velho.

“Giovanissimi.” Dissi orgoglioso di me e del mio ruolo di testimone della società moderna brasiliana.

“E com’è stata?”

“Rapida, ma simpatica e indicativa.”

“Sono pronto. Raccontamela allora. Che diavolo aspetti?” Disse preparandosi seduto Indio Velho.

“Sì, va bene, ma non c’è bisogno di sedersi, è velocissima.

Dunque: ieri pomeriggio c’erano due ragazzine che passavano camminando davanti a me, avevano forse quattordici o quindici anni, non lo so, siccome avevano quasi la mia stessa velocità di passi, prima che attraversassero la strada, le ho sentite raccontarsi le loro cose… e qui devo dirti che, per loro, quello che dicevi, qualche giorno fa, della necessità del comunicare e dello scarso piacere nel farlo, non vale, sembravano veramente contente di parlare tra di loro…”

“E che dicevano, che dicevano?” Domandò lui.

“Bene, una di loro, quella che parlava di più, ha iniziato: ieri ho incontrato Mello, e lui mi ha detto: Perché non facciamo non so cosa, non so quando, uno di questi giorni, magari, insieme?

“Ah, bello, e lei che cosa ha risposto?” Chiese Indio Velho.

Ma quanto tempo ci vuole? Ha domandato. Già che la seconda ragazzina glielo aveva chiesto immediatamente, come te."

“E l’altra, e l’altra?” Domandò IV.

“Ah, questo non lo so! Ha risposto la prima ragazzina.”

IV rise, lo sguardo alto oltre di me, come se si immaginasse la scena, per qualche secondo. Poi disse entusiasta:

“Meraviglioso, piccola-grande storia, sei un grande osservatore. Questo è uno stupendo esempio di stringata banalizzazione moderna, pieno di mancanza di significato e perciò autenticamente significativo e significante, ma… a proposito: cosa diavolo significa?

Magari ti dico la mia interpretazione: i giovani non specificano più le situazioni che già appartengono a schemi standardizzati e conosciuti da tutti e si riferiscono a essi con parole e frasi cortissime e convenzionali.

(Un po’ come la barzelletta del club dei raccontatori di barzellette, che ormai le raccontavano citandole e ridendo usando i loro relativi numeri di riferimento dopo averle catalogate…)

Insomma, le persone nel mondo globalizzato pensano di non avere tempo per stare a conversare e allora usano i nomi per le situazioni, avendole da tempo catalogate e divise in categorie… la totale assenza di specificità appiattisce e semplifica tutto, senza doversi dilungare in descrizioni noiose e fuori moda, dato che il tempo corre… Fenomenale.” Aggiunse lui cercando forse in me una qualche reazione.

“Fantastico.” Dichiarai io, con un malcelato poco entusiasmo.

“Incantevole.” Terminò Indio Velho con autentica e grande gioia bambina.

“Ma questo non è anche un poco triste?” Rincarai allora, da mezzo avvocato del diavolo, per capire meglio cosa ne pensava Indio Velho e perché pensavo, in fondo in fondo, che fosse triste veramente.

“Non lo so se è triste.” Disse lui. “Ma la gente è così, specialmente quella giovane che studia e quella che lavora, mi pare che veramente non abbia tempo, per conversare come vorrebbe e comunque non ci è più abituata. Non si sente più quel piacere di una volta nella conversazione, nella modernità tutto si frammenta, tutto diventa rapido e necessario, allora si va al passo con i tempi, oppure si viene lasciati indietro e dimenticati. Basta pensare ai computer, all’economia virtuale, ai dialoghi tra persone che lavorano, ai cellulari e ai messaggi di testo o di voce, agli incontri rapidi e in più interrotti da continue telefonate, la comunicazione sta correndo come impazzita, per forza diventa uno stereotipo, perché la descrizione sarebbe molto più lenta, no, no, si deve sintetizzare al massimo, per mantenere il ritmo…” Aggiunse lui, con entusiasmo, come se fosse una catena di cose positive.

“E questo non è malinconico?” Domandai io.

“Forse sì o forse no, ma quello che noi dobbiamo pensare è che la natura stessa non si fa questa domanda, va avanti e non pensa alle soluzioni, ma vive la sua realtà dolorosa o meravigliosa che sia, dipende dai punti di vista, la natura non ha punti di vista è qualcosa di enorme e mischiato, e in movimento. Io cerco di ragionare in questa maniera, essendo io stesso poco ragionevole ma assai pratico, le soluzioni per me sono diventate automatiche, da qualche anno a questa parte non ne ho più, di decisioni, tutto si muove da solo. Come la mia maniera di isolarmi, che non è stata cosciente né improvvisa, ma il risultato di tutto quello che ho vissuto prima, sommato al mio carattere, alle condizioni di vita che stavo attraversando…”

“Ma per fare così bisogna un po’ disumanizzarsi…”

“Certo, ma non fa così male come si pensa, animalizzarsi un poco, perché è il ritorno alle nostre origini, io sto meglio ora di prima, certo non posso consigliarlo a tutti, ma chi se ne importa?”

“E allora non ti rattrista per niente questo processo di diminuzione del valore della cultura? L’appiattimento del dialogo, la morte della piacevole conversazione?”

“Forse sì, ma solo se fossero cose prese separatamente.”

“Che cosa vuoi dire?”

“Voglio dire che tutta questo progressivo peggiorare è solo una sensazione di gente che è abituata a cercare i difetti e non i pregi, a separare e non a associare, ma questa tristezza la maggior parte della gente non la sente, secondo me, perché si è abituata a vivere in questa maniera…”

“Certo che l’ignoranza e la povertà, almeno qui, fanno parte della vita di tutti i giorni…”

“Non solo qui, la storia si ripete come la geografia, la religione e la storia dell’arte, sì, sì, anche come la matematica… ridi? Ma è la pura verità, amico caro, tutto è copia di tutto, io non so immaginare un mondo differente, è sempre stato così e lo sarà ancora, nei secoli dei secoli…”

“Ma noi, però, dovremmo sperare che il mondo migliori, non è vero? Magari anche fare qualcosa affinché questo possa succedere.”

“Certo sarebbe bene, ma non tutti lo possono fare.”

“Non sono d’accordo. Secondo me tutti quelli che se ne rendono conto dovrebbero fare qualcosa, attivamente, non solo parlare.” Dissi io con una certa convinzione.

“Il difficile è non guastare la propria vita, nella ricerca di un qualcosa del quale probabilmente non vedremo risultato.

Beh, il mondo è stato infelice sempre, più o meno come ora, anche se in maniera differente, si può scegliere un’epoca preferita del passato, ma non si sa se le persone erano più felici di ora. Si potranno sempre migliorare alcune parti, ma allo stesso tempo altre peggioreranno, almeno dal nostro punto di vista. Dal punto di vista di altre persone, invece, proprio le cose che per noi saranno peggiorate, per loro sembreranno migliorate e ogni cosa e il suo contrario si avvereranno puntualmente, insieme alle mezze misure, nelle minuzie come nelle cose importanti, ci sarà eternamente una mistura confusa, sarà sempre difficile trovare la verità, ognuno ne avrà sempre un’idea differente, in un momento, e in un altro sarà già cambiato.

Per esempio: siamo abituati a dire come nostre le parole di un commentatore televisivo, a crederci veramente come se fossero nostri pensieri, le frasi udite in giro e che ci sono piaciute, ma il nostro pensiero sarebbe assai differente se veramente conoscessimo i fatti e non le notizie… perché i fatti sono già stati presi e filtrati, mangiati e digeriti da quel giornalista, che magari parla così per un suo interesse personale, per proteggere o promuovere qualcosa o qualcuno. ”

Rimanemmo zitti per qualche attimo, gli uccelli cantavano forte, erano in tanti, mi pareva che ci fosse in loro una particolare agitazione. Me ne accorgo solo ora, che Indio Velho mi aveva aperto una nuova porta, come sempre. Insistere nel mio punto di vista però mi portava a capire meglio, a sviscerare più completamente possibile l’argomento, come se immaginassi il punto di vista di chi sta di fronte a me e come se le parole di IV fossero le mie. La pausa finì quando io gli dissi:

“Ma quella maniera di parlare, se ho ben capito, non ti piace, così rapida, disturbata, frammentata, sintetizzata, senza personalità. Se la gente vive in questa maniera, non è peggio anche per noi?”

“No, o almeno solo in parte, quella è la loro vita, come potremmo fare per uniformare il nostro pensiero a quello di loro? E anche se potessimo, non può essere che in alcune cose loro abbiamo ragione e noi torto? E poi noi chi siamo? Tu sei diverso da me, siamo tutti diversi… anche se ci sforziamo di apparire uguali.”

“Va bene, va bene, ma vedere gli altri che stanno male non fa stare male anche noi?”

“Sì, in un certo senso, ma è la condizione dell’uomo, se anche tutti gli uomini stessero bene, non sentiremmo pena per gli animali? Se potessimo anche risolvere tutti i problemi animaleschi, poi le piante e le pietre ci parrebbero sfruttate e mal retribuite della necessaria e dovuta gratitudine… la pietà, insomma, nel senso classico, la compassione, certo, è bene avercela… ma non dobbiamo esagerare, prima di tutto perché non siamo per niente onnipotenti.

Come fanno gli stessi animali? Il tuo cane, per esempio - sì, lo so che non è tuo - pensa a se stesso, o forse nemmeno a quello: cammina, abbaia, mangia, poi dorme, se glielo lasci fare si procrea e non pensa mai, tanto per dire, a come sta male il cane del vicino che invece è legato e non può nemmeno farsi un giretto per il terreno recintato, e che nessuno lo accarezza mai…

Ecco: la pluralità porta la diversità e la diversità è più da accettare che da capire, il senso della vita è godersi la bellezza che c’è in giro, approfittare di quello che abbiamo e non stare a riflettere troppo su quello che non abbiamo noi o che gli altri non hanno. In sintesi, se noi stiamo male per gli altri, è solo perché non sappiamo dare, a loro o alla situazione, la opportuna collocazione nell’ordine delle cose. Invece, se le dedichiamo un po’ del nostro prezioso tempo, formiamo la nostra filosofia personale e solo allora possiamo accettare, perché allora non è più una cosa passiva, ma attiva. Ecco che possiamo aiutare gli altri, non dico materialmente, ma anche solo con la nostra presenza, una frase, una parola… cosa che non possiamo certo fare se stiamo in pena, se soffriamo, se la vita ci pare ingiusta e penosa, il bene che potremmo fare si tramuterà in dolore, questo sarebbe ciò che doneremmo agli altri, solo che di questo nessuno ne ha bisogno, però.”

 

 

Omero 66

 

Berlino è una città affascinante, non solo per gli edifici, le statue e i parchi, ma anche per la storia della Guerra Fredda, le spie, il Ponte Aereo e il famigerato Muro.

La collina di Kreuzberg, traduzione: la Montagna della Croce,  è stata fatta con l'accumulo delle rovine ammonticchiate della città distrutta dai bombardamenti.

La strada dove c'è il ristorante, la Duden Strasse è un lato alla base della collina, una parte della città delle comunità studentesche e popolata dai turchi, quindi la più alternativa e vivace.

Berlino può sembrare un città fredda, all'inizio non ti accoglie a braccia aperte, ma ci si sta bene, funziona come deve funzionare una grande città, c'è tanto verde e ci sono parecchie opzioni per tutto ciò che è importante.

 

 

 

 

 

 

 

 

Ute (10 pagine)

 

 

Questa testimonianza non l’ho scritta io, ma il marito di un'amica della mia amica di Hannover che non vuole essere citato. Qui i fatti dovrebbero essere tutti veritieri e comprovabili.

 

Nella mia routine di ogni giorno, cerco di capire gli esseri umani e meno ci riesco e più mi appassiono all’argomento.

Leggo riviste specializzate e mi studio persino i grafici, confronto me stesso e la mia esperienza attiva nel mondo degli umani, pratiche e teorie, parole e omissioni: assordanti silenzi.

Ogni tanto mi chiedo come fanno le persone senza scrupoli a dormire la notte.

La risposta è nel modo in cui certe cose agiscono dentro la mente, quindi anche nel corpo del vivente, si capisce bene che a loro non fanno male, ma non è affatto un calcolo o una scelta comportarsi così.

In maniera retroattiva si riesce a comprendere, eppure non a prevenire, i meccanismi non sono semplici e soprattutto non agiscono alla stessa maniera sui differenti soggetti.

Sempre accanto a me, mia moglie non condivide affatto la passione per l’antropologia maccheronica, spesso mi prende in giro e confesso che mi ci diverto anch’io a discutere tesi che non riesco a dimostrare nemmeno a me stesso.

Almeno abbiamo un argomento che ci tiene impegnati, Lena è l’unica persona con cui parlo abbastanza, tutti i giorni, specialmente durante i pasti, la mattina e la sera a letto.

Ci accomuna soprattutto un determinato senso dell’humour, prendiamo sul serio tutto e niente.

Normalmente lei però tende a dimenticare quello che ci siamo detti, e anche la mia memoria non è più quella di un tempo, per cui registro di nascosto le nostre conversazioni.

Il fatto è che poi lei dice che mi sono inventato quelle cose e poi mi vengono dei dubbi anche a me.

Non che m’interessi di aver ragione, fino a poco tempo fa non le avevo nemmeno detto niente, ma grazie al mio trucchetto ho potuto registrare il nostro dialogo, avvenuto a letto, la sera verso le 22, mentre sorseggiavamo camomilla e ascoltavamo musica classica a basso volume.

Inutile dire che è diventato un documento storico, per quello che si è saputo dopo.

 

Di solito sono io che lancio l’argomento, Lena è più stanca, passa la sua giornata in mezzo alla gente e ha meno voglia di parlare:

-Sai che cosa ho scoperto oggi?

-No.

-Indovina.

-Che ne so?

-Prova a indovinare.

-Vediamo: oggi sei uscito, quindi possono essere successe tante cose, molte di più del normale, di quando stai a casa, cioè nel 99% dei casi. Che non rispondi nemmeno al telefono…

-Non è vero, magari non mi scapicollo per arrivare in tempo… e poi a volte non riesco proprio a comunicare con questi forsennati che chiamano per vendere qualcosa.

Se ci metto un secondo per pensare, poi, prima di rispondere, figurati che pensano che io abbia riattaccato…

-E a volte riattacchi veramente.

-Nooo, e chi te lo ha detto?

-La mia nuova amica Gudrun…

-È bavarese?

-Sì, sei per caso diventato razzista?

-No, figurati, solo che la maggior parte di quelle che telefonano dai Call Center sono di München…

-Va bene, la prossima volta le dico di fare un accento della Pomerania…

-Così avremo risolto anche questo caso.

Tornando a noi, non riesci proprio a indovinare che cosa può essere successo oggi di sconvolgente?

-Non lo so, lasciamici pensare in maniera logica, con calma. Oggi, io, per esempio, so che sei andato dal dentista, non è che avevi appuntamento anche con Hieronimus?

-No, ma la mia scoperta riguarda tutti e due, ma in maniera diversa, questi stimati professionisti.

Stimati da te, almeno, non da me.

-No, certo, quando mai? Allora che hai scoperto? Che sei omosessuale e che da grande vuoi fare il dentista?

-Vabbè, vedo che stai pensando ad uno scherzo, ma invece è serio, piuttosto drammatico direi…

-Come sei sempre esagerato… Allora, me lo vuoi dire tu? Vedi che mi sto cominciando a preoccupare…

-Brava! Proprio preoccupata devi essere, perché ce n’è motivo, te lo dico io…

-Mi vuoi dire finalmente di cosa stiamo parlando?

-Sì, hai ragione, te lo dico subito: Hieronimus è uno psicopatico.

-Come uno psicopatico? Ma se è uno psichiatra…

-Infatti, questo è il tragico della commedia della vita, della sua assurda ma a volte divertente mistura di tragedia e commedia…

-Non dire cretinate. E poi, come è che tu hai potuto fare una scoperta del genere? Perché proprio oggi?

-Beh, oggi dal dentista, ho dovuto aspettare una mezzoretta, quindi come al solito mi sono attaccato alle riviste, ce ne erano di nuovissime, ancora cellofanate ed allora ne ho scelta una pseudo-scientifica… non mi ricordo come si chiama, ma è una nuova, non l’avevo mai vista.

-Una rivista mai vista, interessante...

-SUPER-INTERESSANTE! Ecco come si chiama!

-Bel nome, veramente, originale e per niente sensazionalista.

-Tutte lo sono, il mondo occidentale è diventato così, le notizie sono merci da vendere e nient’altro.

-È vero. Quindi è stata questa rivista che ti ha sussurrato in un orecchio che Hieronimus è psicopatico?

-Non direttamente, ma mi ha fornito un identikit sorprendentemente perfetto, combacia troppo bene per non essere vero…

-Tu sei fuori di testa.

-No, NOI siamo fuori di testa, tu perché mi obblighi a queste sedute con uno psicopatico con il codino e i capelli corvini (così neri che sembrano tinti) ed io che so che non ne avrei bisogno, nemmeno se fosse una persona degna, la qual cosa non è.

Solo perché, ora che sono in pensione, non esco e me ne sto qui tranquillo tutto il giorno, allora per te è un motivo di preoccupazione.

Se ti ho assecondato finora, lo ho fatto per te, per farti stare tranquilla, magari anche perché ero curioso, ma ora non mi chiedere di continuare.

-Il mondo è rimasto uguale a prima, come te lo devo dire? Chi è diventato eccessivamente critico sei tu, uomo perennemente in pantofole e vestaglia di raso.

-Questo lo dici tu, vedi che il mondo è peggiorato forte, rifiutarsi di guardare le cose in faccia non serve.

-Sei tu che ti rifiuti di uscire, non io.

-Esco solo quando è necessario. A che serve uscire se poi dopo ci si limita a fingere che tutto vada bene, che niente sia cambiato?

-Quella che finge sarei io? No, caro, bisogna cercare anche di essere positivi no? Chiudersi in un bunker non ha senso.

Ma, aspetta un po’, perché dicevi che SIAMO fuori di testa? Pensavo che tu insinuassi che lo sarei stata solo io, da come sei partito…

-Infatti, ma sono fuori di testa anch’io, solo perché ti do retta e acconsento a farmi scandagliare il profondo del mio essere da un pazzo che magari è pure pericoloso…

-Ma che pericoloso? Se me lo ha raccomandato Karl! Eppoi è l’unico disposto a fare visite a domicilio...

-Che meraviglia! Due motivi più che validi: ecco da chi è venuta la raccomandazione, da uno che ha passato la vita sdraiato sul divanetto ed è diventato sempre più scemo… se tu me lo avessi detto prima mi sarei rifiutato, stai sicura.

-Non ti è simpatico, lo so, ma Karl è una persona intelligentissima…

-Su questo posso anche essere d'accordo, però si comporta come un idiota, da chi ha imparato non lo so, certo che i suoi vari terapeuti sono stati capaci solo di farlo diventare sempre più cretino.

Sembra quasi un finocchione.

Non ho niente contro i finocchioni autentici, intendiamoci, ma quelli che lo sembrano e basta, per fuggire da qualcos’altro... vabbè, ogni caso è a sé stante.

-Lo so, la vita ci delude spesso, non è quasi mai come ce la eravamo immaginata…

-No, ma è inevitabile, guarda: in alcuni casi sembra che ci si sforzi proprio perché le cose vadano male, la maniera di cercare la felicità unilateralmente e in maniera ossessiva porta per forza ad una profonda infelicità…

-Sì. Sì, me lo hai detto miliardi di volte. Torniamo a noi: che diceva la rivista?

-Diceva che lo psicopatico non è sempre un delinquente, come tutti pensano, anche se in prigione se ne trova la maggior percentuale, cioè il 20%.

Può essere una persona gentilissima, manipolatrice, arrivista, che non lega con nessuno e sa capire meravigliosamente bene i sentimenti degli altri e come sfruttarli alla perfezione, anche se lui, lo psicopatico, non ne ha.

Ma è proprio questo il suo trucco.

-E questo identikit sarebbe quello di Hieronimus? Ma se è una persona stupenda, solare, sempre allegro, intelligente e disponibile…

-Scusa, ma tu lo conosci? Mi avevi detto di no...

-No, l’ho solo incrociato un paio di volte, che però mi hanno confermato questa impressione, chi me ne ha parlato e in termini entusiastici è stato proprio  Karl…

-Ecco, come volevasi dimostrare.

-Cosa?

-Cencio ti dice che Straccio è una persona eccezionalmente positiva e tu cosa fai? Gli credi? Sono due grandi falsi, te lo dico io, solo che Karl è fondamentalmente buono, il suo problema è l’abbondanza di sentimenti che gli provoca una turbolenza di confusione in testa… ma Hieronimus no, è sottile e a volte perfino impercettibile, ma se solo si rende necessario ecco che ti passa addosso come un caterpillar e ti schiaccia… e sai perché? Non ha sentimenti, ha sempre ragione lui, perché è determinato e se si fissa che qualcosa è come dice lui e non come dici te, è meglio che ti scansi, sennò sono cazzi tuoi… a forza di frasi e insidie verbali ben mirate, ti mette k.o.

-Non è che invece sei tu che esageri? Non sarebbe la prima volta. Fammi qualche esempio pratico.

-Niente di trascendentale, sempre piccole cose, infatti non ti ho mai detto niente, ho sempre saputo che gli psicoterapeuti hanno un carattere forte…

Però certe robe sono indicative, lo avevo sospettato, ma ora lo so di certo.

-Allora, questi esempi?

-Beh, come sai noi due fissiamo gli appuntamenti di volta in volta, perché lui ha un’agenda molto movimentata, quindi io devo stare a quello che vuole lui ed è anche giusto, perché da pensionato posso fare quello che voglio e quando voglio, poi essendo lui disposto a venire qui, dopo tutto, non posso avere pretese supplementari…

-Va bene, ne abbiamo già parlato più volte, non c’è bisogno di spiegarmi…

-Sì, scusa, allora lui per esempio dice: ti va bene martedì alle 19?

Io dico: sì va benissimo.

Poi lui ci ripensa, dice no, martedì no, va bene giovedì alle 16?

Certo, sì, per me va bene, rispondo io.

Poi magari mi ritelefona e cambia di nuovo l’orario.

In alcuni casi è riuscito a cambiare fino a quattro volte, data e ora.

E sempre io gli rispondo di sì.

Bene, il giorno prestabilito poi non viene, o viene un’ora prima, o mezz’ora dopo, o all’orario in cui l’ora doveva terminare.

Spesso non è un problema, per me, tanto io di fissato non c’ho niente.

Ma quello che mi manda in bestia è che lui nega, dice che sono sempre e solo io a sbagliarmi…

-E non potrebbe essere?

-Guarda, la prima volta con tutta la confusione che aveva fatto mi sono ricreduto anch’io, di quello che ne avevo pensato, ma dopo, con metodo e diligenza mi sono messo a segnarmi tutte le volte che aveva cambiato e l’ultimo appuntamento, quello valido…

-E allora?

-Tu lo sai che quando io mi metto a usare metodi scientifici ho una certa capacità… non mi succede spesso, ma se mi sfidi divento di un’esattezza millimetrica…

-Non sempre.

-Quando è che mi sono sbagliato?

-Quella volta che dovevi andare a prendere Maren all’aeroporto, per esempio.

-Ma te l’ho detto che non trovavo la chiave di casa, che potevo fare? Uscire e lasciare la porta aperta? O cercare disperatamente di ritrovarla? O rimanere fuori fino al tuo ritorno?

-Va bè, sì, un fattore esterno era intervenuto in questo caso.

-Che poi eri stata tu che avevi preso per sbaglio la mia, quindi io ho dovuto cercare la tua…

-Vabbè, vabbè, ammetto che a volte faccio dei pasticci, tu sei molto più ordinato; poi, quando ti convinci che vuoi essere scientifico, sei veramente un mostro.

Ma tornando alla tua storia?

-Tornando alla mia storia, non mi ricordo dove eravamo rimasti.

-Che ti segnavi tutti gli orari metodicamente.

-Infatti, così ho fatto, ma lui ha continuato a negare, poi ha iniziato a inventare altre scuse: che mi aveva mandato un messaggio con il telefonino, per avvertirmi che non poteva venire, che aveva avuto un imprevisto.

Messaggio che io puntualmente non avevo ricevuto, o avevo ricevuto solo il giorno dopo, o solo qualche ora dopo…

-Ma tu perché non mi hai mai raccontato niente?

-Bella domanda. All’inizio mi vergognavo io per lui. Poi ho cercato di capire meglio cosa stava succedendo.

Confesso che all’inizio ho dubitato di me stesso, da tanto che questa storia mi pareva paradossale.

Pensavo che magari ero io che ero impazzito, o che Jonesco da morto mi aveva catturato e ficcato in una delle sue opere teatrali…

-Certo che te sei esagerato sempre, nel bene nel male…

-Questo è vero, la colpa diventa indirettamente mia, a volte mi ci infilo tanto che ne soffro più del necessario.

Certo molto di più di uno che non ha sentimenti…

-Ma poi che è successo?

-Poi ci ha provato anche con gli e-mail: ma il trucco era lo stesso, qui ho pensato che era solo un povero idiota, ma ancora di più lo ero io che gli davo retta.

Finché gli ho detto che era inutile continuare, che tutti e due sapevamo quale era la realtà, perché sforzarsi tanto di negarla?

-E lui?

-Ha tirato fuori delle scuse così stiracchiate che si schiantavano da sole, ha cominciato a dire che i suoi pazienti in genere facevano di peggio… cose senza senso, almeno per me, ha perso totalmente la logica… e senza mai ammettere che aveva mentito e pure ripetutamente, solo per non fare brutta figura…

-Beh...

-Intendiamoci, non che siano cose di grande importanza, ma quando siamo arrivati quasi a litigare, mi è sembrato così assurdo, che io mi metta a nudo, che io mi apra nelle cose più intime con lui, che mi faccia dire che cosa dovrei fare da uno che si comporta come un bambino, che inventa ramificatissime scuse solo per evitare di ammettere di essersi sbagliato…

-Beh, se è così hai ragione, però da questo a dire che è uno psicopatico…

-Allora leggiti questo identikit. Secondo me combina.

La donna coi bigodini si mette a leggere la rivista che l’uomo in pantofole, uscito dal dentista, aveva comprato, per guardarsela con calma.

L’articolo è di sei pagine, con varie fotografie, grafici, composizioni di figure, il tutto abbastanza sensazionalista.

“Nel 1876 Cesare Lombroso scrisse un trattato nel quale dichiarava che i criminali hanno una corporatura particolare: braccia lunghe, naso piatto e orecchie enormi. Con il tempo tutto questo si è rivelato completamente infondato. La crudeltà non è dominio di psicopatici e criminali, tutti sono capaci di crudeltà, ma non nella stessa misura. Persone con emotività esagerata e sensibilità eccessiva, che non controllano lo stress e che ritengono sempre di essere vittime di altre persone e delle circostanze, hanno una propensione maggiore alla crudeltà.

Ci sono 69 milioni di psicopatici nel mondo, l’1% della popolazione mondiale, 20% della gente che è in prigione, 86,5% dei serial killer.

È 4 volte più comune trovare psicopatici nelle imprese che nella popolazione in generale.

Lo psicopatico non ha sentimenti, ma sa riconoscere, interpretare e poi usare, meravigliosamente bene, i sentimenti degli altri.

Mostra ammirazione per il talento e per i punti forti della vittima. Vuole essere visto come l’unico che veramente nota il suo potenziale nascosto.

Identifica perfettamente le caratteristiche della personalità della vittima e finge di condividere gusti ed interessi.

La vittima, pensando di aver trovato finalmente un amico, gli confida i suoi segreti più intimi, apre il suo cuore rivelando paure e speranze.

Ultimo stadio della manipolazione, lo psicopatico crea un anello di congiunzione psicologico che promette una relazione stabile.

È superficiale, non gli importa dei contenuti, ma solo di come potrebbe venderli

È narcisista: si preoccupa solo di se stesso

È manipolatore: mente e usa le persone per riuscire ad ottenere quello che vuole

È freddo, è razionale e calcolatore, perché ha poca attività nel sistema limbico, centro di emozioni come paura, tristezza, disgusto.

Senza rimorso: non sente colpa. La parte del cervello responsabile ha bassa attività.

Senza empatia: non riesce a mettersi nei panni degli altri.

Irresponsabile: si impegna solo in ciò che gli può portare benefici.

Impulsivo: tenta di soddisfare le sue necessità al momento

Incapace di pianificare: non stabilisce mai una meta a lungo termine

Imprudente: corre rischi e prende decisioni audaci”

 

(fonte: Without Conscience - Robert Hare)

 

Forse mia moglie non aveva tutti i torti, sono sempre stato un po’ esagerato, sia nel correre troppo velocemente alle conclusioni, che poi a fondarci sopra tutto il mio credo a venire.

Secondo lei non correvo alcun rischio, e alla luce dei fatti a seguire aveva ragione lei, solo che nessuno di noi poteva saperlo.

Intanto io non mi sentivo affatto tranquillo e ho detto a Hieronimus che poteva bastare così, lui non ha protestato, credo che abbia pensato che fosse per via dei nostri attriti.

Di questo con lui non ne ho parlato, naturalmente, ma credevo che in questo caso fosse proprio lo psicoterapeuta che avesse bisogno di una robusta cura, non io.

Per quanto misantropo, solitario e diffidente sono una persona abbastanza equilibrata, almeno in vecchiaia, lo sono diventato sempre di più e lo vedo soprattutto confrontandomi con gli altri.

Ma psicopatici si nasce o si diventa?

Non lo so, però tutto il mondo occidentale, spinto dalla voglia di risultati, dall’assurdità di voler sempre crescere in spazi e tempi  limitati, si sta comportando alla stessa maniera, solo che non se ne accorge.

Insomma: magari nessuno nasce cattivo, ma è la società, quindi la vita stessa, che ti porta a delle distorsioni del tuo carattere che a volte sono da te conosciute e persino bene, ma alle quali non puoi sfuggire.

Che cosa era successo a Hieronimus Klinkenhammer, per diventare quello che era, non poteva essere troppo differente da quello che era accaduto a tanti altri, che però avevano sfogato le loro magagne in modo diverso.

Alla luce di quello che venne fuori, solo un anno dopo, certo si poteva dire che Hieronimus fosse uno psicopatico, ma di un tipo abbastanza raffinato, perché non era uno che inseguiva solo il traguardo, ma si godeva, in una certa qual maniera, anche il percorso.

Uno psicopatico in genere vede il suo lavoro solo come mezzo per arrivare a risultati in denaro e/o potere.

Invece Hieronimus amava in qualche modo distorto e abnorme il suo lavoro, tanto che lo proteggeva anche da sé stesso, come si capirà in seguito.

Quando ho messo in dubbio la sua professionalità, nel caso di orari e appuntamenti non rispettati, per la prima volta ha perso la sua sicurezza, ha inventato scuse senza senso.

Forse non volendo lo avevo colto in un punto debole.

Apparentemente era uno normale - se solo la normalità esistesse - intelligente e tutto, arguto e affabile, forse un po’ troppo solitario, ma quello non è un crimine, sennò per primo arresterebbero me.

Recitava a memoria, meravigliosamente bene e senza ridere, le battute dette dagli altri, ma io l’avevo capito che era solo un cliché, che non era tanto per divertirsi, le usava piuttosto per far credere che lui fosse quello che voleva che gli altri credessero.

Magari il fatto che avesse un codice di comportamento assai logico e pieno di buonsenso, nei limiti del possibile, gli aveva permesso di agire indisturbato per anni.

La gente sarebbe voluta più volentieri rimanere nella sua ignoranza, rispetto a questa sgradevole verità, a cominciare da Lena.

Ho saputo che diceva sempre che la realtà non aveva temperatura, Hieronimus, quando qualcuno lo accusava di interpretarla con una certa freddezza.

Alla fine sono rimasto antropologicamente impressionato, se così posso dire, oltre che da tanti particolari assurdi ma anche logici, da altri dettagli per me ancora incomprensibili.

Delle sue venticinque vittime ora si sanno vita morte e miracoli, compresa la tecnica usata con ognuna di esse, attraverso giornali e programmi televisivi che si fanno grassi sulla morbosità della situazione.

La sua etica professionale comunque è fuori questione: si è scoperto che non ha ucciso nessuno dei suoi pazienti, nemmeno un ex.

Del movente quindi nessuno ci capisce niente, Hieronimus ha massacrato delle persone di tanti tipi differenti e che non si conoscevano tra di loro, alcune lui le conosceva, altre no.

Un serial killer colpisce una determinata categoria, qualcuno che fa parte di un folle disegno, spesso dalla logica complessa e distorta, ma alla fine, col senno di poi, comprensibile.

Qui sembra che le vittime siano state scelte a caso, oppure facevano parte di quella larghissima fascia dell’umanità che non erano mai state, nemmeno per un secondo, in cura da lui.

Era questa la loro colpa?

Forse no, pare che anche chi dimostrasse un qualcosa a lui simile all'amicizia veniva risparmiato.

Sparita nel nulla la donna bella e assai più giovane di lui, che talvolta lo accompagnava, pare che non fosse affatto sua figlia. Era una sua vittima o una complice?

E poi complice di cosa?

 

 

 

 



 



Comments